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Carlo Gozzi contro Goldoni, ovvero: di che cosa deve parlare il teatro?

di Francesco Lamendola - 07/10/2014

Fonte: Arianna editrice

 


 

Fin dai banchi di scuola siamo stati indottrinati a vedere in Carlo Goldoni l’iniziatore della maniera “giusta” di fare teatro: mettendo in scena la realtà, creando dei personaggi verosimili, delle storie quotidiane, tratte dalla vita “vera”, e rifiutando sia i lazzi e gli orpelli della ormai esangue Commedia dell’arte, sia le stramberie alla moda dell’abate Chiari e le evasioni fantastiche del reazionario Carlo Gozzi. Ora, indipendentemente dal giudizio che si voglia dare dell’arte di Goldoni, resta il fatto che, impostata così la questione, non si tratta che di un giudizio auto-referenziale: siccome la modernità ha eletto Goldoni (e, più tardi, i vari Pirandello, Beckett e Ionesco) a proprio nume tutelare, almeno nell’ambito del teatro, va da sé che Goldoni rappresenta il “bene”, cioè il progresso, mentre Gozzi rappresenta il “male”, cioè la conservazione di modi di pensare, di scrivere e di far teatro che erano divenuti superati e indifendibili.

La storia, dunque, la scrivono sempre i vincitori: di questa semplice verità dovrebbero ricordarsi anche gli studenti, quando si vedono servire, già bello e confezionato, un quadro storico-letterario in cui i vincitori sono, appunto, i maestri della modernità: realisti, esistenzialisti, cerebrali (ma di un cerebralismo che celebra il Nulla): sono i vari Kafka, Proust, Svevo, Joyce, intrepidi araldi della dissoluzione, di cui si compiacciono e da cui traggono il consenso dei lettori; mentre gli scrittori, di teatro e no, che non seguono questa impostazione, sono automaticamente relegati al ruolo di “antagonisti” destinati a essere oltrepassati dalla Storia, perché la Storia (con la “s” maiuscola) non sa cosa farsene dei passatisti, immersi nei loro sogni e nei loro rimpianti. La Storia vuol procedere a passo di carica; vuol demolire tutto ciò che appartiene alla tradizione (come fanno architetti e urbanisti scatenati, autentici Vandali delle nostre città e dei nostri paesaggi); non ha tempo per gli indugi, per i sentimentalismi; e, del resto, ne diffida profondamente: non ha forse insegnato Freud, uno dei più grandi “maestri” della modernità, che bisogna diffidare sempre, di tutto e di tutti, ma specialmente dei buoni sentimenti e degli onesti pensieri?

Tornando al teatro: la domanda che ci si dovrebbe porre, prima ancora di emettere giudizi di valore su questo o quell’autore, è di che cosa esso deve parlare, che cosa deve rappresentare, a quale funzione risponde. Se, prima ancora di riflettere, diamo per scontato – perché così ci è stato sempre detto, ma senza spiegarci perché – che il teatro deve mettere in scena la “realtà”, la “verità”, la “vita” (come se questi tre concetti fossero sinonimi), allora si capisce che gli autori “realisti” sono nel giusto, mentre quelli che non lo sono, brancolano nell’errore. Ma chi garantisce la giustezza della premessa?

Quanto male, in letteratura, ha fatto l’equivoco del Neorealismo, innalzato al rango di Letteratura con la “l” maiuscola (e la stessa cosa è accaduta nel teatro, nel cinema, nelle arti figurative, perfino nella filosofia): si pensi, per fare solo un esempio, alle dolorose incomprensioni cui è andato incontro il povero Cesare Pavese, reo di aver “tradito”, agli occhi di certi critici letterari - e sappiamo di qual colore e di quale ideologia – il realismo, per abbandonarsi alle fumisterie del mito, del simbolo, dell’archetipo. Quanto al teatro: era davvero nell’errore Carlo Gozzi, allorché si impegnava, con tutte le sue forze, in una strenua battaglia contro il “realismo” che vedeva avanzare ovunque, dall’economia alla giurisprudenza, dalle scienze naturali alla teologia, identificandolo con il cavallo di Troia di una “rivoluzione” che avrebbe distrutto il vecchio mondo, senza sapere poi come costruirne uno nuovo? Era davvero così ottuso, così incapace di comprendere quel che stava accadendo, come ce lo dipingono fin troppo volentieri i critici e gli storici della letteratura, allo scopo di far meglio risaltare, per contrasto, le meravigliose virtù di Goldoni, cittadino della modernità coi piedi ben piantati per terra, deciso a riformare il teatro (o piuttosto a rivoluzionarlo) per sottometterlo alla sua personale concezione, cancellando secoli d’illustre tradizione?

Non si vuole, con questo, dare un giudizio di valore sul suo teatro, dal punto di vista artistico; né si vuol sostenere, cosa che sarebbe assurda, che la Commedia dell’arte avesse ancora qualcosa da dire, nella seconda metà del XVIII secolo. Goldoni, ma c’è bisogno di dirlo?, è stato un grande scrittore; e la Commedia dell’arte, dopo una lunga e gloriosa storia, era ormai giunta al capolinea: su questo non ci sono dubbi. Rimane la domanda: il tipo di riforma, o piuttosto di rivoluzione teatrale, di cui Goldoni si è voluto protagonista, e i suoi ammiratori dopo di lui, ha orientato i successivi sviluppi del teatro italiano nella direzione giusta? La direzione giusta per il teatro, così come per ogni altra forma d’arte, è quella in cui l’essere umano riesce a specchiarsi con un maggiore grado di verità; laddove la “verità” non va confusa con il “realismo”, che è la mera verità dell’apparire, ma va intesa in un senso molto più ampio e profondo, ossia come verità totale, non solo di ciò che si mostra ma anche di ciò che rimane celato alla vista, e, nondimeno, appartiene alla realtà tanto quanto le cose che si vedono, si odono, si toccano.

E dunque: l’uomo contemporaneo ha elaborato una immagine veritiera della realtà, in questo senso più ampio e profondo? È in grado di specchiarsi in se stesso con sufficiente verità, ed è in grado di porsi nella giusta relazione con gli altri enti, ossia tenendo conto della loro reale natura, dove “reale” non è solo quella che si mostra, ma quella che appartiene al loro intimo essere, senza la quale è inevitabile che li si tratti o come strumenti da sottomettere o come nemici da abbattere? E il teatro “realista”, così come la letteratura “realista” del XIX e del XX secolo, ha svolto un ruolo positivo nell’aiutare l’uomo a porsi in maniera corretta verso se stesso e verso gli altri, cogliendo la realtà intima che si cela dietro il dato puramente esteriore e materiale?

Sono queste le domande che ci si dovrebbe porre, quando si deve giudicare la controversia teatrale fra Carlo Gozzi e Goldoni. Bisognerebbe mettere fra parentesi il fatto che la concezione goldoniana, nel medio-breve periodo, ha riportato una vittoria totale e definitiva; che la concezione teatrale del primo è stata relegata nella soffitta delle cose inutili e strane, delle quali ci si domanda a che cosa possano essere mai servite, e perché siano durate così a lungo. Bisognerebbe anche liberarsi dal pregiudizio secondo il quale solo il Progresso ha ragione, mentre la Tradizione ha torto: pregiudizio, appunto, tipicamente moderno. Così come bisognerebbe liberarsi, almeno in sede di giudizio estetico, di un altro pregiudizio moderno, quello che potremmo definire democratico: secondo il quale è il pubblico, sempre, ad aver ragione; solo che i critici “progressisti” fanno sparire i giudizi negativi del pubblico, quando ciò contrasta con la loro ideologia, mentre proclamano che il giudizio del pubblico è sovrano (come gli esponenti dei partiti fanno in politica, del resto), anche se si adoperano in ogni maniera per orientarlo, per spingerlo, per tirarlo sul letto di Procuste dei loro criteri, insomma per forzarlo nella direzione da essi voluta, e poi, a posteriori, proclamare che esso è santo e inappellabile!

Ha scritto, in proposito, Silvio D’Amico nella sua ormai classica «Storia del teatro drammatico» (Milano, Garzanti, 1960, vol. 1, pp. 291-3):

 

«S’è già accennato che, tra i suoi nemici [cioè di Goldoni], primo in ordine di tempo fu l’abate bresciano Pietro Chiari (1711-1785); uno tra gli esponenti più caratteristici della figura del cosiddetto “abate” settecentesco, un po’ letterato, un po’ cicisbeo, e quasi niente prete. Egli aveva raccolto entusiastico successo nei salotti delle  signore del tempo suo, scrivendo racconti e romanzi che intitolava: “Veglie inglesi e francesi, ossia raccolta di storie galanti  per trattenimento delle donne”.  “Erano”, dice il Guerzoni,”avventure di viaggi, di guerre, di pellegrinaggi, di serragli, di prepotenze signorili e di amori fantastici, accadute in Inghilterra, in Francia, in Tartaria, in Turchia, in Panduria, dappertutto fuorché in Italia, tolte per lo più da fole d’altri romanzi e d’altri paesi” (e noi possiamo specificare qualche nome: Fielding, Richardson, Marivaux, Lesage).

Per combattere il cosiddetto realismo del Goldoni, il Chiari   non fece altro che portare sulla scena le stesse storie,  strampalate e mal congegnate, dei suoi racconti.  Abbiamo già accennato al diffondersi, nel nostro Settecento, della “sensiblerie” venuta dal Nord. La vena lacrimosa  fu prediletta dal Chiari; e, dato il gusto che imperava,  riportò successi anche superiori ai primi del Goldoni.  Tipico il caso della sua “Schiava cinese”, commedia  avventurosa con cui vinse la “Sposa persiana”, che il buon Goldoni aveva scritto, male sacrificando appunto a quel  gusto che odiava.

Ma il maggiore, e ormai leggendario, antagonista del Goldoni, fu come tutti sanno il conte Carlo Gozzi (Venezia,  1720-1806). Di famiglia  decaduta ma nobile, rigido, burbero, onesto, tenacemente attaccato alle tradizioni dello Stato e della Chiesa, ferocemente avverso alle novità rivoluzionarie che in tutti i campi – il morale, il politico, il sociale, il letterario – ormai annunciavano il crollo d’un mondo e l’avvento d’’un altro, il Gozzi si trovò a esser naturalmente l’antesignano della lotta che un’accademia di puristi, quella dei Granelleschi, stava combattendo  a un tempo contro il Goldoni e contro il Chiari, tutt’e due messi press’a poco alla pari (cfr. anche il Baretti) nell’accusa di tradimento al buon gusto.

Il Gozzi, fanaticissimo tra i Granelleschi, l’aveva a morte così con le commedie importar  dall’estero, flebili, romanzesche, glorificatrici sentimentali, di eroismi pericolosi (Chiari), come con quelle che pretendevano d’interessare il pubblico  all’umili e grossolane vicende di borghesucci e popolani, senza grazia né fantasia (Goldoni). E contro il Chiari e il Goldoni egli scrisse, prima, la famosa “Tartana degl’influssi per l’anno bisestile 1756”, poemetto satirico in due canti; e poi una fiaba o commedia fantastica, “L’amore delle tre melarance” (1761).

Questa fiaba si disse composta per mero puntiglio: e cioè, per mostrare che il pubblico applaude qualunque  cosa, purché ne sia meravigliato; si pensi che il Gozzi ne attinse la trama dalla favola popolare che si racconta ai bimbi. Egli v’aggiunse però anche la parodia del Chiari (Fata Morgana) e del Goldoni (Celio Mago), e le sue trasparenti allusioni ebbero grande successo nel ceto conservatore. Allora, come preso all’incanto del suo stesso giuoco, e abbandonando più o meno gl’intenti propriamente parodistici, ma solo volendo dar l’esempio di quel che debba essere l’arte antiverista, colorita, fantasiosa, meravigliosa, il Gozzi scrisse, tra il 1761 e il 1765, altre nove fiabe: “Il corvo”, “Il Re Cervo”, “Turandot”,  “La dona serpente”, “La Zobeide”, “I pitocchi fortunati”, “Il mostro turchino”, “L’Augellino Belvedre”, “Zem re di Genj”. Poi scrisse dei drammi:  “La figlia dell’aria”, “Le due notti affannose”, “I due fratelli nimici”, “La principessa filosofa”, “L’amore assottiglia il cervello”,  “Il moro di corpo bianco”, ecc., tutti  attinti dal teatro spagnolo del Seicento.

La caratteristica di tutta l’opera del Gozzi è nel disprezzo della vile verità, e nella ricerca del fantastico, brillante e abbagliante: donde i soggetti tolti da storie immaginose, la predilezione per le pompe della scenografia e pei colpi di scena, l’amore alla magia e agl’incantesimi, le patetiche commozioni, e infine il comico-grottesco. Per quest’ultimo, il Gozzi nelle fiabe ricorse alle maschere della commedia dell’arte (Pantalone, Tartaglia, Brighella,  Truffaldino), lasciando spesso che la loro parte fosse “a soggetto”.

E tutto ciò ottiene, specie presso un certo pubblico restio a capire la riforma goldoniana, un successo grande ma effimero. Erano l’avventurosa coreografia secentesca e la Commedia dell’arte che, insieme combinate, davano gli ultimi tratti.

Sorta da un puntiglio, l’arte del Gozzi non fu che un ghirigoro di voluta bizzarria: opera d’un cervello onesto quanto arido. Pure, l’equivoco creato dall’interesse di lettori stranieri, soprattutto tedeschi o tedeschizzanti,  verso la sola cosa che spesso, nelle fiabe del Gozzi,  non è sua, ossia gli intrecci, persiste tuttora. E anche nella accurata monografia sulla Commedia dell’arte del dotto russo Konstantin Miklacevskij, avviene di leggere, accanto alle solite deplorazioni del presunto delitto del Goldoni (“La Commedia dell’arte fu condannata a sparire e dovette far posto al Teatro di Carlo Goldoni, piccolo borghese quieto  e pieno di quel buonsenso che precisamente mancava a Carlo Gozzi”), il solito elogio del Gozzi (“aristocratico decadente” ma autore di “opere piene di talento”, di “splendenti fantasie estetiche”, che “naturalmente  non ebbero se non un successo momentaneo”.

Il nostro giudizio è tutt’altro. Per esser fantasioso nel senso più autentico del vocabolo, Goldoni non ha avuto bisogno di ricorrere ad aiuti esteriori;  non è andato in cerca di magie e di trucchi;  non s’è perduto in pretesti e messinscene fantasmagoriche e coreografie sbalorditive. I suoi miracoli li ha operati dal niente. Nella sua mano leggera, nella sua miracolosa facoltà di annodare e di ricamare e sciogliere  un intreccio, nella sua vena sì colorita e brillante, è bene quell’incanto, che negli scenari della Commedia dell’arte non troviamo più. De’ nostri commediografi anteriori all’Ottocento (fatta la grandiosa  eccezione della “Mandragola”) il Goldoni è certo  il più originale, il solo fornito di uno stile tutto suo, il solo sempre vivo e vitale. E in tutt’e dieci le fiabe del magnificato, freddo e inumano Carlo Gozzi, non c’è la decima parte di quella fantasia che scherza  nel variopinto frastuono delle “Baruffe chiozzotte”.»

 

Questo, ci sembra, è un buon esempio di cosa sia un giudizio letterario partigiano, che, forte del parere della maggioranza, vorrebbe far coincidere se stesso con la verità delle cose: dimenticandosi, appunto, che ogni giudizio è solo un giudizio, e che le cose parlano da se stesse, se le vogliamo ascoltare, senza bisogno che i critici letterari si affannino per convincere il pubblico che la verità sta da una parte piuttosto che da un’altra.

Siccome il realismo, a partire da Goldoni, ma soprattutto dopo di lui (pieni d’imbarazzo, i suoi sperticati ammiratori non osano quasi parlare delle commedie ch’egli scrisse nel più puro stile romanzesco e fantastico, per tentar di battere il Chiari e il Gozzi sul loro stesso terreno e strappare il consenso del pubblico, in qualunque modo e con tanti saluti per la famosa “riforma”), è diventato la legge dogmatica del teatro, e non solo del teatro, ma dell’intera letteratura moderna, fino ai deliri intellettualistici di Pirandello, di Svevo, di Joyce, di Beckett, oggi è sin troppo facile dire che Goldoni aveva visto giusto e che era il più lungimirante di tutti i suoi contemporanei, in virtù del suo genio solitario; mentre il Gozzi non aveva capito nulla, essendo la sua personalità, fra l’altro, viziata da una natura fondamentalmente arida, fredda e addirittura “inumana”.

Se, poi, scrittori stranieri di prima grandezza, come Goethe, Schiller e Schlegel, lessero, amarono, tradussero le fiabe di quest’ultimo, non può essersi trattato che di un “equivoco”: del resto, essi non si erano resi conto (compreso quel grande ingenuo di Goethe, evidentemente!) che quel che ammiravano principalmente in tali opere, l’intreccio, non era farina del sacco dell’autore, ma il Gozzi lo aveva rubacchiato… proprio nel repertorio delle fiabe per l’infanzia. E non si accorge, il D’Amico, di dire una autentica enormità: ché la cultura tedesca fra XVIII e XIX secolo faceva perno appunto sulla riscoperta della fiaba e del racconto popolare (si pensi solo ai fratelli Grimm o a Clemens Brentano), per rinnovare dall’interno il discorso letterario; e dunque il suo interesse e la sua ammirazione per Gozzi non nascevano da alcun equivoco, ma proprio da una convergenza d’interessi e di prospettive. Quanto al fatto che nelle “Baruffe chiozzotte” vi è dieci volte più fantasia che in tutte le fiabe del Gozzi, questo è, appunto, un giudizio di valore…

Del resto, come potrebbe un semplice uomo, anzi un ometto bisbetico e retrogrado, come il conte (decaduto e squattrinato) Carlo Gozzi, ardire di misurarsi con un genio quale Goldoni, il cui talento è definito niente meno che “miracoloso”? Solo che Goldoni, per fare i miracoli, non ha bisogno né del fantastico, né dell’esotico, né del fiabesco (a voler tacere, s’intende, di quelle commedie, e non sono poche, come appunto “La sposa persiana”, nelle quali mostra di pensarla in tutt’altro modo, e di cercare tutt’altro tipo di consenso): gli basta mettere in scena la verità, e tutti i castelli in aria e le fasulle ambientazioni avventurose del rivale, si dissolvono come nebbia al sole. La verità, a quanto mostra di credere D’Amico, è auto-evidente, non ha bisogno di alcuna interpretazione; e Goldoni, vessillifero di questa nuova maniera di concepire il teatro, è egli stesso il sole dell’avvenire, che illumina in anticipo le stagioni future del teatro, purché si uniformino al suo credo.

Qual è la più grave accusa, infatti, che si può rivolgere a Carlo Gozzi, se non quella di aver disprezzato la “vile verità”, al punto che tutta la sua arte non sarebbe nata che da un puntiglio e si esprimerebbe in un ghirigoro di pura bizzarria? Eppure, dalla penna del D’Amico, scivola - e non una volta sola - che il Gozzi era, dopo tutto, uno scrittore ”onesto”: ma allora, come si deve intendere codesta onestà? Se “onesto” è uno scrittore che scrive quel che sente di dover scrivere, allora ci sembra difficile negare che Gozzi è stato più onesto di Goldoni: perché non si è mai umiliato a scrivere cose in cui non credeva, cose che disprezzava, che detestava con tutto il cuore, pur di strappare l’applauso del pubblico e di superare i rivali.

Ad ogni modo, è bene ricordare che il “caso Goldoni” non è che un aspetto del ben più grande “caso modernità”, nel cui clima “illuministico” siamo tuttora immersi: di una cultura, cioè, la quale, essendo rivoluzionaria per principio («Bisogna essere assolutamente moderni!», ammonisce aggressivamente Rimbaud), è ben decisa a portare la luce della ragione nelle tenebre fitte dell’ignoranza che avvolgono il mondo, il NOSTRO mondo.

Che noi ne siamo persuasi o meno…