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La strategia del “caos controllato”

di Alvise Pozzi - 07/10/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente

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l trend a ribasso del prezzo del barile che prosegue da tre mesi – ai minimi da più di due anni – è quantomeno insolito alla luce delle sanzioni contro la Russia, della polveriera irachena, della guerra civile libica e dell’ebola in Nigeria. Il prezzo del petrolio sembra per la prima volta stranamente essere immune alle attuali tensioni geopolitiche.

  

 Dall’esplosione della bolla speculativa nel 2008 alle proteste degli studenti a Hong Kong di quest’ultima settimana, il mondo è diventato un luogo assai più instabile e insicuro di quanto anche il più pessimista degli analisti avrebbe potuto immaginare. Nonostante l’iperattività statunitense in tutti i principali scenari – un mix letale di ultraliberismo, bombardamenti e rivoluzioni colorate -, dal Medio Oriente all’Africa e dall’Europa all’Asia, l’obiettivo di ottenere una pacifica globalizzazione controllata e vantaggiosa per tutti è a tal punto fallito, da far legittimamente pensare che probabilmente non fosse proprio il fine ultimo.

Secondo Sergej Glazev, accademico e consigliere presidenziale di Putin, nel medio periodo vi sono solo tre possibili scenari ipotizzabili: una consensuale governance multipolare in grado di risolvere diplomaticamente le crisi, che implicherebbe quindi un ridisegno delle attuali forme di gestione del potere sovranazionale (in primis all’ONU per passare al WTO, l’FMI e la Banca Mondiale); un crack del sistema finanziario anglosassone, che dividerebbe il mondo in aree economiche separate e opposte fra loro; e, infine, la conservazione dell’attuale ordine mondiale a scapito dei paesi terzi e “periferici” al G7. Inutile dire quale sia lo scenario prediletto per le elite americane.

 La strategia di destabilizzazione d’intere aree d’interesse geopolitico appare sempre più evidente se si analizzano gli effetti e le conseguenze che gli interventi americani degli ultimi 10 anni hanno provocato in giro per il mondo: con la fallimentare guerra in Afghanistan e quella irachena si è ottenuto lo scopo di far lievitare il prezzo del petrolio a tal punto da rendere appetibili gli investimenti nelle nuove tecnologie estrattive (fracking e petrolio bituminoso), facendo diventare gli USA da importatore netto addirittura prossimo principale produttore mondiale; allo stesso tempo si è in tutti i modi osteggiata la vendita di idrocarburi da paesi nemici come il Sudan, l’Iran, la Russia e soprattutto la Libia. Il trend a ribasso del prezzo del barile che prosegue da tre mesi – ai minimi da più di due anni – è quantomeno insolito alla luce delle sanzioni contro la Russia, della polveriera irachena, della guerra civile libica e dell’ebola in Nigeria. Il prezzo del petrolio sembra per la prima volta stranamente essere immune alle attuali tensioni geopolitiche. Gli stessi membri dell’OPEC hanno visioni divergenti su come operare: se il ministro iraniano e libico sono d’accordo nel “tagliare” la produzione, i paesi del golfo e l’Arabia Saudita sono ovviamente di parere opposto.

Tutto ciò sembra assai funzionale al mantenimento della “signoria del dollaro”, che continua a essere usato come valuta di scambio, nelle transazioni energetiche, finanziando il debito statunitense. D’altra parte il costante espansionismo della NATO verso est, l’appoggio incondizionato al governo di Kiev – che bombarda impunemente civili chiamati terroristi – e l’improvvisa ascesa dell’ISIS, concorrono a pieno titolo a quella strategia del “caos controllato” funzionale a creare una serie di conflitti su tutto il pianeta. Guerre che gli USA non conducono direttamente ma tramite la corruzione delle elite al potere e scatenando conflitti civili, per poi intervenire assieme agli storici alleati inglesi e australiani. Una volta ottenuto il controllo sull’Europa – di cui l’ostinata negoziazione a porte chiuse del TTIP a Bruxelles è chiaro indice – e ridotta alla ragione la Russia, utilizzeranno la loro supremazia nella lotta contro la Cina. Non a caso ieri è iniziata l’esercitazione navale tra la US Navy e la sua controparte filippina che partirà proprio da Palawan, la più vicina isola a quelle contestate con la Cina. L’operazione, che vede impiegati più di 5.000 marinai e marines, navi da sbarco e lanciamissili, s’inserisce in un più ampio contesto di collaborazione militare tra i due paesi che include l’apertura di nuove basi dove dislocare uomini, navi e aerei. Peccato che l’apertura di basi straniere sul territorio filippino senza voto del Senato sia contraria alla Costituzione, ma la strategia della “più grande democrazia del mondo” non può essere fermata per certe piccolezze formali. Dopotutto le Filippine furono strappate alla Spagna nel 1898.