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La filosofia non è sapere, ma ricerca e amore della verità

di Francesco Lamendola - 28/10/2014

Fonte: Arianna editrice




 

Il filosofo non è colui che sa, ma colui che sa di non sapere e che, per tale motivo, è alla ricerca di quella verità che gli manca e della quale, nondimeno, possiede un qualche indizio, oltre che un intenso e sincero desiderio, altrimenti non saprebbe nemmeno cosa cercare e da che parte dirigere i suoi passi.

Non c’è niente di più fastidioso, di più ridicolo, di più anti-filosofico, di colui che se ne va in giro tronfio, sazio e orgoglioso della propria verità; del filosofo ufficiale che divulga dalla cattedra universitaria, con boria professorale, il suo sistema presuntuoso; del pensatore che ha trionfato sui dubbi, che ha piegato e sottomesso il non sapere, così come gli imperatori romani piegavano e sottomettevamo i barbari alle frontiere, e che, vittorioso di ogni resistenza, si ritiene giunto a padroneggiare senza più rivali il cielo della conoscenza, e in diritto di guardare dall’alto in basso, con infinita commiserazione, i piccoli uomini che ancora si dibattono nelle tenebre dell’incertezza. Subito dopo, d’altra parte, nell’ordine delle cose fastidiose, vengono quei filosofi del dubbio perenne e malinconico, quei pensatori che del relativismo e dello scetticismo hanno fatto il loro credo alla rovescia e, della mancanza di certezze, il loro vanto e il loro motivo di fierezza; di quei personaggi negativi, ora crucciati e crepuscolari, ora disperatamente beffardi, i quali, forti del loro non sapere, si credono perciò promossi, ipso facto, al rango di veri sapienti, perché hanno scambiato la coscienza di non sapere con un valore positivo: il “vero” sapere, che, secondo loro, consiste nella derisione e nel rifiuto sistematico di qualunque certezza e di qualunque verità.

Si tratta di due tipologie antropologiche solo apparentemente opposte, ma in realtà speculari e profondamente simili: il filosofo che si vanta di aver capito tutto, alla Hegel, e quello che si vanta di aver capito che non c’è niente da capire, alla Hume, non sono opposti, ma complementari, accomunati da una stessa attitudine essenzialmente anti-filosofica: perché la retta pratica filosofica è la ricerca del vero, umile e tenace, ma anche paziente e fiduciosa; una ricerca che non finisce mai e che ha il suo significato in se stessa, ma nella quale non si può dire che i primi passi siano perfettamente uguali agli ultimi, né che non vi sia una progressiva acquisizione di sapere: altrimenti, non sarebbe che uno sterile e discutibile passatempo.

Cominciamo con una precisazione linguistica: certezza e verità sono due cose completamente diverse. La prima riguarda il grado di attendibilità che attribuiamo al nostro sapere ed è, pertanto, una condizione soggettiva di ordine psicologico; la seconda è un dato oggettivo che non riguarda noi o le nostre credenze, ma che risiede nell’essenza delle cose. Si può essere perfettamente certi di una cosa perfettamente falsa, ma non si può in alcun modo pervenire alla verità in maniera ingannevole o surrettizia, perché la verità è o non è, né dipende da noi.

Ora, la filosofia non è la ricerca di una certezza, ma della verità: non basta, pertanto, essere “certi” di aver raggiunto, o almeno intravisto, la verità; bisogna che la verità si riveli a noi, non nella forma della certezza, ma nella forma sua propria, ossia nella verità stessa. Noi diciamo, per esempio, di essere certi che le cose stiano in un certo modo: significa, né più né meno, che siamo persuasi di una certa interpretazione della realtà. La verità, tuttavia, è un’altra cosa: non è interpretazione, nostra, del mondo: è la rivelazione del mondo a noi, così come esso è. Chi ha compreso questo è filosofo; chi non lo ha compreso, no.

Scriveva Antonio Capizzi nel suo ampio studio «La Repubblica cosmica» (Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. 20-22):

 

«I sostantivi “philosophìa” e “philòsophos” non si distaccano, per tutta la prima metà del quarto secolo, dai significati che il secolo precedente aveva attribuiti (nei rari casi in cui ne aveva fatto uso) ai loro antenati, l’aggettivo “philòsophos” e il verbo “philosophêin”: la componente “philo-“, messa in rilievo già da Tucidide, che affiancava il “philosophêin” (ricerca del sapere) al “philokalêin” (ricerca della bellezza), venne ancora fortemente sentita da Platone, allorché opponeva “philòsophos” a “philòdoxos” (amico delle apparenze), a “philotheàmōn”-“philékoos” (amante del vedere o dell’udire) e a “philosómatos”-“philochrématos”-“philòtimos” (amante del proprio corpo, delle ricchezze, degli onori); venne tenuta presente anche dalla scuola di Isocrate, che mise “philòsophos” in rapporto con “philòponos” (amante del lavoro); e d’altro canto il significato erodoteo di filosofia come semplice ricerca della verità si mantenne assai centrale non soltanto in Isocrate e in Platone, ma anche in Senofonte e nel giovane Aristotele. Platone, in modo particolare, mette tra “sophìa” e “philosophìa” un distacco assai netto, come è appunto quello che sussiste tra possesso e ricerca della scienza.  Nel “Liside” Socrate, discutendo con Menésseno il problema dell’amore, giunge ad un punto morto e viene assalito dal dubbio di avere ricercato in modo scorretto, ma coglie il disappunto di Liside, che stava seguendo la discussione con grande attenzione (213 C), e allora, sia per far riposare Menesséno, sia per soddisfare “l’ansia di sapere” (“philosophìa”) di Liside, propone di abbandonare quel tipo di ricerca (213 DE) e di cercare lumi in tre diverse categorie di “sapienti”; i poeti, “padri della sapienza” (213 E - 214 B), gli scritti “dei più sapienti”, che si sono occupati “della natura e del tutto”) (214 BD), e gli “antilogici”, che sono “sapienti in ogni campo” (“pàssophoi”, 216 B); ma la conclusione è che tutti i sapienti”parlano per enigmi” (214 D), al punto che per seguirli Socrate stesso deve trasformarsi in indovino (216 D), e quindi sono, per la loro oscurità, tanto poco utili quanto lo sono gli ignoranti per la loro inettitudine (218 A); e viene nuovamente preferito il filosofo, che è l’ignorante cosciente della propria ignoranza e desideroso di uscirne (218 AB). Si delinea qui il discorso, ripreso poi nel “Simposio”, secondo il quale la filosofia è intermedia tra sapienza e ignoranza; e più tardi a Platone sorgerà il dubbio che la “sophìa” sia una vetta accessibile soltanto alla divinità, cosicché la “philosophìa” è probabilmente il grado massimo di sapere che l’uomo può raggiungere con le sue sole forze”. È comunque da escludersi che nell’Accademia la filosofia potesse essere concepita come una disciplina a sé stante: la “Repubblica” chiarisce che il filosofo “non desidera un solo settore della sapienza, ma la sapienza nel suo complesso”; il “Filebo” accenna ad un modo filosofico e ad un modo non filosofico di studiare le singole scienze; e Aristotele nel “Protrettico”, scritto certamente ad Atene quando Platone è ancor vivo, ragiona nello stesso modo limitatamente alla scienza della legislazione. È chiaro che per Platone e per i suoi discepoli la filosofia non ha un oggetto proprio, ma è un metodo di approccio alle varie discipline: non, però, a tutte le discipline indiscriminatamente. La filosofia si accorda con le matematiche (geometria e astronomia), con la musica e con la dialettica; non si accorda invece con la retorica (di qui la polemica con Isocrate, che vedeva nel retore coscienzioso il vero filosofo) né con la sofistica: quanto alla politica, quella demagogica che si basa sull’inganno verbale è inconciliabile con la filosofia, ma non lo è la scienza politica che poggia sulla retta conoscenza e sull’idea del bene.

Quanto all’identità di coloro che vengono chiamati filosofi, Platone sembra restringere la qualifica a Socrate e alla sua cerchia…»

 

Dobbiamo scegliere e decidere, quindi, se vogliamo essere amici delle apparenze oppure della verità; se vogliamo crederci, ed essere creduti, dei sapienti, o piuttosto tentare di esserlo.  La prima strada è quella della presunzione; la seconda, quella dell’umiltà.

Ma come avviene che la verità si rivela a noi? E chi ci assicura che essa sia tale, e che la nostra, appunto, non sia “certezza” soggettiva, ossia “dòxa”, apparenza, ma verità effettiva, in sé e per sé? Il filosofo è colui che cerca la verità attraverso il pensiero; ma non attraverso il solo pensiero logico-matematico, non attraverso la sola ragione strumentale e calcolante; bensì attraverso il pensiero come atto totale, come “verbo”, come parola in cui la Verità si manifesta.

La verità delle cose è inerente ad esse; e per tutte le cose, tranne che per l’uomo, coincide con la loro essenza; solo nell’uomo essa può darsi o non può darsi, a seconda che gli uomini siano fedeli, oppure no, alla verità di cui sono portatori. Un sasso non può essere che un sasso: quella è la sua essenza; quella è la sua verità. Così la pianta, così l’animale. L’uomo, e soltanto l’uomo – almeno fra le creature visibili del mondo naturale, e lasciando aperto e impregiudicato discorso sul mondo soprannaturale – è dotato della libera ragione, per mezzo della quale può scegliere se aderire o meno alla propria verità, realizzando la sua essenza. La filosofia, allora, è la ricerca della verità esistente nelle cose: verità che coincide con la natura delle cose, con la loro essenza; e che, per gli esseri liberi e ragionevoli, diviene un fatto possibile, ma non necessario.

La ricerca della verità, pertanto, si articola su due piani: uno riguardante le cose naturali, nelle quali realtà e verità coincidono; e uno riguardante le cose soprannaturali, nelle quali la realtà e la verità coincidono solo se esse lo vogliono. L’uomo è posto nel punto d’intersezione del mondo naturale del mondo soprannaturale ed è, da un punto di vista filosofico, l’oggetto della propria ricerca, cosa che rende la ricerca stessa più facile, ma anche più difficile. Più facile, perché la cosa cercata è, per lui, la stessa del ricercatore; più difficile, perché egli deve tentare di guardare dal di fuori la realtà all’interno della quale naturalmente si muove.

Ma c’è di più. L’uomo, e soltanto l’uomo, possiede la facoltà di tradire la verità che risiede in lui stesso. Le filosofie che negano la dimensione soprannaturale dell’uomo, vanificano fin dal principio la loro ricerca, perché mutilano l’oggetto di essa. Non si può avvicinarsi alla verità dell’uomo, se dell’uomo si ha un’idea incompleta e deformata: il destino dell’uomo, così come la sua vocazione, dipendono dalla decisione che si assume riguardo alla sua natura. E qualunque discorso intorno all’uomo, qualunque ricerca intorno alla sua verità, dipende dall’essenza che gli attribuiamo: l’impostazione della ricerca ne prefigura i risultati. Non si può andare a caccia di elefanti con la retina per le farfalle; non si può capire qualcosa di un essere umano, se ci si ferma alla sua apparenza corporea. Beninteso: anche gli altri enti possiedono una dimensione profonda, che va oltre la mera apparenza fisica: nell’uomo soltanto, però, stando a quel che sappiano, la dimensione profonda riguarda la decisione intorno all’essenza della propria natura. In altre parole: un sasso non può essere altra cosa da un sasso; per un cane che, ad esempio, si lascia morire di fame sulla tomba del padrone, la cosa è già diversa: egli sta già scegliendo di essere qualcosa d’altro dalla semplice animalità. Potrebbe vivere, solo che accettasse il cibo che gli viene offerto: a ciò lo porterebbe la sua intima essenza, la sua natura animale; tuttavia lo rifiuta, in nome di una scelta assolutamente volontaria: a quel punto è già qualche cosa d’altro da sé, una creatura che noi non sappiamo definire, perché non esistono parole o concetti per descriverne l’essenza. Sappiamo solo quello che non è, quello che non è più: sappiamo solo che ha cessato d’essere semplicemente un cane.

Per l’uomo, la libertà di scelta è permanente e decisiva, fa cioè parte della sua essenza: l’uomo è la creatura che può decidere di essere quel che vuole essere. Tremenda responsabilità, meraviglioso fardello che grava sulle sue spalle. Gli esistenzialisti come Sartre hanno visto in questa libertà una autentica maledizione; padronissimi di farlo: hanno assunto il punto di vista secondo il quale l’essenza dell’uomo non sia la libertà, non sia di natura spirituale, e ne hanno dedotto che la libertà è la sua condanna, perché lo costringe a una condizione ingestibile e insopportabile.

Quando dicevamo che la verità non può essere trovata solo per la via del Logos logico-matematico, intendevamo proprio questo: che, per avvicinarsi ad essa, è necessario uno slancio di tutto il nostro essere; il pensiero costituisce la preparazione e fornisce la spinta iniziale, ma non basta, perché non è tutto: l’uomo non è solo pensiero, è un essere totale, un microcosmo. Di conseguenza, la verità non potrebbe rivelarsi a lui solo ed esclusivamente per via logico-razionale; per forza di cose, egli può aprirsi ad essa se vi si accosta nella sua totalità, che va oltre la dimensione razionale.

L’esperienza della verità è una esperienza totale, ma è comunque una esperienza: non un’ipotesi, non una teoria, non un postulato; ma un fatto. Si può giungere alla verità, anche se non la si può abbracciare tutta d’un sol colpo. Perché l’uomo è creatura, non creatore; è un essere totale, ma che non si è dato da se stesso la sua totalità: l’ha ricevuta, là dove Realtà e Verità coincidono, e dove Libertà e Necessità sono una cosa sola. E in ciò risiedono l’oggetto, lo scopo ultimo del suo cercare.