Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il destino degli angeli caduti in terra

Il destino degli angeli caduti in terra

di Francesco Lamendola - 08/09/2014

Fonte: Arianna editrice


 File:NoventaPiave.jpg


 

Angeli caduti in terra ce ne sono oggi come ieri, anche se non sempre si tratta di quelli che credono di esserlo.

Un angelo caduto in terra è una persona pura, ingenua, incapace di fare del male ad alcuno, anzi, perfino incapace di immaginare che si possa fare del male; è una creatura assai rara, che passa sovente inosservata perché non grida, non sgomita, non si mette in competizione con gli altri; è buona, mite, arrendevole, ma soprattutto fiduciosa.

Si possono dare varie definizioni del concetto di “bontà”; e, certamente, quella che più le si avvicina ha a che fare non solo con la mansuetudine e l’ingenuità, ma, ancora di più, con la sollecitudine e con la partecipazione attiva e benevola alla vita del prossimo.

Un uomo buono, o una donna buona, possiedono queste caratteristiche; ma un angelo caduto in terra è sostanzialmente disarmato e suscita la nostra compassione, perché sappiamo che andrà incontro a molte sofferenze; quello che più lo contraddistingue è l’assoluta incapacità di adeguarsi al modo di vivere delle persone comuni, alla loro aggressività, alla loro furbizia, alla loro mancanza di scrupoli.

Poiché l’angelo caduto in terra non possiede nessuna di queste caratteristiche, vive in uno stato di estremo smarrimento, è sempre fuori posto e fuori parte, soffre ed è incompreso e malvisto; lo scrittore che più di ogni altro ne ha penetrato la drammatica e dolorosa essenza è stato Fëdor Dostoevskij, che ne ha dato una rappresentazione indimenticabile nel principe Myskin, il protagonista del romanzo «L’idiota».

In un mondo dove tutti agiscono in base a un interesse più o meno abilmente dissimulato, l’angelo caduto in terra agisce in perfetta innocenza e buona fede: non dissimula, non essendone capace e non vedendone la ragione; immagina, a torto, che anche gli altri ragionino come lui, pertanto non prende alcuna precauzione per proteggersi dalla malizia e dai colpi bassi che, quando arrivano, lo sorprendono completamente, nel punto più vulnerabile.

Il destino lo ha mandato in mezzo al mondo pressoché disarmato: non solo, pressoché sprovvisto di quello strato protettivo, di quella corazza, di quelle dita di pelo sullo stomaco, che aiutano le persone ordinarie e scansare gli urti o, se non li possono scansare, a soffrirne il meno possibile, a superare in fretta, a dimenticare le cose spiacevoli; mentre lui è nudo in mezzo a gente armata di ferro, ovunque si volga riceve ferite e le sue ferite non rimarginano mai, continuano sempre a sanguinare.

Un’altra di queste creature disarmate e commoventi è stata descritta da Guy de Maupassant in una sua novella fra le meno conosciute, intitolata «Soldatini», nella persona del giovane contadino bretone Giovanni Kerderen, chiamato a fare il servizio militare lontano da casa sua, nella grande metropoli: a Parigi. Buono, ingenuo, sognatore, il ragazzo è straziato da una disperata nostalgia del suo paese; e quando, vagando nelle ore di libera uscita, s’imbatte in un boschetto a qualche chilometro dalla capitale, gli sembra di avere ritrovato un po’ di quella felice aria di casa che tanto gli manca. Da quel momento, appena gli è possibile, tutte le domeniche si reca di buon passo al boschetto di Bezons, insieme al commilitone e amico d’infanzia Luca Le Ganidec, timido e ingenuo come lui – o appena un po’ meno di lui – col quale condivide gli stessi sentimenti: strana coppia di soldatini infagottati nelle divise troppo grandi, come due bambini in fuga dal mondo spietato degli adulti.

Lì giunti, passano le ore a guardare la campagna, sognando, rapiti dai dolci ricordi; finché incontrano una ragazza che porta ogni giorno la mucca a pascolare e che, a un certo punto, offre loro del latte. È anch’ella una creatura semplice, ma assai più pratica e sicura di sé, e ben presto mette gli occhi su Luca, il meno timido dei due. Questi, un giorno, chiede e ottiene un permesso per uscire dalla caserma; Giovanni ne ignora il motivo, eppure, senza comprendere il perché, si sente vagamente inquieto.

Infatti, di nascosto da Giovanni, il suo amico e la contadina devono essersi scambiati una promessa di matrimonio; e quando lo viene a sapere, sentendosi tradito e abbandonato da tutti, scacciato anche da quella piccola oasi di pace e di serenità in cui credeva di aver trovato rifugio, Giovanni, disperato e vinto dall’angoscia, si lascia scivolare nella Senna, ove affoga i suoi sogni infranti.

Maupassant, che a torto passa per uno scrittore poco incline ai sentimenti delicati, solo perché la sua tecnica naturalista lo trattiene dal manifestare apertamente il suo intimo sentire – un po’ come il Verga davanti ai suoi “vinti” –, tratteggia questa tragedia umile e silenziosa con maestria insuperabile, adoperando una tavolozza fatta di sobria partecipazione umana (da: Maupassant, «Novelle», traduzione di Diego Valeri, riadattata da Antonio Desideri, Firenze, Casa Editrice G. D’Anna, 1967, pp. 168-69):

 

«Presto la ragazza apparve.. La guardarono venire come facevano tutte le domeniche. Quando ella fu vicina, Luca si alzò e fece due passi.  Essa, posato il secchio a terra,m gli gettò le braccia al collo e lo baciò con ardore, senza occuparsi di Giovanni, senza pensare ch’egli era là, senza vederlo.

E lui, povero Giovanni, restava là stordito,così stordito che non riusciva a capire, con l’animo sconvolto, il cuore spezzato, senza rendersi conto ancora di quel che succedeva. Poi, la ragazza sedette accanto a Luca, e i due si misero a chiacchierare.

Giovanni non li guardava; indovinava ora perché il suo compagno fosse uscito due volte durante la settimana, e provava un dolore acuto, sentiva una specie di ferita, uno schianto come quello che producono i tradimenti.

Luca e la ragazza si alzarono per andare insieme a ricondurre la mucca alla stalla.

Giovanni li seguì con gli occhi. Li vide allontanarsi l’uno a fianco dell’altra. I pantaloni rossi del compagno  facevano una forte macchia di colore sulla via.  Fu Luca che tirò su il martello e batté  sul palo a cui era legata la bestia.

La ragazza si chinò per mungerla, mentre egli accarezzava con mano distratta il dorso acuto dell’animale.

Giovanni si sentiva così turbato che, se avesse tentato di alzarsi, sarebbe certo ricaduto a terra.

Restava lì immobile, istupidito dalla triste sorpresa e dalla sofferenza, una sofferenza vera e profonda. Sveva voglia di piangere, di fuggire, di nascondersi, di non vedere mai più nessuno.

Ritornarono lentamente, tenendosi per mano, come fanno i fidanzati nei villaggi. Luca portava la secchia.

Si baciarono ancora prima di lasciarsi, e la ragazza se ne andò dopo ave detto a Giovanni un amichevole buonasera, e avergli fatto un sorriso d’intesa. Quel giorno non si ricordò  di offrirgli il latte.

I due soldati restarono seduti l’uno accanto all’altro, immobili come al solito, silenziosi e calmi,  senza che la placidità del loro volto rivelasse nulla  di ciò che turbava il loro cuore. Il sole scendeva su loro.  La mucca ogni tanto muggiva, guardandoli da lontano.

All’ora consueta, s’alzarono per tornare in caserma. Luca sbucciava un bastoncino. Giovanni portava la bottiglia vuota. La depose dall’oste di Bezons. Poi giunsero al ponte, e come ogni domenica, si fermarono per guardare scorrere l’acqua durante qualche istante. Giovanni si curvava, si curvava sempre più sulla balaustra  di ferro, come se avesse visto nella corrente  qualche cosa che l’attirasse. Luca gli disse: - Vuoi forse berne un bicchiere? -. Mentre pronunciava l’ultima parola, la testa di Giovanni trasportò il resto del corpo, le gambe  sollevate descrissero un cerchio nel vuoto, e il soldatino vestito di blu e di rosso  cadde come un blocco, entrò nell’acqua e disparve.

Luca, la gola paralizzata dall’angoscia, invano cercava di gettare un grido. Vide più lontano muoversi qualche cosa;  poi la testa del compagno apparve alla superficie  del fiume, per rientrarvi subito dopo.

Più lontano, scorse ancora una mano, una mano sola che uscì dal fiume e vi si rituffò. Fu tutto. I barcaioli accorsi non ritrovarono il corpo, quel giorno.

Luca tornò solo alla casera, correndo, come impazzito, e raccontò l’accidente, con gli occhi e la voce pieni di lacrime, soffiandosi continuamente il naso: - Si chinò… si… si chinò… tanto che… tanto che la sua testa capitombolò… e… e… eccolo che cade… che cade…-.

Non poté continuare, la commozione lo soffocava. Se avesse saputo…»

 

È un dramma tristissimo, nella sua cupa inevitabilità: Luca e la ragazza non se sono colpevoli, perché non si erano affatto resi conto di quel che il loro fidanzamento avrebbe provocato; come tutte le persone felici e innamorate, avevano forse mancato di tatto, ma senza malizia, senza avere alcuna intenzione di ferire Giovanni.

Tutto il dramma è ricondotto, così, all’interno della personalità del protagonista: un ragazzo dalla sensibilità estrema, che basta poco a ferire; che si è sentito ingannato, tradito e messo da parte dalle due persone in cui riponeva tutta la sua fiducia: l’amico d’infanzia e la ragazza gentile, che si era accorta della loro disperata solitudine e aveva ricreato, per loro, con quel rito dell’offerta del latte, una struggente aria di casa. Ma ecco che essi si erano innamorati, si erano fidanzati: solo così si poteva spiegare la sicurezza con cui si baciavano davanti a lui, si muovevano insieme lungo la strada; e non gli avevano detto niente. Luca, il suo migliore amico, anzi, il suo unico amico, non si era lasciato scappare neppure una parola; nemmeno quando aveva chiesto il permesso per lasciare la caserma, certo per incontrare lei.

L’angelo caduto in terra riceve una ferita mortale per delle cose che, ad altri, produrrebbero appena una lievissima scalfittura; egli è condannato a soffrire più di chiunque altro e senza una ragione, senza che gli altri neppure immaginino quel ch’egli prova. È il destino delle anime sensibili: soffrire anche per piccole cose, ma chi può dire se son piccole o grandi?; soffrire come se fossero fatti di un’altra stoffa, più delicata, più vulnerabile della comune stoffa umana.

È un mistero perché debbano esserci delle persone così destinate al martirio, senza nemmeno poter farsi una ragione del loro soffrire, senza nemmeno capire perché il loro destino sia quello  e non  altro. Ogni tanto s’illudono di aver trovato un’anima gemella – un amico, un amante – ma la vita, ben presto, si incarica di distruggere le loro illusioni e di restituirle, spietata, alla coscienza del loro soffrire, senza veli e senza illusioni. È come se essa volesse ricordar loro, se per avventura, un momento, se ne fossero dimenticate, che il mondo non è fatto per quelli come loro, e che essi vi stanno come degli intrusi, come degli ospiti non invitati, né desiderati.

L’angelo caduto in terra sa di soffrire senza uno scopo, e ne soffre doppiamente. Non vuole sacrificarsi per un ideale: chiederebbe solo il proprio posticino nella vita, magari modesto, magari in penultima o in ultima fila. Si accontenterebbe delle briciole, degli avanzi del banchetto altrui; non è invidioso della sorte dei più forti, dei più audaci, dei più fortunati; soltanto, vorrebbe anche lui un cuscino sul quale posare il capo, quando è stanco, e una mano fresca a carezzargli la fronte. Ma non trova, intorno a sé, che incomprensione o peggio: talvolta viene deriso, talvolta viene addirittura aggredito, perché la sua bontà disarmata appare sospetta, sembra quasi che voglia nascondere chissà quale astuzia. E viene scambiato per un rivale da coloro che concepiscono la vita solo come una lotta: un rivale da eliminare al più presto, perché appartiene a un’altra razza. Una razza che non chiede, che non pretende: potrebbero diffondere un esempio pericoloso.

Giovanni si lascia cadere in acqua: non è un incidente, è un suicidio; ma un suicidio talmente discreto, che il suo stesso amico, che ne è la causa involontaria e che gli sta accanto, non se ne rende conto, non lo riconosce come tale. Questi angeli sono pieni di pudore e se ne vanno in punta di piedi, preoccupati di disturbare il meno possibile. Persone così ce ne sono sempre state e sempre ce ne saranno. In una società meno frettolosa, meno superficiale, meno egoista della nostra, il loro dramma sarebbe forse un po’ attenuato; ma si consumerebbe ugualmente. Lo abbiamo detto, è un mistero: nessuno sa perché queste persone vengano al mondo così indifese, quando nella vita bisogna essere sempre pronti a battersi.

Eppure la vita è giusta; c’è una giustizia, in essa, che eccede la misura del nostro comprendere. Forse queste persone sono davvero angeli: sia da vive, sia da morte, spargono un po’ di bene intorno a sé, senza chieder nulla in cambio. Ma bisogna imparare a parlar piano, per poterle udire…