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A chi sorride l’Angelo della Cattedrale di Reims?

di Francesco Lamendola - 22/10/2014

Fonte: Arianna editrice


 


 

È un interrogativo che ha turbato, e continua a turbare, i sonni di decine di critici d’arte, storici e medievisti in generale: a chi o a che cosa è rivolto lo strano, enigmatico, meraviglioso sorriso dell’Angelo di Saint Nicaise - dolcissimo, certamente, ma in certo qual senso “profano” - che si può ammirare sulla facciata principale della cattedrale di Reims?

Affinché i non specialisti possano afferrare i termini della questione, che può sembrare astrusa e cervellotica, mentre invece non lo è affatto, anzi, è questione di somma importanza, diremo subito che quell’angelo in pietra, quel sorriso affascinante, estatico, possono sembrare in vivo contrasto non solo con tutto il complesso scultoreo e architettonico della grande cattedrale gotica, ma con la stessa concezione dell’arte sacra, così come la concepiscono gli artisti medievali – i quali, per la verità, non concepiscono altra arte che non sia sacra.

Storici dell’arte come John Ruskin ed Émile Mâle e scrittori dalla squisita sensibilità come Joris Karl Huysmans, tanto per citare alcuni nomi illustri, ne sono rimasti conturbati: se gli schemi iconografici dell’arte medievale sono pienamente soggetti a un pensiero religioso, anzi sacerdotale, e si basano su di una impostazione liturgica che interdice, da un lato, la “libertà” espressiva dell’artista, così come la intendiamo noi moderni, o, quanto meno, la disciplina rigidamente, e dall’altro, pretende da lui l’anonimato, onde non anteporre l’io della creatura alla lode del Creatore, di cui l’arte stessa è espressione, canto, preghiera: allora come spiegare quel sorriso che sembra abbracciare il mondo con troppa partecipazione e che, di primo acchito, appare in qualche modo incongruo, se non proprio stonato, sulle labbra di un angelo?

A che cosa bisogna pensare, dunque: forse a una svista, a una bizzarria, a un anacronismo – felice o infelice, secondo i punti di vista – dell’ignoto scultore medievale? Oppure, addirittura, a un lampo di anticipazione di temi e sensibilità propri dell’epoca successiva, quella che si esprime nella civiltà umanistico-rinascimentale, in cui la bellezza, la bellezza terrena, è un valore in se stessa, se non necessariamente profano, certo autonomo e slegato dalla sfera del sacro, e non più un semplice rivestimento, una allusione alla vera bellezza, quella divina?

L’artista medievale, e l’uomo medievale in generale, non possono concepire la realtà naturale separatamente da quella soprannaturale: i due ordini sono complementari, ma, fra essi, è certo il secondo che comprende il primo, e non viceversa: dunque, la bellezza delle cose, dei corpi, il valore delle cose mondane, non possiedono uno spazio autonomo e separato, né distinto dalla Verità di cui sono delle copie sfuocate, o, nel migliore dei casi, una anticipazione e una promessa: questo, almeno, fino al dilagare dell’aristotelismo nelle università e agli sviluppi della Bassa Scolastica, che, con Alberto Magno e con Tommaso d’Aquino, finiranno per relegare in posizione secondaria il platonismo implicito nella spiritualità francescana.

Ora, l’insediamento dell’aristotelismo nella cultura medievale ha una data abbastanza precisa: è il 1240, allorché Ruggero Bacone prende l’abitudine, nell’università di Parigi, di commentare Aristotele in tutte le sue opere, senza tener conto delle precedenti interdizioni nei confronti di alcune di esse - quelle, appunto, che, sulla scia dell’averroismo, si prestano a una lettura eterodossa dal punto di vista cristiano, sui temi scottanti dell’eternità del mondo, della mortalità dell’anima umana, della impossibilità della Provvidenza divina. La costruzione della cattedrale di Reims viene iniziata dall’arcivescovo Aubry de Humbert nel 1211 e portata a termine, sotto la direzione di quattro successivi architetti, nel 1275. Dunque, sotto il profilo cronologico, ci siamo: il “mistero” del sorriso dell’Angelo di Saint Nicaise si potrebbe spiegare, almeno fino a un certo punto, nel clima della rinascita dell’interesse per la bellezza come valore autonomo, e dunque “profano”, favorita dall’insediamento dell’aristotelismo come filosofia dominante nell’ambito della cultura cristiana. Ma è una spiegazione del tutto soddisfacente?

Per rendere ancora più chiari i termini della questione, e per offrire validi e originali spunti di riflessione, ci piace riportare alcuni passaggi di un pregevole saggio del critico e francesista Luigi De Nardis, allievo di Pietro Paolo Trompeo, «Il sorriso di Reims» (in: L. De Nardis, «Il sorriso di Reims e altri saggi», Bologna, Cappelli Editore, pp. 26-30):

 

«Ora, non è possibile spiegare l’allontanamento degli angeli di Reims, e in particolare di quello di Saint-Nicaise, dagli schemi iconografici della cattedrale, con l’innamoramento degli artisti per un ideale di bellezza che, stando alle parole del Mâle, appare irrimediabilmente legato a un clima decadentistico, è impensabile  che solo gli anonimi scultori degli angeli di Reims abbia voluto sottrarsi, non già all’osservanza di quegli schemi, ma addirittura all’impegno religioso che in essi era sotteso, per il vagheggiamento di una bellezza estetica, coscientemente perseguito. Partendo da queste premesse è ovvio che il Mâle indicasse negli angeli di Reims una contravvenzione al genio armonioso del medioevo, a quella “musique fixée” che egli ritrova perfino nella disposizione delle figurazioni  nei ricchi portali: “L’ordonnance des statues au portail des cathédrales a quelche chose de musical…”; un errore artistico, come egli afferma, attribuendo  ai “maîtres exquis de Reims” ideali di bellezza affatto rinascimentali. Ma lo spirito e le forme dell’arte medievale non consentono soluzioni accomodanti, che soddisfano la moderna sensibilità estetica […].

Cosicché, ove si volesse definire il senso di quello che oggi ci appare come un allontanamento formale e sostanziale dalla “sombre poésie du livre”, non resterebbe che porre il problema affascinante dell’angelo di Saint Nicaise nei termini consentii dalla non casuale struttura della cattedrale, il cui didascalismo di fondo non esclude, anzi postula, quel tanto di elemento lirico  nelle singole parti che concorre alla creazione  del lirismo ”totale” esprimentesi dall’organico tutto. In primo luogo, quella familiarità, quell’affettuoso cenno d’intesa che aleggiano nel “sorriso di Reims”, sono ben lungi dal costituire  un elemento discordante nella complessa partitura musicale in cui vive la pietra della cattedrale: Ruskin, e soprattutto il Mâle, si sono soffermati sulle ragioni della presenza, nella decorazione esterna,  di elementi locali, realistico, di quella che Proust chiamava “la vérité locale et climatérique” dei bassorilievi di ispirazione agreste. Le vigne “champenoises” assediano le vecchie mura della città, la cattedrale guarda dall’alto con amorosa sollecitudine gli uomini curvi sulle colture e benevolmente consente a che sulla sua pietra venga illustrata, decorativo contrappunto ai grandi temi della Redenzione,  l’operosa vicenda dei giorni e delle stagioni, cioè il ritmo che misura la vita dei fedeli.[…]

Il fedele […], prigioniero in un mondo dalla duplice dimensione creaturale-passionale e  simbolico-trascendente, ritrova puntualmente quella duplice dimensione alle soglie del tempio, un microcosmo in cui i rapporti tra umano e divino, tra terra e cielo erano certificati dalla fede.  Ora, tali rapporti, pur nella necessaria  affermazione della supremazia dell’un sull’altro, consentivano il miracolo medioevale della proiezione  del reale sul piano dell’eterno, e il miracolo inverso e contemporaneo  della permanenza del reale da parte dell’eterno; di fronte alla cattedrale, l’uomo del tredicesimo secolo  percepisce “oggettivamente” la sua realtà su una prospettiva trascendente. Una percezione che gli riuscirebbe difficile, se non impossibile,  senza la presenza consolante di quegli elementi a lui familiari che, instaurando rapporti di confidente intesa tra lui e il tempio, lo preparano a ricevere nel più profondo del cuore – e son costretto ad usare ancora la felice espressione del Mâle – “la sombre poésie du livre”.

Chiose, queste, di cui anche sorride l’angelo  di Saint Nicaise: lui che da secoli rivolge il suo affabile amichevole viso al fedele, fiducioso nella semplicità e nella cordialità del suo linguaggio: ma chiose necessarie,  oggi, perché quel linguaggio riacquisti  il suo vero senso per chi cerca di decifrarlo, senza più la fede di allora e con la cauta fede dei nostri tempi, solo sorretto da una disposizione filologica. Quel capo inclinato verso il basso, quel volto su cui  si spande e da cui irraggia il sorriso, ora senza più età, avvicina il cielo a chi contempla, turbato, le linee tese della cattedrale che quello stesso cielo allontanano in una prospettiva all’infinito. Viatico per chi si predispone ai tenebrosi e insieme fiammeggianti rapimenti dell’interno, quel sorriso da cui promana  tanta lieta speranza resta nel cuore del fedele come una fragile ma inesausta fiammella che assicura  la individuale permanenza umana  nella dilagante luce dell’infinito.

Luce su luce, come nel Paradiso dantesco: umana fiammella della beatitudine nell’oceano luminoso di Dio. E anche in Dante, le due prospettive: quella  che allontana il cielo, e che si definisce nell’ineffabile  sorriso degli angeli; quella che lo avvicina, nel segno della speranza e del familiare sorriso di Beatrice e di Bernardo: “Bernardo m’accennava, e sorridea…”. Forse meno di tre decenni dividono le due grandi opere, la “Commedia” di Dante e la Cattedrale di Reims: ma l’angelo di pietra e le celesti e umane guide di Dante sorridono allo stesso modo, con la stessa bontà. Non “errori artistici” nella complessa e minuziosa ossatura delle opere cui appartengono, ma ancora una volta testimoni del genio ieratico e armonico del medioevo che dalla luce e dalla pietra trae gli accordi di una musica silente eppure profondamente umana…»

 

Proprio così.

Forse lo sconcerto, l’imbarazzo che l’uomo moderno prova davanti al sorriso dell’Angelo di Saint Nicaise nascono in sostanza da un malinteso, o meglio da un pregiudizio: dall’idea, grossolana e ingiustificata, che il Medioevo non abbia amato la bellezza, che abbia disprezzato il mondo, che sia stato dominato esclusivamente da una cupa atmosfera di peccato e di morte; e che il riso, per dirla con un personaggio del romanzo anti-medievale e anti-cristiano (e vorremmo dire anti-storico) «Il nome della rosa», non stia bene sulla bocca di un cristiano, perché esso appartiene semmai alle smorfie del Diavolo, preludio alla tentazione e alla ribellione contro Dio.

Forse il sorriso dell’Angelo di Reims, al contrario, non è affatto incongruo, non ha nulla di anomalo, non dovrebbe in nessun modo turbarci o imbarazzarci. E questo non perché il Medioevo sia stato una specie di Rinascimento inconsapevole (questo sarebbe un ingenuo rovesciamento del paradigma culturale oggi imperante e dei suoi pregiudizi), ma perché la spiritualità medievale era fondata sulla complementarità e sulla distinzione dei due ordini della realtà, il naturale e il soprannaturale. Complementarità: dunque nessun manicheismo, nessuna condanna radicale del mondo, della carne, della bellezza (come spiegare, altrimenti, la dottrina cristiana della resurrezione dei corpi?); ma, nello stesso tempo, distinzione dei due ordini: perché il naturale è il riflesso del soprannaturale, e il soprannaturale è la realtà assoluta che si cela dietro il naturale.

La vita terrena, dunque, per l’uomo medievale, è un valore, è un bene, così come lo sono la bellezza, l’amore, la gioia; ma è un valore che trae la propria ragione ultima da qualcosa che sta fuori della vita, e che, senza negarla, senza disprezzarla, senza maledirla, nondimeno la oltrepassa, la supera, la sublima, in uno sguardo più ampio, in un respiro più universale. L’uomo medievale apprezza la bellezza e la gioia terrene, ma non ne rimane invischiato; gode delle cose buone che la condizione mortale offre, ma non accetta di farsene schiavo e, soprattutto, non dimentica che in essa vi è un anticipo, una caparra, ancor vaga e confusa, di quella luce infinita, di quel calore perenne che sgorgano dall’Assoluto e senza i quali ogni cosa terrena, abbandonata a se stessa, diventa vuota, ingannevole, deludente.

Ma perché, dunque, l’Angelo di Reims sorride a quel modo, in mezzo a sculture e raffigurazioni che non sorridono, o che, casomai, sorridono in altro modo, più spirituale, più distaccato dalle cose del mondo? Per la semplice ragione che l’artista ha voluto mostrare il prodigio dell’infinito nel sensibile, la bellezza del soprannaturale nel naturale: ha voluto celebrare Dio, non a dispetto, ma proprio in ragione della condizione umana, che è fatta anche di corpo, di carne, di aspirazione alla gioia dell’esistenza in tutta la sua completezza, fisica e spirituale. Pertanto questo ignoto scultore ha voluto alludere alla gioia e alla pace perfette, quelle che si rivelano nella comunione intima con Dio, non al di fuori, ma al di dentro della condizione umana; e ha voluto farlo non in contrasto accidentale, ma in consapevole discontinuità con il grandioso complesso architettonico e scultoreo della cattedrale: così come nel buio della notte, talvolta, un lampo improvviso rischiara a giorno il paesaggio e rivela in piena luce, ma solo per un attimo, quel che era celato alla vista.

Tale è la prospettiva dell’uomo medievale: quella di Francesco, di Tommaso, di Giotto e di Dante. L’altro mondo non è la negazione di questo: è il suo compimento gaudioso, pacificato, ineffabile…