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Vi è continuità o rottura nel pensiero di George Berkeley?

di Francesco Lamendola - 15/09/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 



Il principale problema ermeneutico riguardante la filosofia di George Berkeley (1685-1753) è quello riguardante la presunta discontinuità fra la prima e la seconda fase del suo itinerario speculativo: fra quella del «Trattato sui principi della conoscenza umana», del 1710 – cui vanno aggiunti i bellissimi «Dialoghi fra Hylas e Philonous», del 1713, che ne sono una sorta di rifacimento in termini semplificati – e quella della «Siris», pubblicata nel 1744.

Secondo i suoi critici, Berkeley sarebbe passato in maniera arbitraria, o comunque non sufficientemente giustificata sul piano argomentativo, da una posizione di empirismo radicale, sfociante nell’immaterialismo, ad una concezione idealista e platonizzante; secondo i suoi ammiratori, invece, non si può parlare affatto di discontinuità tra le due fasi, e tanto meno di rottura o di contraddizione, perché le conclusioni apertamente neoplatoniche, cui Berkeley approda nell’ultima fase del suo percorso filosofico, sarebbero già largamente presupposte nelle idee della fase giovanile, espresse fin dal 1709 con il «Saggio di una nuova teoria della visione»: il punto di saldatura tra le due fasi sarebbe da ravvisarsi nei dialoghi, platonizzanti anch’essi, dell’«Alcifrone, o il filosofo minuzioso», pubblicati nel 1732, durante il soggiorno americano, a Rhode Island, mentre l’Autore era in attesa dello stanziamento promessogli dal Parlamento inglese (ma mai erogato) per la fondazione di un collegio nelle Isole Bermuda, destinato all’istruzione dei Pellerossa e, in prospettiva, alla rifondazione della civiltà europea, irrimediabilmente corrotta – secondo il Berkeley - dall’avanzata del materialismo, del “libero pensiero” e dell’ateismo.

Così riassumono la questione Perone, Ferretti e Ciancio, presentando la letteratura critica su di essa (in: «Storia del pensiero filosofico», Torino, S. E. I., 1982, vol. 2, pp. 272-73):

 

«L’interpretazione più diffusa di Berkeley ne fa un negatore della realtà del mondo fisico (=immaterialismo), totalmente risolto nella sensazione o idea che ne abbiamo (=idealismo empirico o idealismo soggettivo). Così intesero Berkeley sia Hume, sia Leibniz, sia lo stesso Kant. Per tale interpretazione (cfr. B. Croce: “L’immaterialismo di Berkeley”, in “Saggi sullo Hegel”, Laterza, Bari, 1913; M. M. Rossi, “Saggio su Berkeley”, Laterza, Bari, 1955; Idem, “Introduzione a Berkeley”, Laterza, Bari, 1970 (con ampia bibliografia). In questa interpretazione si deve supporre una frattura fra il primo Berkeley, che avrebbe sostenuto tale dottrina, e l’ultimo Berkeley, che sarebbe invece ritornato ad una metafisica realista. L’unità del pensiero di Berkeley è invece sostenuta sia da A. Levi, “La filosofia di G. Berkeley”, Bocca, Torino, 1922, sia da S. Del Boca, “L’unità del pensiero di G. Berkeley”, Sansoni, Firenze, 1933.

L’identificazione operata da Berkeley fra “esse” e “percipi” ha dato origine in Italia, da parte del neoidealismo gentiliano, alla interpretazione attualistica, secondo la quale la realtà consiste tutta nell’atto stesso del pensiero. Cfr. G. Gentile, “Teoria generale dello spirito come atto puro”, Sansoni, Pisa, 1916. In campo neoscolastico si ì invece sottolineato il fenomenismo di Berkeley. La riduzione dell’”esse” al “percipi” finisce per ridurre l’”esse” a semplice fenomeno, dato il presupposto originario da cui si parte, e cioè che il pensiero non colga direttamente l’essere del reale bensì solo una idea o immagine della mente. Cfr. F. Olgiati, “L’idealismo di Giorgio Berkeley e il suo significato storico”, Vita e Pensiero, Milano, 1926; G. Bontadini, “Indagini di struttura sul gnoseologismo moderno”, La Scuola, Brescia, 1952. Secondo Guzzo l’immaterialismo di Berkeley è negazione dell’esistenza di un substrato materiale indipendente dal soggetto pensante non già per cadere nell’idealismo o nell’attualismo o nel fenomenismo, bensì per affermare la centralità ontologica e gnoseologica della persona. Solo in rapporto alla persona acquista infatti realtà e valore tutto il mondo dell’essere materiale. Cfr. A. Guzzo, le “Introduzioni” […] alle opere di Berkeley, ed inoltre “Giorgio Berkeley”, in “Grande antologia filosofica”, cit., vol. XIII, pp. 667-804. A mettere in luce le finalità apologetico-religiose di Berkeley è indirizzato il saggio di P. Rotta, “Berkeley”, La Scuola, Brescia, 1943.»

 

Affinché il lettore possa formarsi una propria opinione, naturalmente dopo aver letto i testi del filosofo anglo-irlandese, ci sembra utile riportare, brevissimamente, le argomentazione di due dei principali esponenti delle contrapposte scuole di pensiero che si confrontano sulla questione della continuità, o meno, della filosofia berkeleiana.

Capofila dei critici di Berkeley è il filosofo e storico della filosofia Mario Manlio Rossi (1895-1971), il quale, al pensatore di Kilkenny, ha dedicato una monografia dal sapore piuttosto pungente, quando non apertamente – e talvolta gratuitamente – polemico. È interessante notare che il Rossi (autore, fra l’altro, di una originale e ponderosa «Storia d’Inghilterra», oggi, a torto, pressoché dimenticata, oltre che studioso di esoterismo e di tradizione ermetica, anche in questa veste ahimé dimenticato) parte da una angolazione esplicitamente neoplatonica – che ne fa, in Italia, un caso praticamente unico nel panorama del Novecento – e quindi la critica alla linearità del pensiero di Berkeley non nasce da una forma di contrapposizione ideologica, ma dalla convinzione che il vescovo di Cloyne non sia approdato al platonismo in maniera conseguente e speculativamente giustificata.

Riportiamo i passi salienti della conclusione (da: M. M. Rossi, «Introduzione a Berkeley», Bari, Laterza, 1986, pp. 223-35):

 

«Non va dimenticato che il sistema di Gentile comincia col berkleismo. […] Gentile denuncia a buon diritto la “contraddizione”di Berkeley – che in realtà aveva dovuto ammettere attività e passività nello spirito, rimangiandosi (errore supremo!) il discrimine tanto sottolineato fra ml’idea, che in quanto passiva non poteva somigliare a nulla di attivo, e lo spirito di sua natura attivo ANCHE se riceveva da Dio l’impressione delle ide (percezione divina) ovvero il suggerimento di certe idee per mezzo di certe altre (linguaggio divino). […] In ogni modo, il Berkeley della critica italiana è il Berkeley della PRIMA filosofia. L’”Alcifrone”, la “Siris” non compaiono quasi mai all’orizzonte, come non compaiono, del resto, nelle critiche degli altri Paesi. Ma il problema resa. Si tace, si finge che non esista.: ma l’”Alcifrone” ed il “Linguaggio”, e le prudenti variazioni dei “Principi” restano, e devono venir spiegate. Come? Direi che la problematica berkleiana fosse stata proclamata, già all’inizio del nostro secolo,  da C. C. Tower con il suo “The Relation of Berkeley’s Earlier to his Later Philosophy”, London 1900. La soluzione non importa: importa la distinzione di cui, prima del Tower, nessuno sembrava essersi accorto, soprattutto perché Berkeley cerca di costruirsi un alibi: anziché confessare (come fa chiaramente alla fine della “Siris”) che “ha ripensato meglio”, e cominciar da capo, riproduce frasi e tesi delle altre opere non appena ne trovi occasione. […] Poiché non si può far dire ad un pensatore se non quello che ha scritto  e che si può documentare, si deve riconoscere che un approfondito esame FILOLOGICO degli scritti, a parte a parte, porta a sottolineare incoerenze e contraddizioni. A questo esame Berkeley non era mai stato sottoposto, anche perché dove c’era una frattura, si sottaceva. Soprattutto, non si tirava in questione la “Siris” così nettamente platonica da esser ben vicina alla visione in Dio, né le affermazioni materialistiche del “De motu” – e nemmeno l’enorme importanza del linguaggio divino, che comincia con le primissime opere e prosegue con una coerenza ben maggiore di quella della percezione divina dato che lo spirito è tanto attivo che passivo. […] E qui intervenne nel 1931 i dubbio autorevole di W. B. Yeats che, scrivendo per il libro di J. M. Hone e mio, “Bishop Berkeley”, una introduzione suffragata da lunghi anni di letture berkeleiane, si domandava cosa avesse veramente pensato, E PERCHÉ avesse veramente pensato quello che aveva pensato - se non per non morir di fame opponendosi al conformismo. Accenni che guadagnarono al più illustre irlandese della nostra epoca insulti gratuiti da quegli esponenti di Trinity College che non avevano altro che Berkeley a cui raccomandante l’autorità d’una università in terra straniera ed in palese decadenza. Meditando sulle riserve di Yeats, più e più volte ho potuto ritracciare interessi personali sotto i cambiamenti di fronte di Berkeley ed i suoi deliberati tentativi per far carriera – cosa che gli riuscì. Cosa che va tenuta presente non solo per sapere CHI fosse veramente questo pensatore apparentemente innocuo, ma anche per vedere quale attendibilità abbia l’idea che una vera unità del pensiero di Berkeley si possa ricondurre, oltre la filosofia e nonostante  quel che dice alla fine della “Siris”, all’intento apologetico, antideistico proclamato fin dal “Commonplace Book”, reiterato “ad nauseam” - e purtroppo reso dubbio quando Berkley, per far PASSARE la sua apologetica, se la prende  se la prende con teologi seri, di indubbia fede,  come il vescovo Browne, come King – mentre non se l’era mai presa, anzi aveva cercato contatti con l’autorevole ma ariano Clarke e la sua protettrice, la regina Carolina. […] Quindi, stabilito che vi sono variazioni, e variazioni così radicali che una certa posizione non può senza forzarla (o senza supporre che Berkeley menta o sottaccia  sempre deliberatamente) non può venir ridotta ad un’altra e diversa posizione (ad esempio, negazione ed affermazione della materia, pensiero empirico e comprendere intellettuale, percezione e linguaggio divino, antimalebranchismo e platonismo malebranchiano, spirito passivo ma anche attivo, ecc.), sembra che il corso degli studi berkleiani fino ad oggi forzi lo studioso […]  a domandarsi quale sia stato l’impulso esterno ovvero la necessità logica interna  che hanno costretto Berkeley a cambiar posizione, almeno a variare l’accento e le sottolineature delle sue idee. […] E se mi si permette di chiudere su una nota personale, ricorderò che 45 anni fa vedevo questa “malaise” nel pensiero di Berkeley, questa spinta a correggere e mutare, come dovuta al “salto metafisico” – al passaggio che la filosofia cartesiana rende necessario  dalla gnoseologia all’ontologia.  Dopo una trentina d’anni e di meditazioni, ho potuto veder meglio l’inevitabilità di questo “salto” e delle sue conseguenze sconvolgenti nella filosofia moderna quando ho constatato che dal “dualismo” e dal conseguente “salto metafisico” deriva l’incoerenza fra gnoseologia  e fisica nel sistema di Hobbes  e l’ontologizzazione della cosa in sé nel Kant della “doppia affezione”. […] è in questo senso – problematico e sistematico: per i suoi difetti e non per i suoi pregi – che Berkeley si inserisce nella storia del pensiero europeo moderno.  Filosofo, certo, di secondo rango, come oggi è ormai riconosciuto, perché lo sviluppo, i passaggi dall’una all’altra posizione sono bruschi, veri “salti” dall’altra parte della barriera come se Berkeley  non si fosse nemmeno accorto delle difficoltà che lo obbligavano a cambiar rotta- dove altri pensatori, di rango superire (un Leibniz, uno Husserl, ecc.), cercavano ponti, passaggi, transizioni, e così costituivano formidabili sistemi, anche se nati dalla necessità di superare difficoltà ed incoerenze che stanno alla base del pensiero moderno. Berkeley invece è sempre pronto a cambiare, magari senza ragione…»

 

Veramente, non si ricava molto da questa critica, se non un sordo livore dettato forse da ragioni emotive e personali – la solidarietà con Yeats, venuto a conflitto col Trinity College - che si esprime anche nella subdola allusione – ché di una aperta accusa non si può parlare – che Berkeley abbia filosofato come ha filosofato per ragioni di tornaconto personale, cioè per fare carriera (alludendo anche ai pettegolezzi di A. A. Luce circa il “carrierismo” di Berkeley) se non, addirittura – e qui il Rossi fa una scandalizzata ma poco convincente presa di distanza da J. O. Wisdom – in ragione del suo apparato digerente: diarroico, e quindi anti-materialista, in gioventù; stitico e ipocondriaco, e dunque riconciliato con la materia, da vecchio.

Una cosa sola si capisce, senza addentrarci nei particolari della discussione, che sono - come si vede facilmente - di natura estremamente specialistica: che al Rossi preme accreditare l’immagine di un Berkeley filosofo di seconda scelta, perché colto in flagrante difetto di sistematica contraddizione con se stesso. A lui sembra che tale imputazione sia, di per sé, sufficiente a chiudere la questione: non lo sfiora l’idea che tale prospettiva è valida solo se si assume il principio che il vero filosofare è costruire sistemi compatti e inattaccabili, e non piuttosto porsi sempre nuove domande, che fatalmente, approfondendo gli interrogativi pregressi, aprono nuove prospettive e, quindi, apparenti contraddizioni con le soluzioni via via proposte. Basta leggere Platone: chi non vede come vi siano differenze anche notevolissime fra i diversi dialoghi, specialmente fra quelli della giovinezza, tutti dominati dal ricordo di Socrate, e gli ultimi, come le «Leggi», dove la figura dell’amato maestro scompare e perfino la forma dialogica tende a dissolversi.

Ma, obietta Rossi, l’importante non è che vi siano contraddizioni, bensì che esse siano riconosciute e superate mediante “ponti” e “raccordi” che armonizzino la struttura complessiva del pensiero. Ora, se è certo un grave difetto, per un filosofo, non accorgersi delle contraddizioni del proprio pensiero – ammesso che questo sia il caso di Berkeley, cosa che a noi sembra perlomeno opinabile – è non meno vero che la strategia delineata dal Rossi sembra più quella di fare in modo che i “salti” logici non appaiano, e che vengano attenuati mediante opportune conversioni e precisazioni, più che quella di andare alla radice di tali “salti”, i quali possono anche essere dovuti a ragioni oggettive della ricerca. I fiumi, talvolta, precipitano in cascate: non c’è niente da fare. Rossi, del resto, dichiara di essersi convinto che le ragioni ultime della discontinuità speculativa di Berkeley è dovuta a un problema più grande di lui e afferente a tutta la filosofia europea post-cartesiana, fino a Kant e oltre. Pertanto non gli resta che rimproverare a Berkeley di non essere stato abbastanza onesto, o di non essere stato abbastanza intelligente, da vedere tali contraddizioni; e propende per la prima ipotesi, dicendo che il suo metodo era quello di pescare nelle opere del primo periodo quegli enunciati che meglio si accordavano con le conclusioni platoniche cui era giunto all’epoca in cui scriveva la «Siris». Brutta maniera di fare storia della filosofia, quella di presupporre la malafede altrui sulla base di una giudizio, o pregiudizio, di tipo moralistico.

E adesso riportiamo qualche passaggio di un filosofo d’altra tendenza, Augusto Guzzo (1894-1986: quasi coetaneo di Rossi, quindi), cattolico e idealista, cioè una mosca bianca nel contesto della cultura accademica italiana; tanto è vero che, quanto «La civiltà cattolica» attaccò Gentile in nome dell’unica forma di idealismo che essa ammetteva, vale a dire il neotomismo, fu il cattolico Guzzo a prendere le difese di Gentile. Guzzo, in generale, è un pensatore e uno storico della filosofia che andrebbe riletto e meditato: ha più cose da dire di tanti filosofi che oggi vanno per la maggiore, pubblicano libri a ritmo industriale - qualche volta anche scopiazzando qua e là, da altri e perfino da se stessi - e riempiono le sale per le conferenze (Eco, Cacciari, Galimberti), ma che non possiedono nemmeno una parte della ammirevole chiarezza e della solidità argomentativa di questo pensatore, così ingenerosamente accantonato nel panorama della cultura “ufficiale”.

Riportiamo soltanto, per ragioni di brevità, le conclusioni cui Guzzo perviene circa il problema in questione riguardo a Berkeley, laddove egli parla della «Siris» e la vede come l’approdo coerente di un pensiero che era sempre stato tendenzialmente platonizzante, fin dai suoi esordi giovanili (da: A. Guzzo, «Breve storia della filosofia»,  Napoli, Loffredo, 1936, p. 282):

 

«Ultima opera di Berkeley fu la “Siris”, catena di considerazioni che partono dalle virtù curative dell’acqua di catrame, e si spingono poi verso il disegno di una concezione che risente da vicino l’influenza della filosofia platonica e neoplatonica, da Berkeley invocata a fondare, integrare e compiere la sua concezione giovanile del “trattato sui principi della conoscenza”. Ivi egli aveva sostenuto che le nostre idee sono ricezioni di azioni che provengono direttamente da Dio, senza l’intermediario di “corpi” tra Dio, spirito infinto, e noi, spiriti finiti. Nella “Siris” Berkeley riprende e completa il suo pensiero dicendo che, se il mondo è fenomeno di momento in momento creato dal volere di Dio, di questo mondo sensibile, estremamente mutevole, non si dà “conoscenza”, e “conoscenza” si dà solo di Dio, sostanza spirituale e infinita, fondamento eterno e assoluto dei cangianti fenomeni sensibili.

Così Berkeley, su la base stessa del suo assoluto empirismo e fenomenismo, giunge a riaffermare platonicamente che sola “conoscenza” è quella, puramente intellettuale, dell’Eterno, mentre la sensazione, cogliendo il mutevole fenomeno, non attinge il vero.»

 

Appunto: e forse è proprio questo che irrita i critici di Berkeley: il suo tornare a una verità ovvia, ma capovolta dalla modernità: che del contingente non si dà vero conoscere, ma solo dell’Assoluto.