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La superba filatrice

di Marco Zonetti - 01/09/2014

Fonte: Arianna editrice


Non ci si stanca mai di contemplare i grandi quadri di Diego Velázquez, ambigui e autoriflessivi come dev'essere un'opera d'arte secondo Umberto Eco nel "Trattato di semiotica generale". In particolare "Las Hilanderas" (Le filatrici), che ha per sottotitolo "La favola di Aracne", personaggio mitologico esemplare della Hýbris umana.

In questo quadro/sciarada tipico della sua arte, Velázquez ritrae il tragico mito della tessitrice Aracne in un doppio scenario, a rappresentare la duplicità dell'inganno di Athena, sfidata dall'orgogliosa fanciulla protagonista in una gara di filatura che vedrà un triste epilogo: Aracne sarà trasformata dalla dea nell'animale tessitore per eccellenza, il ragno, gettando una maledizione su tutta la sua stirpe.

Secondo il mito, il crimine di Aracne, lodata per la sua arte di filatrice, fu quello di ritenersi più capace della stessa Athena, che in ultima analisi punirà la sua arroganza e superbia.

Una particolare coincidenza mi ha portato a rivedere il quadro di Velázquez in concomitanza con la lettura de "La sfida della modernità" di Pietro Barcellona. In un passo peculiare del mirabile testo a cura di Giuseppe Mari, Barcellona si scaglia contro la tecnica, rea di aver perso di vista il fine per dedicarsi soltanto allo "strumento" tout court. La tecnica, ci ammonisce Barcellona, si preoccupa ormai soltanto più di mostrare la propria potenza, perdendo di vista lo scopo finale. Estendendo questo concetto, si potrebbe dire che la tecnica, nella sua corsa dissennata a mostrarsi ormai capace di tutto, arrivi perfino a manifestare una volontà demiurgica di creazione del vivente sfidando la natura (o la divinità), senza interrogarsi sulle conseguenze della propria arroganza.

La tecnica, come ci ricorda Ernst Jünger in "Al muro del tempo", in passato si occupava di fornirci strumenti - utensili - che imitassero le membra umane, surrogandone e aumentandone capacità e forza (il martello è il pugno, la pala è la mano che scava nella terra, la macina che riduce il grano in farina sostituisce il lavoro dei denti). Mentre oggi la tecnica pare preoccuparsi in maniera precipua d’imitare forze superiori, addirittura – nei casi estremi – quella della riproduzione e quindi della creazione/nascita di esseri viventi, soprattutto in condizioni che in natura non potrebbero sussistere (vedi la maternità surrogata in vista di genitorialità omosessuale, per esempio).

Esattamente come nel mito di Aracne, in cui il manufatto creato con ago e filo perde il proprio valore per acquisire esclusivamente quello di "prova" di valenza tecnica. Ad Aracne, infatti, interessa ciò che tesse soltanto nella misura in cui può rivelarla più capace di Athena in persona, della divinità stessa.

Allo stesso modo, oggigiorno, non c’interessano più le creature che mettiamo al mondo attraverso le nuove tecniche di fecondazione, non c’interessa il loro futuro, non c’interessa la loro psicologia, non c’interessa la loro reazione nell'apprendere come sono venuti al mondo… oggigiorno, agli emuli di Aracne interessa solo dimostrarsi demiurghi "tessitori" di vita, più capaci della Natura stessa, più capaci dello stesso Dio.

Il fine non conta più, né le implicazioni legate al suddetto fine; conta solo lo strumento che dimostri la potenza tecnica, come ci ammonisce Pietro Barcellona ne "La sfida della modernità".

La favola di Aracne si conclude con la trasformazione della superba protagonista in un ragno, creatura ancestralmente temuta dall'uomo (come non ricordare "Il ragno nero" di Gotthelf che rievoca marginalmente la sprovveduta filatrice di cui sopra, e il monito dello scrittore a non sottovalutare il "peccato" - di cui il ragno diviene simbolo - e le catastrofi che possono derivarne?)

Affascinato dal tragico – ed esemplare – fato della "superba filatrice", Diego Velázquez la rappresentò due volte nel corso della sua vita, e in questo periodo tormentato in cui la Hýbris umana raggiunge nuovi, preoccupanti, picchi (o abissi?), sarebbe bene non perdere di vista l’icastico epilogo di questo mito e ascoltare le voci di chi, come Pietro Barcellona, ci rammentano il pericolo delle derive della tecnica.

Per non trovarci un giorno non lontano a "strisciare" come ragni, schiacciati dalla vendetta della Natura, suprema divinità, contro la nostra stessa arroganza nel voler tessere – e manipolare – le fila della vita stessa.