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Interventismo occidentale e mentalità coloniale

di Tim Anderson - 10/02/2015

Fonte: byebyeunclesam


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L’eredità coloniale ancora presente nelle culture imperialiste ha portato a ribaltare il significato delle parole attraverso la colonizzazione del linguaggio progressista e la banalizzazione del ruolo degli altri popoli.

In questi tempi di ‘rivoluzioni colorate’ il linguaggio è stato ribaltato. Le banche sono diventate i protettori dell’ambiente naturale, i fanatici settari sono ora ‘attivisti’ e l’impero protegge il mondo dai più grandi crimini, di cui non è mai responsabile.
La colonizzazione della lingua è in atto in tutto il mondo, fra le popolazioni con alti livelli di istruzione, ma è particolarmente virulenta nella cultura coloniale. ‘L’Occidente’, l’autoproclamatasi epitome della civiltà avanzata, sta reinventando con vigore la propria storia, col fine di perpetuare la mentalità coloniale.
Scrittori come Fanon e Freire hanno notato che i popoli colonizzati hanno subito danni psicologici e che è necessario ‘decolonizzare’ le loro menti, al fine di renderli meno deferenti verso la cultura imperiale e di affermare i valori positivi delle loro culture. D’altra parte, l’eredità coloniale è ben evidente nelle culture imperiali. I popoli occidentali continuano a mettere la loro cultura al centro o a considerarla universale, e hanno difficoltà ad ascoltare o ad imparare dalle altre culture. La modifica di ciò richiede uno sforzo notevole.
Le potenti élites sono ben consapevoli di questo processo e cercano di cooptare le forze vitali all’interno delle loro società, colonizzando il linguaggio progressista e banalizzando il ruolo degli altri popoli. Per esempio, dopo l’invasione dell’Afghanistan nel 2001, venne promossa l’idea che le forze della NATO stessero proteggendo le donne afghane ed essa ottenne molta popolarità. A dispetto dell’ampia opposizione all’invasione e all’occupazione, questo fine umanitario faceva appello al sentimento missionario della cultura occidentale. Nel 2012, Amnesty International poteva innalzare cartelli che affermavano ‘NATO: sosteniamo il progresso’, in riferimento ai diritti delle donne in Afghanistan, mentre l’Istituto George W. Bush raccoglieva fondi per promuovere i diritti delle donne afghane.
Il bilancio della situazione, dopo tredici anni di occupazione NATO, non è però così incoraggiante. Il rapporto 2013 dell’UNDP mostra che solo il 5,8% delle donne afghane ha un’istruzione secondaria (la settima posizione più bassa al mondo), la donna afghana ha una media di 6 figli (un tasso pari al terzo più alto del mondo, e legato al basso livello d’istruzione), la mortalità materna è di 470 su 100,000 (pari alla nona-decima fra le più alte del mondo) e l’aspettativa di vita è di 49,1 anni (pari alla sesta più bassa del mondo). Questo ‘progresso’ non è di certo impressionante.
Per molti aspetti, la lunga ‘guerra femminista’ in Afghanistan è stata basata sull’eredità britannica dell’India coloniale. Come parte della grande ‘missione civilizzatrice’, l’impero affermò di proteggere le donne indiane dal ‘sati’, una pratica in cui le vedove si gettano (o vengono gettate) nella pira funebre del marito. In realtà, il dominio coloniale ha portato ben pochi cambiamenti in questa rara pratica. D’altra parte, la crescita dell’emancipazione fra le fanciulle e le donne sotto l’impero britannico è stata una triste burla. Nell’anno dell’indipendenza, il tasso di alfabetizzazione degli adulti aveva raggiunto appena il 12%, mentre quello delle donne era di molto inferiore. Se l’India è per molti aspetti ancora arretrata, il progresso educativo è stato però molto più rapido a partire dal 1947.
Questi fatti non hanno frenato storici come Niall Ferguson e Lawrence James, che hanno cercato di riscrivere la storia coloniale britannica, per difendere soprattutto i più recenti interventi. Potrebbe sembrare difficile giustificare il colonialismo, ma l’argomento sembra avere una migliore possibilità fra i popoli con una storia coloniale, quelli che cercano una qualche forma di rivendicazione dall’interno della propria storia e cultura.
Il linguaggio nordamericano è un po’ diverso, poiché gli Stati Uniti d’America affermano di non essere mai stati una potenza coloniale. Il fatto che le dichiarazioni sulla libertà e l’uguaglianza furono scritte da proprietari di schiavi e autori di pulizie etniche (la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti ha fama di attaccare i britannici per l’imposizione di limiti nella confisca delle terre dei nativi americani) non ha attenuato l’entusiasmo per quegli ideali positivi. Tale abile tradizione ha influito senza dubbio sulla presentazione dei recenti interventi effettuati da Washington.
Dopo le invasioni dell’Afghanistan e dell’Irak, abbiamo assistito a un cambiamento di prospettiva, con le grandi potenze che hanno arruolato fanatici settari contro gli Stati indipendenti della regione. Compreso il nuovo Stato iracheno, riemerso dalle ceneri dal 2003, attaccato da questi fanatici. La ‘primavera araba’ ha visto la Libia calpestata da una pseudo-rivoluzione, sostenuta dai bombardamenti della NATO, poi consegnata ai gruppi di Al-Qaeda e ai collaboratori di quei poteri. Il piccolo Paese, che una volta aveva i più alti standard di vita dell’Africa, è stato retrocesso di decenni.
Poi è stata la volta della coraggiosa Siria, che resiste a un prezzo terribile; e mentre la guerra di propaganda si fa sempre più forte, pochi sembrano essere in grado in Occidente di districarvisi. La sinistra occidentale condivide le stesse illusioni della destra. Quella che all’inizio dicevano essere una ‘rivoluzione’ nazionalista e secolare – una rivolta contro un ‘dittatore’ che assassinava il suo popolo – ora sarebbe diretta da ‘ribelli moderati’ o ‘islamisti moderati’. Gli estremisti islamici, che in ripetute occasioni hanno fatto conoscere le loro atrocità, sono ora una specie diversa, contro la quale Washington finalmente ha deciso di lottare. Molto di questo può apparire ridicolo agli Arabi o ai Latinoamericani istruiti, ma conserva un certo fascino in Occidente.
Uno dei motivi di questa differenza è che la Nazione e lo Stato hanno un altro significato in Occidente. La sinistra occidentale ha sempre visto lo Stato come qualcosa di monolitico e il nazionalismo come qualcosa di simile al fascismo. Tuttavia, le ex-colonie hanno mantenuto una speranza nello Stato-Nazione. I popoli occidentali non hanno mai avuto un Ho Chi Minh, un Nelson Mandela, un Salvador Allende, un Hugo Chavez o un Fidel Castro. Di conseguenza, per quanto gli intellettuali occidentali possano criticare i loro governi, non saranno disposti a difendere gli altri. Molti di quelli che criticano Washington o Israele non difendono Cuba né la Siria.
Per questo le guerre sporche si vendono più facilmente in Occidente. Potremmo anche dire che è stata una tattica di relativo successo per l’interventismo imperiale, a partire dalla guerra dei Contras in Nicaragua fino a quella degli eserciti islamisti in Libia e in Siria. Finché la grande potenza non partecipa direttamente, il pubblico occidentale trova abbastanza attraente l’idea che essi stiano aiutando gli altri popoli ad emanciparsi e ad ottenere la loro ‘libertà’.
Perfino Noam Chomsky, autore di molti libri sull’imperialismo nordamericano e sulla propaganda occidentale, condivide molta dell’apologetica occidentale sull’intervento in Siria. In un’intervista del 2013 a un giornale dell’opposizione siriana, ha affermato che l’insurrezione islamista appoggiata dall’estero sia stata un ‘movimento di protesta’ represso che è stato costretto a militarizzarsi e che gli Stati Uniti e Israele non avevano alcun interesse nella caduta del governo siriano. Chomsky ha ammesso di essersi sentito ‘esaltato’ dalla rivolta della Siria, però ha respinto l’idea della ‘responsabilità di proteggere’ e si è opposto all’intervento diretto della Casa Bianca, senza un mandato dell’ONU. Nonostante ciò, si è unito alla causa di chi vuole ‘costringere’ il governo siriano a dimettersi, sostenendo che ‘nulla può giustificare il coinvolgimento di Hezbollah’ in Siria, dopo che questo gruppo ha lavorato con l’esercito siriano per un’inversione di tendenza contro i jihadisti.
Come mai gli antimperialisti occidentali arrivano a conclusioni simili a quelle della Casa Bianca? Al primo posto c’è l’idea anarchica o di ultra-sinistra di opporsi a qualunque idea di Stato. Questo porta ad attacchi contro il potere imperiale, però nello stesso tempo all’indifferenza o ad opporsi a Stati indipendenti. Molte persone occidentali di sinistra esprimono addirittura entusiasmo all’idea di rovesciare uno Stato indipendente, pur sapendo che le alternative, come in Libia, saranno il settarismo, gli aspri scontri e la distruzione di importanti istituzioni nazionali.
In secondo luogo, la dipendenza dalle fonti d’informazione occidentali ha portato molta gente a credere che i massacri di civili in Siria fossero opera del governo siriano. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Una lettura attenta delle prove mostrerà che quasi tutti i massacri di civili in Siria (Houla, Daraya, Aqrab, l’Università di Aleppo, Ghouta Orientale) sono opera dei gruppi islamisti settari, mentre a volte si è incolpato falsamente il governo, al fine di far innalzare il livello dell’‘intervento umanitario’.
Il terzo elemento che distorce le idee antimperialiste occidentali è la natura limitata e autoreferenziale delle discussioni. I parametri sono controllati dai guardiani dei grossi gruppi di potere e allo stesso tempo rafforzati dalla grande illusione occidentale sul suo potere civilizzatore.
Solo un numero limitato di giornalisti occidentali ha fornito informazioni sufficientemente dettagliate sul conflitto siriano, ma le loro prospettive rimangono quasi sempre condizionate dal racconto occidentale. E in effetti, negli ultimi anni, la difesa più aggressiva dell’‘interventismo umanitario’ proviene proprio da mezzi di comunicazione liberali, come il britannico The Guardian, e da ONG come Avaaz, Amnesty International e Human Rights Watch. I pochi giornalisti che mantengono una prospettiva indipendente, per esempio l’arabo-statunitense Sharmine Narwani, pubblicano per lo più al di fuori dei canali dei grandi media più famosi.
L’industria culturale imperialista condiziona anche gli aiuti umanitari. La pressione ideologica non viene solo dalle banche di sviluppo, ma anche dalle ONG, che mantengono un forte senso di missione, compreso un ‘Complesso del Salvador’, riguardo alle loro relazioni con il resto del mondo. Mentre ‘la cooperazione allo sviluppo’ poteva una volta includere idee di risarcimento per il dominio coloniale o di aiuto durante la transizione all’indipendenza, oggi si è convertita in un’industria da 100mila milioni di $ all’anno, con una presa delle decisioni saldamente nelle mani degli organismi finanziari occidentali.
Lasciando da parte la disorganizzazione di molti dei programmi di aiuto, questa industria resta profondamente antidemocratica, con potenti connotazioni coloniali. Tuttavia, molti operatori umanitari occidentali credono realmente di poter ‘salvare’ i popoli poveri del mondo. L’impatto culturale è profondo. Le agenzie di aiuto non solo cercano di determinare la politica economica, ma spesso intervengono nei processi politici e costituzionali, e lo fanno in nome del ‘buon governo’, della lotta alla corruzione e di ‘un rafforzamento della democrazia’. Indipendentemente dai problemi dei governi locali, raramente si ammette che le agenzie di aiuto esterno siano fra i giocatori meno democratici.
Per esempio, all’inizio di questo secolo, mentre Timor Est otteneva la sua indipendenza, gli organismi di aiuto hanno utilizzato la loro capacità finanziaria per impedire lo sviluppo delle istituzioni pubbliche nel settore agricolo e nella sicurezza alimentare, e hanno fatto pressione su questo nuovo Paese per creare partiti politici competitivi lontani dall’idea originaria di un governo di unità nazionale. Nella crisi del 2006, l’Australia ha cercato di trarre vantaggio all’interno della ‘comunità dei donatori’, aggravando il livello dello scontro politico. In mezzo al caos delle dispute sui limiti marittimi e le risorse petrolifere, accademici e consulenti australiani hanno approfittato del momento delicato per sollecitare il partito principale di Timor Est in senso ‘riformista’, per far abolire l’esercito nazionale e per far adottare nel Paese l’inglese come lingua nazionale. Anche se i timoresi avevano resistito a tutte le pressioni, in quel momento sembrava come se molti degli ‘amici’ australiani immaginassero di aver ‘ereditato’ quel piccolo Paese dagli ex governanti coloniali. Questo è lo specifico significato della ‘solidarietà’ occidentale.
Le culture imperialiste hanno creato una grande varietà di bei pretesti per intervenire nelle ex colonie e nei paesi di nuova indipendenza. Tra questi pretesti ci sono la protezione dei diritti delle donne, la garanzia di un ‘buon governo’ e perfino la promozione di ‘rivoluzioni’. Il livello di ipocrisia è notevole.
Questi interventi creano problemi a tutti. Le persone indipendenti devono imparare nuove forme di resistenza. A quelle di buona volontà nelle culture imperialiste farebbe talvolta piacere riflettere sulla necessità di decolonizzare la mentalità occidentale.
Un tale processo, ritengo, richiederebbe di considerare (a) i punti di vista storicamente diversi sulla Nazione-Stato, (b) le funzioni importanti e particolari degli Stati postcoloniali, (c) la rilevanza e l’importanza del principio dell’autodeterminazione, (d) la necessità di ignorare i mezzi di comunicazione sistematicamente ingannevoli, e (e) la sfida delle illusioni riguardo alla presunta influenza civilizzatrice occidentale. Tutti punti che sembrano far parte di una mentalità neocoloniale, e che potrebbero aiutare a spiegare l’incredibile cecità occidentale di fronte ai danni causati dall’interventismo.

Riferimenti bibliografici
Tim Anderson (2006) ‘Timor Leste: the Second Australian Intervention’, Journal of Australian Political Economy, n. 58, Dicembre, pp. 62-93
Tony Cartalucci (2012) ‘Amnesty International is US State Department propaganda’, Global Research, 22 Agosto, online: http://www.globalresearch.ca/amnesty-international-is-us-state-department-propaganda/32444
Ann Wright and Coleen Rowley (2012) ‘Ann Wright and Coleen Rowley’, Consortium News, 18 Giugno, online: https://consortiumnews.com/2012/06/18/amnestys-shilling-for-us-wars/
Noam Chomsky (2013) ‘Noam Chomsky: The Arab World And The Supernatural Power of the United States’, Information Clearing House, 16 Giugno, online:http://www.informationclearinghouse.info/article35527.htm
Bush Centre (2015) ‘Afghan Women’s Project’, George W. Bush Centre, online:http://www.bushcenter.org/womens-initiative/afghan-womens-project

[Traduzione di M. Guidoni – il collegamento inserito è nostro]