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L’impero americano implode sia in casa che all’estero

di John Wight - 30/06/2015

Fonte: byebyeunclesam


a testa in giù


Le crisi ed il caos che stanno ingolfando il Medio Oriente e l’Ucraina sono una prova del declino imperiale statunitense, mentre Washington impara la dura lezione che nessun impero dura per sempre.
Subito dopo la Guerra del Vietnam – la cui fine era stata accompagnata dal filmato in cui il personale USA e alcuni collaboratori vietnamiti venivano evacuati dal tetto dell’ambasciata statunitense a Saigon nel 1975 – gli Stati Uniti sono entrati in un lungo periodo di declino e incertezza ogniqualvolta fosse necessario intraprendere operazioni militari di rilievo.
Nonostante tutta la potenza distruttrice presente nei sui arsenali, i Vietnamiti hanno fatto apparire l’imperialismo americano come un gigante dai piedi di argilla. Il nome dato a questo periodo di ritirata in termini di “hard power” è stato “la sindrome del Vietnam” ed è durato dal 1975 al 1991, momento in cui gli Stati Uniti assieme ad una coalizione internazionale si sono avventurati nella Prima Guerra del Golfo per cacciare le truppe irachene dal Kuwait.
Stiamo testimoniando a un periodo simile di declino imperiale statunitense, per quanto riguarda l’incapacità di Washington di intraprendere operazioni militari di larga scala. Tutto ciò deriva dalle occupazioni fallite dell’Irak e dell’Afghanistan, le quali non hanno portato a null’altro che a uno scatenarsi del terrorismo e dell’estremismo nella regione e quindi, per estensione, nel mondo intero.
Le grandi risorse impiegate hanno ulteriormente messo in difficoltà la potenza imperiale di Washington, mentre la frammentazione della coesione sociale negli Stati Uniti stessi – testimoniata dai trattamenti brutali riservati ai poveri, agli immigrati e ai neri – raccontano di una società che è vicina all’implosione. A tal proposito i riferimenti agli anni ‘60 e ’70 sono chiari.
Risalendo al 2005, il Washington Post ha identificato questa “sindrome dell’Irak”. In un articolo che analizzava il percorso dell’allora Segretario della Difesa Donald Rumsfeld il giornale asseriva: “Quando Rumsfeld finalmente libererà il suo ufficio al Pentagono lascerà dietro di sè una pesante “sindrome dell’Irak”, la rinnovata, opprimente, talvolta paralizzante consapevolezza che ogni intervento statunitense di grande scala all’estero è destinato al fallimento pratico e all’iniquità morale”.
Dieci anni dopo, con una versione islamica dei Khmer Rossi nella forma del cosiddetto Stato Islamico (SI, precedentemente ISIS/ISIL) che agisce incontrastato tra Siria e Irak, l’attuale Amministrazione è ridotta a condurre sporadici e finora inutili bombardamenti aerei sullo Stato Islamico, mentre questo continua a crescere e ad aumentare la sua presa nei territori di Siria e Irak.
Le complessità del Medio Oriente sono ben note. La presenza di una gran parte delle riserve energetiche mondiali ha assicurato alla regione lo status di prima linea nella lotta per e contro l’egemonia statunitense. Allo stesso tempo la molteplicità etnica, confessionale e di identità tribali che si incrociano nella regione hanno fatto sì che rimanesse una polveriera, pronta ad esplodere se esacerbata.
Una di queste esplosioni è avvenuta durante l’attacco aereo della NATO contro il regime di Gheddafi in Libia nel 2011. Inteso ad assicurarsi che la fase libica della primavera araba approdasse sicura sulle rive degli interessi geopolitici statunitensi, il rovesciamento di Gheddafi ha invece aperto le porte dell’inferno, con il riversarsi sulla scena di decine di migliaia di fanatici dagli istinti primordiali la cui sete di sangue non conosce confini.
Washington e i suoi alleati europei sono stati incapaci di controllare la diffusione di questo fanatismo che è cresciuto con la connivenza dei suoi alleati regionali: la Turchia, l’Arabia Saudita e le varie monarchie che insieme hanno dato vita al Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG).
La decisione di Obama di non procedere a bombardamenti sistematici contro il governo siriano nel 2013, in seguito agli attacchi con armi chimiche verso una zona di Damasco controllata dai ribelli, ha ridotto in pezzi la sua credibilità. Avendo la percezione che il presidente fosse debole, Israele, la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar hanno agito perseguendo i propri obiettivi, il che significa facendo qualsiasi cosa che potesse tamponare l’influenza scita iraniana e/o lavorare per restaurare il dominio sunnita a livello regionale.
Contemporaneamente, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è fatto vanto di aver vanificato i tentativi dell’amministrazione Obama per raggiungere un accordo sull’inaffrontabile tema della questione palestinese, mentre i suoi continui sforzi di screditare le negoziazioni dell’amministrazione statunitense con l’Iran in merito al programma nucleare di Teheran sono null’altro che un ragionato insulto all’autorità del presidente statunitense. I sauditi e la loro controparte turca, come sappiamo, hanno recentemente condiviso una strategia di coordinazione delle loro forze al fine di far cadere il regime di Assad. Sempre più nervosi a causa della popolarità e dell’influenza dello Stato Islamico all’interno del movimento jihadista, entrambi i governi si sono messi a sostegno dei loro gruppi jihadisti preferiti – “l’Esercito della Conquista” – utilizzato come contrappeso e loro burattino all’interno del conflitto.
Ad aggravare l’incapacità di Washington a sbrigliare la situazione e di proiettare la sua potenza imperiale c’è il tentativo disperato e senza alcun senso di colpire la Russia attraverso il suo mandato in Europa dell’Est, che comprende l’imposizione di sanzioni e il tentativo di isolare il Paese politicamente e culturalmente.
Il dollaro ha sostenuto la potenza politica e l’egemonia statunitense sin dalla Seconda Guerra Mondiale, sfruttando il suo ruolo di valuta di riserva internazionale. Ma l’egemonia della valuta statunitense sta per essere contrastata anche dalla creazione, nell’Ottobre 2014, della Banca di Investimenti Infrastrutturali Asiatica (BIIA) da parte della Cina, come contrappeso al FMI. Molto interessante notare come tra gli Stati che hanno aderito a questa nuova banca di investimenti internazionali c’è il Regno Unito, con la costernazione del suo alleato statunitense.
La BIIA aderisce alla Nuova Banca per lo Sviluppo che la Cina ha fondato lo scorso anno in collaborazione con la Russia, l’India, il Brasile e il Sudafrica. Conosciuta anche come la Banca dei BRICS, ha preso posto di fianco alla già esistente banca per lo sviluppo dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS) come parte di una nuova infrastruttura finanziaria che opera indipendentemente da Washington. L’OCS ha anche stabilito una propria riserva valutaria per aiutare i suoi membri contro crisi o shock finanziari come quello scaturito dal sistema finanziario statunitense del 2008.
Considerando tutti questi elementi assieme possiamo misurare il relativo declino dell’egemonia e dell’unipolarismo statunitense che si manifesta economicamente, geopoliticamente, culturalmente e militarmente. I pericoli che si presentano al dischiudersi di questo processo sono evidenti nella diffusione dell’estremismo e del fanatismo, mentre gli alleati a livello locale continuano a perseguire i propri scopi senza considerare quanto possano danneggiare gli Stati Uniti diffondendo l’instabilità.
Come accadde all’Impero Romano secoli addietro, Washington sta imparando come l’unica cosa permanente in questo mondo sia la non permanenza, specialmente per le potenze imperiali fondate sull’ipocrisia e l’ingiustizia.

Traduzione di M. Janigro

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