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Siria, scatta l’ora di Assad

di Michele Paris - 19/11/2014

Fonte: Altrenotizie


    


In coincidenza con la fine della campagna elettorale per le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti, il presidente Obama avrebbe chiesto al Dipartimento di Stato di avviare un processo di “revisione” della strategia americana nei riguardi della crisi in Siria, viste le difficoltà a ridurre significativamente l’influenza dello Stato Islamico (ISIS) dopo settimane di bombardamenti.

A riportare la notizia è stata giovedì la CNN, la quale ha citato svariati anonimi esponenti dell’amministrazione Obama per confermare che a Washington sarebbe in corso un ripensamento dell’approccio alla questione siriana. La rielaborazioe della strategia USA, in particolare, sarebbe la conseguenza dell’impossibilità di sconfiggere l’ISIS “senza una transizione politica in Siria e la rimozione del presidente Bashar al-Assad”.

Ricorrendo a parole attentamente calibrate, sul proprio sito web la CNN ha sostenuto che la “revisione” in corso sarebbe la conseguenza della “tacita ammissione dell’errore di calcolo” commesso dalla Casa Bianca con la decisione iniziale di assegnare la priorità alla guerra contro l’ISIS in Iraq e di intervenire solo successivamente e in maniera limitata in Siria, oltretutto “senza impegnarsi sulla rimozione di Assad”.

Oltre alla “revisione” da poco disposta, il presidente democratico nelle ultime settimane avrebbe anche presieduto a quattro riunioni con i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale, a cui ha assistito, tra gli altri, il segretario di Stato John Kerry. Un probabile testimone degli incontri ha confidato alla CNN che in queste occasioni si è discusso “in gran parte di come integrare la nostra strategia per la Siria con quella relativa all’ISIS”.

Dietro alle parole caute del network statunitense e delle proprie fonti, appare chiaro e tutt’altro che sorprendente il motivo della “revisione” strategica ordinata da Obama. Come previsto da molti fuori dai circuiti dei media “mainstream”, cioè, i tempi sembrano essere quasi maturi per dirottare gli sforzi americani verso il vero obiettivo della nuova avventura bellica in Medio Oriente, vale a dire il cambio di regime a Damasco.

Il cosiddetto “errore di calcolo” di cui parla la CNN, che avrebbe convinto l’amministrazione Obama a prendere in considerazione un intervento più incisivo nelle vicende interne della Siria, è in realtà una strategia programmata fin dall’inizio. Infatti, l’obiettivo finale dell’attacco lanciato all’ISIS prima in Iraq e poi in Siria è sempre stato quello di riuscire a trovare, dopo più di tre anni di guerra in quest’ultimo paese, una giustificazione sufficientemente solida per dare la spallata finale al regime alauita (sciita) di Damasco.

L’accelerazione da dare alla campagna di Siria viene ora dipinta, con l’aiuto della stampa ufficiale, come una necessità dettata dalle circostanze, nel modellare le quali gli Stati Uniti e i loro alleati non avrebbero avuto alcuna responsabilità.

Significativo in questo senso è stato il commento rilasciato nella serata di mercoledì dal portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Alistair Baskey, secondo il quale “Assad è stato il principale magnete per l’estremismo in Siria”, spingendo da tempo Obama a dichiarare che il presidente siriano “non è più legittimato a governare”.

Una ricostruzione onesta degli eventi, al contrario, mostrerebbe come siano stati precisamente gli Stati Uniti, assieme a paesi come Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi, ad alimentare l’integralismo sunnita sia per combattere direttamente il regime di Assad, ovvero un rivale strategico in Medio Oriente, sia per seminare il caos in Siria e favorire un intervento militare esterno.

Ancora in questi giorni, d’altra parte, continuano ad apparire rivelazioni che descrivono come gli alleati di Washington abbiano finanziato e armato l’ISIS e le altre formazioni jihadiste per i propri scopi in Siria, a cominciare dalla Turchia. Il regime di Erdogan persiste inoltre nel mantenere un atteggiamento a dir poco ambiguo all’interno della “coalizione” anti-ISIS messa assieme da Obama, dal momento che si adopera con maggiore impegno per annientare le organizzazioni curde siriane che i fautori dell’emirato.

In sostanza, gli Stati Uniti vorrebbero far credere che le loro intenzioni erano rivolte unicamente alla stabilizzazione dell’Iraq, mentre l’allargamento delle operazioni belliche alla Siria era diretto solo ed esclusivamente a colpire l’ISIS con l’aiuto dei fantomatici “ribelli moderati” anti-Assad, per il cui addestramento il Congresso americano ha approvato qualche settimana fa uno stanziamento da 500 milioni di dollari.

Ora, invece, la strategia che assegna la priorità alla situazione irachena e che prevede un numero relativamente limitato di incursioni aeree su obiettivi legati all’ISIS non sarebbe più sostenibile, soprattutto perché - come ben sapevano a Washington - la stessa esistenza di formazioni ribelli moderate e filo-occidentali con qualche capacità dal punto di vista militare è sempre stata poco più di una fantasia propagandata dai media ufficiali.

Il riconoscimento da parte dello stesso governo americano della sostanziale impossiblità ad addestrare una forza efficace in grado di combattere sul campo l’ISIS e le forze del regime, nonché di costituire un nucleo di un futuro governo di transizione in Siria, ha dunque delle implicazioni preoccupanti.

Se la CNN ha comunque parlato di un progetto per “accelerare ed espandere il processo di selezione, addestramento e armamento dell’opposizione moderata”, ciò che si profila all’orizzonte non può essere che un intervento diretto in territorio siriano, come conferma la discussione all’interno del governo e degli ambienti militari americani circa la possibilità di stabilire una “no-fly zone” al confine con la Turchia.

Quest’ultima misura ricorda in maniera inquietante il devastante intervento “umanitario” della NATO in Libia nel 2011 dopo la manipolazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed è da tempo richiesta dalla stessa Turchia come strumento per creare una zona-cuscinetto in Siria, utile per organizzare l’offensiva contro le forze di Damasco.

Oltre alla revisione strategica affidata al Dipartimento di Stato, l’amministrazione Obama ha annunciato poi un nuovo summit tra i vertici del Pentagono e i leader di oltre 30 paesi impegnati nella guerra all’ISIS per “ricalibrare” la campagna bellica.

In un segnale dell’imminente cambiamento degli obiettivi del conflitto, poi, il segretario alla Difesa americano, Chuck Hagel, ha inviato una comunicazione dai toni “franchi” alla consigliera di Obama per la Sicurezza Nazionale, Susan Rice, dove viene espressa “preoccupazione per la strategia complessiva in Siria” e si sostiene la necessità di “avere una visione più precisa su cosa fare del regime di Assad”.

Il procedere delle operazioni in Siria sta quindi rapidamente mostrando i veri motivi dell’ennesima guerra lanciata dagli Stati Uniti nel mondo arabo dietro la facciata dell’anti-terrorismo. Una “guerra al terrore”, quella relativa al capitolo siriano, la cui assurdità è resa evidente da svariati fattori.

Per cominciare, nel sostenere di avere come obiettivo primario la battaglia all’ISIS, Obama e la sua “coalizione” non solo escludono qualsiasi tipo di collaborazione con l’unico soggetto che ha finora combatturo seriamente i jihadisti - il regime di Assad - ma si adoperano per rovesciarlo, attraverso, tra l’altro, l’appoggio più o meno diretto allo stesso Stato Islamico.

In secondo luogo, come già ricodato, la credibilità della “coalizione” anti-ISIS è pari a zero, poiché di essa fanno parte regimi come quello turco o saudita che sono i principali sponsor del fondamentalismo sunnita in Siria e che su di esso hanno investito in maniera tale, per cercare di rimuovere Assad, da rendere illusoria l’assenza di un secondo fine nell’unirsi alla campagna americana. Questi paesi hanno cioè accettato di partecipare alle operazioni ufficialmente condotte contro l’ISIS in Iraq e in Siria solo per ottenere dagli Stati Uniti un impegno a rivolgere le armi contro Damasco.

Il ruolo del governo americano di difensore dei valori democratici e del secolarismo contro la minaccia dell’integralismo religioso, infine, risulta tale solo sulle cronache e gli editoriali dei giornali “allineati”, mentre non ha alcun fondamento nella realtà dei fatti.

Dall’Afghanistan sotto occupazione sovietica alla Cecenia, dalla “rivoluzione” anti-Gheddafi in Libia alla guerra in corso in Siria, Washington ha infatti utilizzato il jihadismo sunnita come comodo strumento sia per combattere regimi nemici sia per giustificare il proprio intervento e la propria presenza in aree strategicamente importanti del pianeta.