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La minaccia della monocultura

di Evgeniy Filimonov - 19/11/2014

Fonte: controinformazione



 

Non ci può essere dubbio sul fatto che oggi i popoli della Terra sono interconnessi come mai prima. La cultura del mondo cosiddetto “sviluppato” è governata da idee di etno-pluralismo e cosmopolitanesimo materialista.

Si crede che sia più onorevole definirsi un “cittadino del mondo” piuttosto che un fermo difensore di qualsiasi gruppo o tribù, perché, per definizione, tracciare una linea di preferenza per gli appartenenti al proprio gruppo implica che qualcun altro lontano viene escluso. Oggi una tendenza vecchia di un secolo all’assimilazione nell’interesse del progresso economico sta raggiungendo il suo apice, e sta per diventare una delle maggiori preoccupazioni sociologiche nel prossimo futuro.

Come vediamo allo stesso modo nelle giungle del Brasile o per le strade d’Europa, le popolazioni native stanno rapidamente diventando straniere nelle loro stesse terre, mentre l’ambiente cambia di fronte ai loro occhi. Sentiamo spesso parlare della necessità che l’Occidente importi più immigrati per supportare una popolazione che invecchia, o che le tribù indigene lascino le loro terre ancestrali per soddisfare la dipendenza di qualche paese dalle risorse naturali.

 

Ci sono ora grossi dubbi sugli effetti a lungo termine di un’economia globale senza controllo e in perenne espansione, basata sulla ricchezza materiale e il valore globalista del libero movimento dei popoli. Il risultato è che il mondo sta rapidemente diventando tutto uguale, mentre le culture delle singole etnie vengono gradualmente eliminate o assimilate con la forza nella massa.

Eppure vediamo che una rinnovata attenzione alla tradizione sta preparando la strada per avvenimenti come la recente crescita di popolarità dei partiti identitari europei o la dichiarata dedizione ai valori tradizionali di leader mondiali come Vladimir Putin o l’indiano Nahrendra Mohdi.

La domanda principale posta da questi avvenimenti è quale sia l’importanza intrinseca della tradizione. Perché la tradizione ha importanza, e perché dovrebbe avere un ruolo negli affari globali o nelle vite di tutti i giorni?

In un mondo puramente materialista come il nostro (sia in senso economico che filosofico) gli obiettivi della società sembrano ottenere l’esatto opposto di quanto dichiarano: l’abbondanza di risorse per facilitare la vita crea condizioni peggiori nei luoghi dove quelle risorse vengono prodotte (vedi: suicides and others isuues in Foxconn’s I Phone factories ); mentre diventa sempre più facile viaggiare nel mondo e visitare altre terre, quelle terre stanno diventando sempre più identiche al resto del mondo; l’immigrazione di massa per espandere l’economia e donare a un’area più “diversità”, dopo diverse generazioni ottiene l’opposto quando quegli immigranti sono ormai assimilati e il loro impatto economico favorevole è stato assorbito o addirittura capovolto; il tentativo costante degli individui di presentarsi come diversi dalla massa crea popoli pronti a comprare qualsiasi cosa per convalidare la loro individualità; e potrei continuare.

Il confronto tra il numero di linguaggi ed etnie nel mondo del 18° secolo e quello attuale mostra che questo processo di globalizzazione economica non si è dimostrato dannoso solo per l’Occidente, ma per l’intero mondo, e questa tendenza continuerà, visto che si stima che il 90% dei linguaggi oggi parlati si estinguerà prima di fine secolo. In pratica l’unica conclusione possibile e logica sarà il consolidamento dell’umanità in un unico gruppo omogeneo senza caratteristiche distintive tra regione o perfino tra individui. Il che è sicuramente l’opposto degli obiettivi dichiarati dall’odierna cultura liberal.

La tradizione, nella definizione generale sia delle scuole di pensiero politiche che religiose, è un pensiero che va aldilà della mera individualità o della forma umana. L’attuale modo di ragionare razionalista ed economicista ha provato a sbarazzarsi di questa pratica, considerandola non più pertinente nella società e come un ostacolo agli affari.

In un certo senso la tradizione generale di un popolo rappresenta un modo di pensare separato, un’esistenza separata; ed è riconosciuto che le conquiste intellettuali e culturali del mondo non sono arrivate da un unico modo di pensare. Pertanto, qualsiasi cosa minacci la molteplicità intellettuale del mondo dovrebbe venire considerata una minaccia o, più precisamente, una malattia.

Tuttavia non è solo una la fonte che vorrebbe imporre un unico standard globale. Oggi è prevalentemente la monocultura etnopluralista dell’Occidente a minacciare gli individui e le culture, ma tale minaccia proviene anche dal bigottismo religioso con le sue ambizioni monoculturali, come nel fondamentalismo islamico.

Eppure, la spinta costante all’eliminazione dalla Terra degli stili di vita tribali e nomadici è qualcosa di largamente ignorato dal mondo. Le società liberali spesso ci presentano immagini di tutti i popoli del mondo che si tengono per mano nei loro abiti tradizionali. Ma, come dicevo, questo idealismo astratto ha realizzato l’esatto opposto. Un sottoprodotto purtroppo ignorato di questa direzione storica è l’impatto negativo che risulta dal desiderio dei popoli del mondo di aderire a un singolo standard globale.

In parole semplici, la graduale diminuzione della molteplicità culturale del mondo avvenuta negli ultimi secoli. Certi stili di vita considerati non convenienti per l’attività economica vengono assimilati o rimossi completamente. (Vedi: Where Reindeer Decline, Indigenous Peoples Falter   ).

La crisi ha raggiunto l’apice nel nostro secolo, quando non sono più a rischio piccole tribù ed etnie, ma intere culture. L’antropologo Scott Atran descrive questa tendenza come “l’omogeneizzazione dell’esperienza umana”. Nel corso della storia vediamo la nascita e la morte delle culture, ed è certo indisputabile che tutte le culture hanno una data di scadenza. Tuttavia la crisi di oggi consiste nel fatto che la morte di etnie distinte su vasta scala non lascia altro a sostituirle.

Mentre la globalizzazione economica e lo stile di vita standardizzato continuano a espandersi, ciò lascia poco spazio per gli stili di vita tradizionali precedenti a queste forze. E, come vediamo con i purtroppo futili sforzi delle tribù indigene brasiliane che lottano per preservare il loro modo di vita contro le entità estranee, poco si può fare per fermare questa tendenza.

Una delle più importanti considerazioni del nostro tempo è davvero la preservazione delle culture regionali e, ovviamente, della biodiversità umana. Avendo visitato personalmente le comunità russe di “antichi credenti” in Alaska e i villaggi agricoli di argilla in Messico, ho verificato  di prima mano gli effetti della modernità su queste comunità. Le vecchie generazioni restano, mentre numeri crescenti di giovani si trasferiscono nelle aree metropolitane, assetati dei comfort della vita cittadina. Storie simili si potrebbero raccontare sulle tribù Sami in Scandinavia e sui nomadi delle steppe in Mongolia, e su molti altri.

Compare un vuoto, e uomini prima indipendenti dimenticano rapidamente come auto-sostentarsi. Nelle città, la fiducia nel fatto che i nostri bisogni essenziali vengono forniti da qualcun altro, che da qualche parte c’è un’istituzione che combatte le nostre battaglie al posto nostro, che il bisogno di auto-sostentamento è antiquato (Vedi: Salon.com/Florida/woman), significa che l’individuo moderno si può occupare delle cose più triviali ed egocentriche senza curarsi delle progenie o dei vicini. In particolare viene spesso detto che la generazione attuale sia la più debole di tutte ( Couch potato lifestyles of the internet generation ‘creating weak children’ ), titolare di diritti ma senza corrispondenti qualifiche.

Nei paesi “civilizzati” è diventato accettabile restare sempre seduti a casa e abbandonarsi a un piacere o a un altro. I giapponesi hanno dato a questo comportamento il nome di “hikikomori”, e in molti considerano l’esitazione a stabilire rapporti sociali significativi come la causa alla radice del calo delle nascite nel paese. C’è da meravigliarsi, con tali pratiche che diventano normali in tutto il mondo, che le tradizioni stiano morendo?
Le società tradizionali esistevano sulla base di individui interconnessi (tribù). Come i rapporti tra due individui creano barzellette capite solo da loro e valori comuni, le società tradizionali si comportano allo stesso modo con le tradizioni, solo a un livello molto più profondo.

Gli ultimi secoli hanno assicurato che il processo di globalizzazione economica sia oggi quasi ineludibile, e un’ideologia contrapposta non si è ancora ben formata. L’influenza del processo storico significa che le considerazioni politiche oggi vengono fatte esclusivamente in base al vantaggio economico per interessi specifici.

Questa mentalità continua a espandersi. Per partecipare nel gioco economico globale è necessario un certo grado di conformismo; lo si vede quando i paesi vengono costretti a rinunciare alla loro valuta in cambio dell’opportunità di partecipare ad aree macroeconomiche, o in questioni superficiali come nel Giappone post-imperiale che abbandonò l’abito tradizionale per giacca e cravatta occidentali, nell’interesse di fare affari con persone che portavano giacca e cravatta.

Consideriamo anche quante piccole imprese sono state distrutte dalla potente espansione del “libero commercio”, imposto alla popolazione da pochi per il beneficio di pochi.

Ma c’è speranza. L’ambizione dei politici di far diventare i popoli che dovrebbero servire “internazionali” (Vedi:  Orbán orders banning of “racist” conference) o “di mentalità globale” , alienandoli dalle loro terre natali, significa che la reazione è quasi certa.

Lo vediamo nei titoli che lamentano l’ascesa del nazionalismo in Europa, o che ammoniscono contro il “pericolo” intrinseco al preservare la propria identità. I media deridono questi movimenti nascenti come “fascismo” o altre fandonie. Di fatto, questi movimenti hanno bisogno di un cambiamento mondiale nel modo di intendere l’economia internazionale.

E ora poniamoci le domande più importanti: c’è proprio necessità di globalizzare il mondo intero? Deve per forza esserci un caffè e un centro commerciale in ogni angolo di mondo? Devono tutti perdere la loro vita seduti a guardare uno schermo o l’altro? (Vedi: http://www.huffingtonpost.com/2014/06/16/computer-screen-eye-problem_n_5500746.html  )

E’ davvero più importante conoscere qualcuno all’altro capo del mondo invece del tuo vicino? La promessa, da parte di entità apparentemente in buona fede, di “sviluppare” il resto del pianeta porta con sè un pernicioso senso di moralità egocentrica, non dissimile dai tentativi di occidentalizzare i nativi americani con abiti europei e lezioni di inglese. A cosa serve vivere se tutti gli altri stanno vivendo esattamente come te? Accettare il globalismo significa diventare sostituibili, e quanti in Europa stanno perdendo i loro mestieri ancestrali a causa di prodotti d’importazione a poco prezzo o di immigrati che lavorano per pochi centesimi lo capiscono molto bene.

Come scrive il prof. William I. Robinson riguardo alle economie dell’America centrale, “la globalizzazione ha eroso sempre più le frontiere nazionali e reso strutturalmente impossibile alle singole nazioni perseguire economie, politiche e strutture sociali indipendenti o perfino autonome. Una caratteristica saliente dell’epoca attuale è la fine dello stato-nazione come principio organizzatore del capitalismo.”

Come si fa quindi a riconciliare l’interconnessione dei popoli con la preservazione delle specifiche culture regionali? Non tramite un’elezione o una rivolta; ciò richiede piuttosto una ristrutturazione mentale su cosa significa vivere nel mondo moderno. Con questo intendo che le identità regionali dovrebbero essere rivendicate non in modo superficiale, ma a beneficio del proprio popolo, che sia questo una famiglia, una tribù, città o nazione, e che gli individui dovrebbero tornare a stili di vita più veri e consci. La nostra economia globale interconnessa significa che, se una parte fallisce, tutti gli altri la seguono.
Alcune persone di mentalità anti-consumistica ora capiscono gli effetti nocivi di questa economia globale sulla vita umana, sono coscienti dei danni ambientali che provoca e delle condizioni economiche spesso svantaggiose che assegna a un paese a vantaggio di un altro; quasi nessuno però mette in relazione questa tendenza al declino delle culture e cerca di preservarle per i secoli a venire. Il che è comprensibile perché in molti, soprattutto in Nord America, vivono da generazioni senza alcuna connessione con le loro origini. In tal modo la gente del mondo moderno non ha altra identità che qualche fedeltà ai marchi aziendali.

L’inversione dell’ordine liberale globale non significherà la pace, né che non ci saranno disaccordi tra le persone, o che le culture improvvisamente fioriranno e diventeranno il regno di superuomini; significherà però che le differenze verranno salvate, e che resterà nel genere umano un po’ di varietà di punti di vista. Che ci sarà spazio per svilupparsi e progredire individualmente. Se la diversità viene davvero valorizzata come alcuni affermano di credere, l’idea di una “fratellanza dell’umanità” dovrebbe perdere credito.

Fonte: Eugeniy Filimonov.wordpress

Traduzione: Anacronista