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Il mondo dell’uomo medievale è popolato di presenze invisibili, perché soprannaturali

di Francesco Lamendola - 08/09/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Alla domanda: «Che cosa è reale?», ogni civiltà e ogni cultura rispondono in una maniera specifica; è estremamente ingenuo e presuntuoso pensare che il “reale” sia una entità data una volta per tutte, oggettiva e indiscutibile. L’equivoco nasce da una arbitraria estensione del concetto di “realismo” a quello di “reale”: siccome “realistico” è l’atteggiamento oggettivo nei confronti della realtà, si tende a pensarlo come un sinonimo di essa.

In altre parole, ogni civiltà e ogni cultura hanno una propria idea di cosa è il mondo e di cosa sia reale; e non è detto che le due cose coincidano. Per la civiltà occidentale MODERNA, reale è quello che si vede, che si tocca, che si sperimenta con i sensi (magari prolungati dagli strumenti tecnologici) e che si può dimostrare con la sola ragione strumentale; e coincide, più o meno, con il “mondo”. Se qualcosa cade fuori di tale ambito, o non viene giudicata degna di particolare interesse o, semplicemente, viene ritenuta come non esistente.

Per la civiltà occidentale MEDIEVALE, che sarebbe più giusto chiamare, semplicemente, CRISTIANA, il “mondo” non è solo quello che si vede, che si tocca, che si esperisce con i sensi, e tanto meno quello che si può dimostrare razionalmente; anzi, il mondo visibile è un’ombra, una facciata, un simbolo del mondo vero, del mondo REALE. Ciò che per l’uomo occidentale moderno è ininfluente o illusorio, per l’uomo medievale era il SOPRANNATURALE; soprannaturale che non era meno “reale” della realtà fisica, del mondo materiale; semmai il contrario. Sia detto fra parentesi, tale è la concezione cristiana in quanto tale, non solo quella che fu propria dell’epoca medievale; se qualcuno ne dubita, vuol dire che s’immagina il cristianesimo come qualcosa che si possa adattare ai tempi come si adatta un vestito al corpo, secondo le opportunità e le mode: tagliando, allungando, cucendo e modificando a piacere.

È vero che l’uomo medievale possedeva anche – non in quanto cristiano, ma in quanto uomo del Medioevo – una particolare attitudine a leggere la realtà in chiave simbolica: egli vedeva il mondo fisico come l’insieme dei simboli in cui si esprime la realtà vera, nascosta come dietro un velo. Di questa attitudine, che gli uomini moderni hanno perso, anche il cristiano può fare a meno; quello di cui egli non può fare a meno è l’idea che il mondo sensibile non ha valore in se stesso, ma in quanto espressione dell’Assoluto; e che, se lo si assolutizza, ci si allontana dall’essenziale, che è Dio, e dalla vita vera, che è quella dell’anima.

Nemmeno la civiltà greca, del resto, pur così innamorata della dimensione fisica – tanto da ispirare, diciotto secoli dopo, la civiltà rinascimentale – assolutizzava il mondo sensibile; anche se furono ben pochi a condividere l’idea platonica che essa sia unicamente un’ombra ingannevole della realtà vera, quella delle Idee eterne, perfette e immutabili, così come è espressa, fra l’altro, nel celebre mito della caverna; e nemmeno Aristotele pensava che la realtà sia suscettibile di essere spiegata esclusivamente in termini razionali, punto sul quale era d’accordo con Platone..

Certo, bisogna essere cauti quando si cerca di individuare il sentimento comune del “mondo” di una data epoca, perché si rischia di generalizzare in maniera ingiustificata le convinzioni della minoranza colta e, in particolare, di scrittori, poeti e filosofi. Contro tale generalizzazione metteva in guardia Jakob Burckhardt, allorché affermava, ne «La civiltà del Rinascimento in Italia», che «il rapporto dei singoli popoli con le cose supreme, Dio, la virtù e l’immortalità, può bensì fino ad un certo punto essere investigato, ma non sarà mai suscettibile di venir con rigoroso metodo comparativo rappresentato» (salvo poi, dopo aver predicato bene, razzolare malissimo, parlando di «malvagità generale» nell’Italia, appunto, del Rinascimento, in ciò adagiandosi su un tipico cliché transalpino che giudizi di questo genere, a loro volta, hanno potentemente contribuito a rafforzare e a tramandare).

Dunque, con tutta la prudenza del caso, possiamo dire che l’uomo occidentale medievale non si fermava a una lettura immediata della realtà, ma andava più a fondo, non di rado col pericolo di cadere in interpretazioni strampalate o arbitrarie (ma anche questo, dei giudizi di valore, è un terreno minato: ciò che è “strampalato” per una determinata cultura, può apparire addirittura evidente in un’altra). E ciò perché il suo punto di partenza era completamente diverso da quello dell’uomo moderno: non questa vita, ma quell’altra, è la vita “vera”; non questo mondo, ma quell’altro, è il mondo “vero”: la realtà vera si manifesta, fuggevolmente e imperfettamente, qui e ora, ma solo quando la morte avrà fatto cadere le apparenze, questa si svelerà nella sua pienezza. Il giorno del Giudizio, come testimoniano innumerevoli opere pittoriche, sarà anche il momento della rivelazione riguardo alla separazione definitiva tra ciò che è permanente e sostanziale e ciò che, invece, è solo effimero ed illusorio.

Dante, l’uomo che sintetizza e armonizza in sé tutta la civiltà del Medioevo, vede le cose da medievale e da cristiano: come medievale, scorge ovunque dei simboli da decifrare; come cristiano, lo fa in una prospettiva di fede. Virgilio, il suo duca ultraterreno, compendia in sé questa duplice tendenza allegorica (che talvolta si sovrappone, ma le cui componenti sono distinte; gli uomini del Medioevo hanno avuto il loro modo di leggere e interpretare il cristianesimo): egli è il simbolo della ragione umana, ma è anche il simbolo dell’eterno rammarico di chi, avendo contato sulla sola ragione per comprendere il mistero del mondo, è separato da Dio.

Oppure prendiamo l’allegoria della selva oscura, nel primo canto dell’«Inferno». L’allegoria è quella figura retorica che esprime un concetto mediante una immagine: e la selva oscura, lo sappiamo dai banchi di scuola, vuole rappresentare il concetto del peccato. Dante, che si smarrisce nella selva del peccato, non è un singolo uomo che, per avventura, scivola nel peccato, ma è il simbolo dell’intera umanità che, presumendo di poter fare affidamento sulla sola ragione, e dunque su se stessa, finisce per smarrirsi e quindi, automaticamente, per allontanarsi da Dio. Perché questo, in senso cristiano, è il peccato, né ve ne sono altri: allontanarsi da Dio.

Osserva a tal proposito Carlo Salinari (in: Dante, «Divina Commedia», a cura di C. Salinari, S. Romagnoli, A. Lanza, Roma, Editori Riuniti, 1980, vol. 1, n. 3 al c. I):

 

«[La “via” percorsa da Dante, allorché si addentra nella selva oscura, è “smarrita”], ma non perduta, giacché, affermano Benvenuto e il Landino è sempre possibile tornare sulla via della virtù. In questa prima terzina troviamo quella che è stata impropriamente chiamata l’ALLEGORIA FONDAMENTALE della “Commedia”. In realtà, come ha osservato il Barbi, si tratta della FIGURAZIONE INIZIALE, ed è bene che il lettore, fin dall’inizio, cerchi di penetrare in questa caratteristica tipica delle forme di espressione e di comunicazione medievali. L’atteggiamento ideologico dell’intellettuale e dello scrittore medievale era costituito da un sentimento della realtà (della natura, delle cose, dei fenomeni e degli stessi avvenimenti storici) come apparenza, priva di un valore obiettivo ed autonomo e quindi non suscettibile di un’analisi scientifica, di un’indagine sperimentale. Il valore della realtà, per una mente medievale, consisteva nella sua qualità di essere manifestazione visibile di simboli spirituali, di corrispondere, cioè, a una sorta di cifrario dello spirito. E in questo, nel cogliere il nesso fra la manifestazione visibile e la cifra spirituale, consisteva la conoscenza. Giustamente Battaglia può affermare che la realtà per l’animo medievale è “un’immensa arena di assenze che bisogna ricuperare nell’esperienza interiore e decifrare attraverso la fugacità delle loro remote e sbiadite postille; o meglio, un mondo di presenze invisibili o nascoste che occorre restaurare o resuscitare”. Da tale radice ideologica nasce la rappresentazione figurale, propria della poesia medievale e, in particolare, della “Commedia”, rappresentazione figurale che è appunto nesso inscindibile di significati letterali (le cose nella loro visibile apparenza) e di significati simbolici (le cose nella loro cifra spirituale). Del resto, ci indirizza in questa direzione lo stesso Tommaso d’Aquino (il filosofo a cui, com’è noto, Dante fa più spesso riferimento), quando afferma: “Il senso parabolico è compreso in quello letterale: infatti con le parole si indica alcunché ora in senso proprio, ora in senso figurativo, e il senso letterale non è la figura in sé ma ciò che è figurato. Infatti quando la scrittura nomina il braccio di Dio, il senso letterale non è che Dio possegga un membro fisico di tal genere, ma che possegga ciò che con quel membro si vuol significare, e cioè la virtù operativa” (“Summa Th.”, I I 10 3). E c’indirizza in tale direzione anche la definizione della poesia come “fictio” che Dante ci dà nel “De vulgari eloquentia”: “fictio”, cioè non semplice immagine o, all’opposto, pura allegoria, ma intreccio fra il reale e l’immaginato, fra il dato sensibile e quello ideale. Il lettore si trova, così, immerso sin dal primo endecasillabo, che pure sembra semplicemente cronachistico, nel’atmosfera tipica del poema dantesco. Cerchi di recuperare, al di là del logorio della lunga consuetudine, la forza ideologica e fantastica di quelle parole: la vita come un CAMMINO, un viaggio per tornare nella patria da cui l’anima è partita (il cielo), una sorta di esilio, di peregrinazione dominata dal desiderio del ritorno; il mezzo del viaggio, cioè il momento dell’esistenza in cui si raggiunge la maturità e ci si volta a considerare la vita passata che appare “di colpo, sommersa nel sonno, cioè nell’irresponsabilità”, e che “si configura come una SELVA SELVAGGIA che rappresenta con evidenza pittorica il caos dei sensi; e come tale dominata dalla confusione, dalla tenebra, dalla cecità” (Battaglia). Ma il dato autobiografico è anche un dato simbolico: Dante è se stesso e insieme l’umanità. Così che ripiegarsi sul suo passato di confusione è anche un ripiegarsi sulla storia, un considerare, dall’alto di una nuova consapevolezza, la vicenda degli uomini e della società e lo stato di crisi in cui si trova. Non si può escludere che Dante voglia alludere, quando ci dice di aver smarrito la dritta via, a qualche episodio della sua vita giovanile. Tale è l’opinione della maggioranza dei critici. Ma la identificazione di Dante con tutta l’umanità dà una dimensione al suo SMARRIMENTO, che va al di là di qualsiasi riferimento autobiografico. È il suo passato, certo, che gli si presenta come oscillante fra esperienze diverse, “da un’esperienza lirico-sentimentale all’angoscia del dolore e della morte, e poi al’esaltazione della filosofia e della scienza, e ancora al risentimento politico, e alle delusioni della sua sorte di cittadino, e a quel vagare in bando dalla patria, dal suo dolce ovile, senza una ben definita responsabilità, e soprattutto privo di un miraggio a cui far convergere in una suprema volontà unitaria tutte le energie” (Battaglia). Ma è anche la storia della società umana che non è meno oscillante e caotica, priva di una guida sicura, battuta dai venti della società, della sua storia, dalla sete di denaro e di potere.  Dante, la sua vita, il suo fallimento assurgono così al significato più generale della società, della sua storia, della crisi in cui si dibatte, e il viaggio che il poeta immagina d’intraprendere è un viaggio in se stesso e, insieme, nella vicenda degli uomini, per raggiungere la consapevolezza dei loro mali e la certezza dei valori che debbono condurli al riscatto.»

 

Per l’uomo medievale, dunque (se ci è lecita questa generalizzazione), il mondo è popolato di presenze invisibili; e tali presenze non sono meno reali, semmai più reali delle cose visibili; così come la vita soprannaturale, donata dalla Grazia, è più reale, e non meno, della vita fisica; e così come la vita eterna è più reale della vita terrena. L’uomo medievale sta di fronte all’eterno: di qui nasce la sua umiltà, la consapevolezza della sua fragilità; ma di qui nasce anche la sua speranza; perché, riconosciutosi creatura, egli osa levare una preghiera all’Eterno, magari per l’intercessione della Madonna o dei santi: creature umane anche loro, che hanno saputo, con la forza della fede e con il dono della Grazia, innalzarsi al di sopra della realtà finita.

Le cattedrali, queste montagne di pietra che hanno la leggerezza spirituale di un salmo, erette per confrontarsi con i secoli e i millenni, sono il simbolo di tale atteggiamento di umiltà e di speranza: di umiltà, perché non l’uomo le ha costruite (e infatti gli architetti non si sono curati di firmarle), ma la fede, che è un dono divino, e dunque esse sono una preghiera di lode e di ringraziamento; di speranza, perché testimoniano la certezza che ha animato i loro costruttori e tutto il popolo dei fedeli, quella di una giornata eterna nella luce di Dio, quando le antinomie dell’esistenza cadranno e cadranno, con esse, anche le bende dagli occhi dell’uomo.

Tutto questo è nei versi di Dante: chi non lo tiene presente, non può capirne il senso, né la bellezza.