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Il ricatto della compassione

di Marco Tarchi - 07/09/2015

Fonte: Diorama letterario


 

Il regno dell’immagine ha le sue priorità, che da alcuni mesi a questa parte hanno fatto rotta sulla questione islamica. L’espansione militare dell’Isis, con tutte le sue conseguenze, ha inaugurato un ciclo di attenzione privilegiata – tutt’altro che esente da lacune, dal momento che delle responsabilità degli Stati Uniti e dei loro volenterosi comprimari nella distruzione dell’assetto geopolitico del Medio Oriente nei principali circuiti informativi quasi nessuno parla, e sull’ingenuo entusiasmo per le sfiorite primavere arabe non si fa sentire alcuna autocritica – verso il connubio fondamentalismo musulmano/terrorismo che le stragi di Parigi e Tunisi hanno ovviamente irrobustito. Se si esclude una certa persistenza delle vicende ucraine, osservate attraverso il prisma tutto ideologico degli interessi “occidentali” – alias statunitensi – e usate per raffigurare la Russia di Putin nei vecchi panni a malapena rammendati dell’orso (e orco) sovietico, tutti gli argomenti che nel recente passato si era contesi il palcoscenico massmediale, dalla questione palestinese resa ancora più spinosa dal successo elettorale di Netanyahu al nuovo ruolo planetario della Cina, passando per la crescita dell’euroscetticismo e la disputa sulle ricette per sormontare la crisi economica, sono temporaneamente scivolati nel retroscena. Dove pure l’effervescenza dell’attuale fase storica non manca di farsi sentire, con una serie di ininterrotti soprassalti.

Fra i fenomeni di ampia portata che proseguono il loro corso e sono destinati a riprendere in tempi brevi un posto di primo piano nel dibattito pubblico, l’immigrazione continua ad apparire uno dei più rilevanti, se non addirittura il più rilevante, tra quelli che caratterizzano in profondità la nostra epoca, non solo per le enormi proporzioni (di cui, in Europa, percepiamo solo la parte che direttamente ci interessa, senza avere cognizione di quanto sta accadendo fra Sud e Nord America, fra Asia e Oceania e all’interno di tutti i continenti) ma anche e soprattutto per le conseguenze nel medio e lungo periodo che è destinato a comportare.

Come abbiamo avuto modo di scrivere a più riprese su queste colonne, un serio dibattito sull’argomento appare per il momento impossibile, per i condizionamenti ideologici – e, di riflesso, psicologici, perché è su questo livello della coscienza individuale che influiscono oggi gli scontri e i dibattiti sui valori culturali e sui modelli di società che investono la sfera pubblica – esercitati sulla massa dei cittadini dallo spirito del tempo presente e da coloro che lo alimentano, politici ed intellettuali in testa. Già il solo fatto di insistere sulla crucialità delle sfide poste dal continuo accentuarsi dei flussi migratori suscita in molti commentatori dotati di cospicua audience reazioni infastidite e spesso commenti sprezzanti, ispirati dalla proclamata convinzione che un problema-immigrazione non esista e sia creato ad arte dagli incorreggibili xenofobi (in realtà razzisti puri e semplici, che non avrebbero più il coraggio di dirsi tali). Tuttavia, proprio perché sul tema vige di fatto un interdetto, chi si preoccupa della deriva totalizzante dell’odierna egemonia ideologica liberale – e della assunzione a totem intoccabile dei caratteri del suo strumento di conquista delle menti, il modello di “civiltà occidentale” costruito sulle fondamenta dell’individualismo, dell’utilitarismo, del cosmopolitismo e del materialismo consumistico – non può che insistere a sollecitare l’attenzione e la riflessione critica su questo processo sociale e culturale apparentemente inesorabile, contestando la vulgata dominante e sperando di fornire argomenti fondati e incisivi a quanti hanno ancora la sfrontatezza e la voglia di contrastarla.

Il punto da cui occorre partire per procedere in questa direzione è il contrasto tra la realtà del fenomeno e la sua rappresentazione. Soprattutto negli anni più recente, il modo prevalente, se non addirittura esclusivo, per dar conto attraverso la stampa, la radio, la televisione ed internet dello spostamento di consistenti masse di popolazione attraverso le sempre più porose frontiere statali è consistito nell’affidarsi al registro della commozione. L’attenzione via via sempre più spasmodica alle condizioni disagiate o disperate dei viandanti, schiacciati su sovraffollate e fatiscenti imbarcazioni o nascosti nei doppifondi dei Tir, ha messo fuori gioco ogni considerazione sugli effetti del loro afflusso nei paesi scelti per l’approdo. Ad ogni naufragio di un barcone, ad ogni salvataggio di carichi umani abbandonati alla deriva dagli scafisti, ad ogni estrazione di corpi assiderati dai mezzi utilizzati per attraversare clandestinamente i confini, torrenti di emozione sono stati riversati sugli spettatori di drammi e tragedie, senza la mediazione di alcuna riflessione estranea ai codici della pena e del senso di colpa che i “ricchi e protetti” sono istigati a provare di fronte al destino dei “dannati della Terra”. Particolarmente efficaci, da questo punto di vista, sono state le strategie scelte per collegare il particolare al generale, i singoli episodi al fenomeno complessivo. Indugiare con la telecamera sulle scarpe da bambini, sui giocattoli, su un taccuino, su altri piccoli oggetti recuperati in mare, su una spiaggia o sul fondo di una scialuppa, è un modo eccezionalmente valido per spazzar via ogni dubbio sulla necessità di accogliere senza discussioni o restrizioni i nuovi venuti, sempre e comunque visti come profughi in diritto di garantirsi una decente opportunità di vita e mai come clandestini o concorrenti sleali sul mercato del lavoro. E per porre lo spettatore o l’ascoltatore di fronte ad un drastico ricatto affettivo: accettare di buon cuore e senza porsi insidiosi interrogativi gli scampati alle apocalittiche tragedie descritte, e quindi stare dalla parte del Bene oppure coltivare dubbi e preoccupazioni sul continuo ripetersi degli sbarchi e degli altri arrivi e quindi indossare gli abiti del cinismo e dell’egoismo, condannandosi ad interpretare l’odioso ruolo di chi serve, consapevolmente o meno, la causa del Male?

Messa così, la vicenda ha già i suoi vincitori e vinti predesignati e la tecnica di condizionamento psicologico non può incontrare argini né ostacoli credibili: basta ascoltare i commenti e le risposte degli intervistati – in specie i più giovani – nei servizi televisivi e giornalistici predisposti in occasione di ogni massiccio afflusso di stranieri (ma si può ancora impiegare questo termine? Viene da pensare che, nel trionfo del progressismo universalista nella battaglia delle parole, all’espressione sia stata ormai assegnata una data di scadenza) per rendersene conto. Il ricatto della commozione ha però altri e non meno rilevanti obiettivi: innanzitutto, deve portare a credere che l’immigrazione di massa sia un fenomeno irreversibile, prima ancora che benefico (dato su cui non tutti sono ancora disposti a giurare), e quindi osteggiarlo sia non solo deplorevole sotto il profilo etico, ma anche e in primo luogo insensato. Anche sotto questo profilo, i risultati ottenuti appaiono impressionanti. Tanto da indurre perfino alcuni critici della globalizzazione, che pure ritengono tuttora possibile combatterla e farla regredire, ad accettare, anche se con questa riserva, lo scenario che potremmo definire dell’inesorabilità.

Sul punto occorre, naturalmente, intendersi. Che “piaccia o no, gli immigrati sono ormai parte integrante del nostro paesaggio urbano ed extra-urbano, della nostra cultura, della nostra economia”, come ha scritto Giuseppe Giaccio nel n. 321di “Diorama”, è un dato indiscutibile. Non altrettanto lo sono altre opinioni che a questo stato di fatto vengono, in quell’articolo, correlate. E cioè che quella di “rispedire a casa gli immigrati” sia una “illusione” esclusivamente “alimentata dai meschini e miopi calcoli elettorali di alcuni attori politici” (non più meschini e miopi, ci sia consentito affermare, di quelli di altri attori politici che sulla convinzione che gli immigrati siano sempre e comunque fonte di benefici per i paesi ospitanti e sulla connessa retorica dell’accoglienza costruiscono parte delle loro fortuna). O che quella speranza/illusione sia solo ispirata dal “fantasma, o l’utopia, della purezza, la mixofobia, la paura di mescolarsi con gli altri”. O, ancora, che la “convinzione che la mescolanza si risolva in una perdita (delle radici, dell’identità, del lavoro)”. Su questi aspetti della questione migratoria le nostre opinioni sono diverse, e non da oggi.

A volte, ripetersi effettivamente giova. E ci piace richiamare alcuni passaggi dell’intervento che tenemmo nell’ambito dell’ultimo convegno di studi organizzato da quella che allora veniva chiamata, probabilmente a torto, Nuova Destra, fra il 25 e il 27 settembre 1992, a Spoleto, incontro intitolato Razzismo e antirazzismo. Le sfide della società multiculturale.

Sostenevamo in quella sede, difendendo le posizioni di un antirazzismo differenzialista – cui siamo tuttora fedeli – che, fra gli atteggiamenti allora (ed oggi) riscontrabili in materia di elaborazioni politico-culturali in merito all’immigrazione, ne scartavamo due, cioè sia l’esaltazione senza riserve della positività dell’incontro fra immigrati e popolazione di accoglienza sia il rifiuto del contatto e dello scambio, a profitto del terzo, l’accettazione pragmatica, che “mira a controllare la portata e ad organizzare le forme” del fenomeno. Ed aggiungevamo: “È la posizione che si esprime nella convinzione che una parte del flusso migratorio di questi ultimi venticinque anni si debba considerare definitiva […] ma che nel contempo esista in ogni società una soglia di integrazione degli allogeni che, se varcata, induce turbative e disagi non controllabili”. Precisando che “prendere atto del peso storico di un fenomeno non significa abbandonarlo a meccanismi d’inerzia” – e su questo la concordanza con Giaccio è totale – ci pronunciavamo contro la prospettiva assimilazionista e, pur non sottoscrivendola integralmente, citavamo l’opinione allarmata di un eminente studioso dei problemi sociali, Luciano Cavalli, che in Governo del leader e regime dei partiti, allora appena uscito deplorava “il permanere dei veli ideologici” che impediscono di percepire il significato che l’immigrazione di massa ha come “ulteriore colpo demolitore” della nazione intesa “come comunità di stirpe, cultura, storia e destino”. Del libro citavamo un passaggio significativo, laddove il sociologico scriveva: “Se l’immigrazione si sviluppa, per il tacito consenso della classe politica, nelle dimensioni ritenute probabili dagli esperti, al di là della crescita certa di malessere, scontento e conflitto […] c’è il pericolo di quella che possiamo chiamare saturazione migratoria. L’invasione dall’altra sponda e dall’Est, se praticamente incontrollata, scardinerebbe economia, società, ordine pubblico, cultura […], dunque la civiltà che ci siamo costruiti nel corso dei secoli, che dà una sua peculiarità al nostro popolo e a tutti i nostri rapporti interpersonali, che è parte di ciascuno di noi, elemento della nostra più intima essenza personale”.

A quel tempo, analisi come quella di Cavalli ci sembravano, anche se in gran parte fondate, allarmistiche, e pensavamo che una limitazione dei flussi, unita alla gestione della società multietnica “come una società differenziata e multiculturale, retta da una dinamica di scambi e interazioni ma fondata sul riconoscimento del diritto alla specificità di ogni gruppo etnoculturale, in un contesto che si potrebbe definire quasi di una società di comunità, al plurale” avrebbe potuto ridimensionare i pericoli paventati. Tuttora riteniamo che i toni con cui veniva dipinto il possibile scenario futuro fossero sopra le righe, ma a ventidue anni di distanza il nostro giudizio critico si è molto attenuato. Perché i flussi non sono stati contenuti, la politica di governo delle sempre più composite società europee che auspicavamo non è andata nella direzione che auspicavamo e il problema della perdita di identità delle singole entità nazionali si è fortemente acuito – certo non solo per effetto dell’immissione di allogeni, dato il ruolo predominante giocato in questo senso dalla penetrazione sempre più spinta dalla way of life (nord)americana, con il suo sottofondo omologante, ma anche a causa di questo sempre più acuto processo.

Pur rimanendo convinti che il perpetuarsi di un’identità forgiatasi nei secoli sia in primo luogo a carico di chi l’ha ereditata, non possiamo nasconderci che la ricomposizione etnica delle collettività nazional-statali oggi in atto, giunta in alcuni paesi (Francia in testa, ma non isolata) a livelli molto cospicui, favorisce fortemente l’erosione dei patrimoni culturali autoctoni. Il che non sarebbe grave se ciò spingesse semplicemente a una di quelle fasi di integrazione di contributi esterni che hanno sempre contraddistinto la dinamica di trasmissione dei modi di vita fra una generazione e le successive, ma lo diventa nel momento in cui ci si trova di fronte ad un vero e proprio processo di sostituzione di tradizioni autoctone con altre importate dagli immigrati. E, come ha ben colto il politologo francese Dominique Reynié (un cui contributo essenziale è stato pubblicato nel n. 58 della rivista “Trasgressioni”), nella popolazione dei paesi di accoglienza si fa sempre più strada la convinzione che ciò si stia verificando. Da ciò la crescita del consenso ai partiti che propongono quella che Reynié definisce la formula del populismo patrimoniale, volta a difendere simultaneamente il livello di vita, che si presume minacciato dall’estensione agli immigrati delle prestazioni dello Stato sociale e dalla concorrenza che costoro esercitano nel mercato del lavoro, contribuendo al mantenimento di bassi livelli salariali, e lo stile di vita, che la crescita della popolazione allogena mette in discussione (il riferimento, qui, cade inevitabilmente sulla diversità di usi e costumi, specialmente nei confronti dei musulmani).

Tutto ciò può essere imputato solo al permanere di una nostalgica “utopia della purezza”? E deve essere respinto nel girone dei patetici (o odiosi) arcaismi? Noi crediamo di no.

I motivi per preoccuparsi delle dimensioni assunte dai fenomeni migratori e di talune delle loro conseguenze sono solidi e numerosi. Su quelli che attengono alle questioni economiche e di ordine pubblico, le opinioni divergono e coloro che le sostengono si combattono a suon di cifre e di statistiche, puntando perlopiù su diverse interpretazioni degli stessi numeri (tipico il caso degli atti di criminalità, in cui l’impatto della componente migratoria può essere considerato in sé, in termini assoluti, oppure rapportato percentualmente al totale dei reati, ma che agli occhi di molti appare prima di tutto come un dato aggiuntivo, secondo la logica di buon senso – populista? – in base alla quale “se non ci fossero, almeno questi reati li avremmo evitati, perché almeno in questo settore i nuovi venuti non “rubano il posto” agli indigeni ma si affiancano a loro). Ma per quanto concerne lo stile di vita, il discorso è di tutt’altro tipo. Per chi coltiva una concezione della vita non meramente quantitativa e materialista, le tradizioni e i lasciti culturali ereditati dalle precedenti generazioni costituiscono un patrimonio immateriale, di cui non tutto può soggettivamente piacere ma del quale non ci si può sbarazzare, perché è a fondamento dell’esistenza stessa di un popolo – o, per dirla in altro modo, è quanto consente di considerare tale una sommatoria di singoli soggetti.

Chi crede che la (relativa) armonia del mondo sia garantita dal mosaico di differenze che lo caratterizza, e per questo si oppone all’omologazione delle sue parti in un melting pot universale o alla loro riduzione a sopravvivenze folkloriche e museali, non può quindi non provare disagio di fronte alla progressiva erosione dei connotati etnoculturali dei popoli formatisi nei secoli passati che l’immigrazione determina. Non può rimanere indifferente a quella che, con grande scandalo dei benpensanti accordati allo spartito dello Zeitgeist imperante, è stata definita dallo scrittore francese Renaud Camus “sostituzione di popolazione”. E non può limitarsi a soppesare le soluzioni proposte – quando ce ne sono – per diluire nel tempo questa marcia verso la cancellazione dei tratti distintivi di intere culture e delle loro espressioni nazionali.

Non c’è bisogno di sottostare ad alcuna ossessione della purezza per opporsi a questo destino. Se si afferma di non accettare, sul piano filosofico, una visione unilineare dei processi storici, non la si può poi adottare quando si è posti a confronti con la pratica. Pensare oggi a una “remigrazione” di massa dei grandi blocchi di popolazione che si sono spostati nell’ultimo mezzo secolo può apparire fuori luogo e, peggio, può prestarsi ad essere malevolmente interpretato come una volontà di deportazione (è quel che è accaduto al giornalista francese Eric Zemmour, mediaticamente linciato proprio per questo). Ma è un obiettivo che chi ha a cuore la specificità dei popoli e delle culture deve tenere vivo, accettando i sacrifici che andranno fatti per avviare i processi di ordinato e cauto sviluppo in grado di invertire la direzione degli odierni flussi, suscitando la scelta, libera e volontaria, di una consistente parte degli emigrati di ricostruirsi una vita nei luoghi di origine, riallacciando il rapporto con le radici ora recise. L’alternativa a questa presunta utopia è l’incubo di una Cosmopoli di atomi indistinti.