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Il dominio e il riscaldamento globale

di Fabrizio Maggi - 27/05/2015

Fonte: L'intellettuale dissidente


Per tutti coloro che coltivano l’individualismo, i dati scientifici sul riscaldamento climatico e le azioni collettive necessarie a contenerlo costituiscono il crollo di una visione ideologica da combattere con violenza.

   

Dan Kahan è docente alla Yale Law School ed è autore di un interessante studio sulla relazione tra differenti visioni del mondo e consenso sul cambiamento climatico. I ricercatori di Yale hanno scoperto che la quasi totalità delle persone con tendenze “egualitarie” e “comunitarie” (ovvero inclini all’azione collettiva e alla giustizia sociale, e caratterizzate dalla preoccupazione per le disuguaglianze e dal sospetto verso il potere delle corporation) accolgono senza discutere il consenso scientifico sul riscaldamento globale. Al contrario, coloro che hanno una visione del mondo “gerarchica” e “individualistica” (caratterizzate dall’opposizione all’assistenza statale per i poveri e le minoranze, da un deciso appoggio all’industria e dalla convinzione che, in genere, ognuno abbia quel che merita) rifiuta i dati scientifici sul cambiamento climatico. Come ha spiegato lo stesso Kahan sulle pagine di Nature, “le persone trovano sconcertante credere che i comportamenti che ritengono nobili siano in realtà dannosi per la società e quelli che considerano abietti siano invece benefici. Dato che l’accettazione di tali novità potrebbe insinuare un cuneo fra loro e i loro pari, hanno una forte predisposizione emotiva a rifiutarli.” In altre parole, siamo tutti in possesso di un’idea profondamente radicata di buona società: se siamo investiti da informazioni che mettono in crisi il nostro sistema di credenze, il cervello entra subito in azione producendo anticorpi intellettuali per respingere l’invasione. Piuttosto che veder andare in frantumi la nostra visione del mondo, preferiamo negare la realtà, anche in caso di evidenze scientifiche incontrovertibili. Il sistema ideologico scosso in maniera più vibrante dai dati scientifici sul cambiamento climatico è il conservatorismo, impalcatura politica che schernisce l’azione collettiva e respinge con forza ogni regolamentazione delle grandi imprese e della sfera pubblica. Il ricorso ad una concertazione globale che implichi l’imbrigliamento delle forze di mercato è inconcepibile per gli uomini di destra. I tre capisaldi del dogma neo-liberista – privatizzazione della sfera pubblica, deregolamentazione del settore delle corporation e riduzione delle tasse sul reddito e sulle imprese, pagata con tagli alla spesa pubblica – sono agli antipodi delle decisioni che occorrerebbero per contenere l’innalzamento delle emissioni climalteranti.

Ma c’è di più. Come sottolinea Robert Manne, docente di politica all’Università La Trobe di Melbourne, per molti conservatori la climatologia costituisce “un affronto alla loro convinzione basilare più profonda, quella a cui tengono di più: la capacità – e di fatto il diritto – dell’umanità di sottomettere la terra e tutti i suoi frutti e di stabilire un dominio sulla natura.” Per questi conservatori, aggiunge Manne, “un pensiero del genere non è soltanto sbagliato: è qualcosa di intollerabile e profondamente offensivo. Di conseguenza, sono convinti che occorra opporsi a coloro che predicano questa dottrina e denunciarli davanti all’opinione pubblica.”
Già nel 1988 sulla rivista “Time” il giornalista Thomas Sancton ammoniva: “In molte società pagane, la Terra era vista come una madre, una fertile donatrice di vita (…) La tradizione ebraico-cristiana ha introdotto una concezione radicalmente diversa: la Terra era la creazione del Dio del monoteismo, che, dopo averla plasmata, ha ordinato ai suoi abitanti di essere fecondi e moltiplicarsi (…) Quest’idea di dominio potrebbe essere interpretata come un invito a usare la natura a nostro comodo.” I conservatori negano la climatologia poiché minaccia di capovolgere la loro visione del mondo fondata sul dominio e, al contempo, tale visione fornisce loro gli strumenti intellettuali per disinteressarsi di una porzione enorme di umanità e per giustificare l’utilizzo della crisi ambientale per realizzare ulteriori profitti. Come disse Margareth Thatcher: “L’economia è il metodo, il fine è cambiare il cuore e l’anima”.