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La fine di una guerra civile

di Sergio Romano - 30/06/2015

Fonte: Corriere della Sera

 

Aldo Cazzullo ha scritto che «è il momento di riconoscere che la Resistenza è patrimonio della nazione, non di una fazione». Giustissimo. Ma chi non l’ha voluto per 70 anni? Nel 1954 Pietro Secchia, nel suo libro I comunisti e l’insurrezione , respinse l’accusa ai comunisti di voler «monopolizzare la Resistenza». Lo stesso anno Alessandro Natta cercò invano di pubblicare con Editori Riuniti («disavventura» la definì) il suo libro dall’inquietante titolo L’altra Resistenza , che rievocava la sua vicenda d’internato militare e uscì da Einaudi solo nel 1997, quando il comunismo sovietico era finito da un po’. L’affermazione di Cazzullo è un auspicio, non un fatto. Purtroppo la politica e l’istruzione perpetuano la vulgata contraria all’auspicio di Cazzullo.
Pietro Di Muccio de Quattro

Caro Di Muccio,
Confesso di non sapere che cosa sia effettivamente accaduto in via delle Botteghe Oscure quando Alessandro Natta (futuro segretario del Partito comunista italiano) cercò di pubblicare negli anni Cinquanta le sue memorie sull’anno e mezzo trascorso in uno dei campi di «internamento» dove i tedeschi tennero i militari italiani che rifiutarono di aderire alla Repubblica di Mussolini. Per molto tempo abbiamo conosciuto quella vicenda soprattutto grazie ai ricordi di Giovannino Guareschi, Giovanni Ansaldo e altre persone meno note al grande pubblico. Ma credo che Aldo Cazzullo abbia ragione quando constata la pluralità culturale e politica della Resistenza. E credo che lei abbia ragione quando osserva che il Pci cercò di monopolizzarla svalutando qualsiasi altro apporto.
La strategia del partito comunista obbediva ad almeno due esigenze. In primo luogo occorreva dimostrare che il Pci aveva avuto un ruolo nazionale e non poteva essere accusato di avere servito gli interessi dell’Urss. L’accusa non era del tutto infondata, soprattutto quando furono in causa i confini orientali. Ma Palmiro Togliatti voleva che il partito fosse percepito come una forza nazionale. Non lo chiamò «Partito comunista d’Italia», come dopo la scissione del Congresso di Livorno nel 1921, ma Partito comunista italiano; e volle che sotto il suo nome e dietro la bandiera rossa, apparisse una fettina di tricolore.
In secondo luogo, una Resistenza celebrata e dominata dal Pci doveva sottintendere che la lotta contro i fascisti e i tedeschi era soltanto la fase iniziale di un processo rivoluzionario destinato a rinnovare radicalmente lo Stato e la società. La promessa della rivoluzione rimase, per parecchio tempo, parte integrante della retorica del partito e finì per produrre qualche inconveniente. Fu sempre più difficile per il Pci, con il passare del tempo, dimostrare che poteva essere contemporaneamente un partito rivoluzionario e di governo. Una tale duplicità lo esponeva al rischio di essere poco credibile sia agli occhi di molti moderati, sia a quelli di coloro per cui la rivoluzione era un ideale irrinunciabile. Fu questa almeno una delle ragioni per cui il partito, dopo l’inizio della fase del compromesso storico, fece molta fatica a controllare quella fazione del suo «popolo» stalinista che Rossana Rossanda riconosceva come parenti in un Album di famiglia.
Tutto questo appartiene fortunatamente al passato. Ma il clima e lo stile, nelle celebrazioni del 25 Aprile, restano ancora tenacemente, per molti aspetti, quelli di un tempo. Osservo infine che quella festa ricorda la fine di una guerra civile e che la pacificazione, in questi casi, è possibile soltanto quando tutti riconoscono che dignità e onestà non furono il monopolio dei vincitori.