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Occupati e disoccupati in Italia

di Marco Managò - 12/09/2006




Reyneri, professore universitario di sociologia economica, autore del volume “Occupati e disoccupati in Italia” (edito da “Il Mulino”), traccia un interessante quadro della situazione lavorativa europea, con particolare riguardo al contesto italiano.
A differenza di quanto a volte sbandierano i media, Reyneri raccomanda la massima chiarezza e trasparenza, di là da qualsiasi pregiudizio politico. Lo stereotipo frequente, di un paese isolato e affogato nella disoccupazione, si rispecchia, invece, in un più ampio quadro di carattere europeo. La peculiarità italiana, semmai, risiede nella disorganica distribuzione del lavoro, severa con la popolazione giovanile e con l’universo femminile. Gravi sperequazioni sussistono anche a livello geografico, con un centro-nord abbastanza in linea con la media europea e un meridione alle prese con forte tasso di disoccupazione. Occorre anche precisare bene i termini, distinguendo la ricerca di una prima e vera occupazione dalla disoccupazione classica, quella relativa al licenziamento. In Italia la prima conosce punte record, soprattutto giovanili e femminili, pur non sussistendo “vendette” di carattere sessuale, né particolari fenomeni di baby boom a giustificare tale tendenza.
A caratterizzare il belpaese, anche una notevolissima disoccupazione di lunga durata.
L’informazione relativa al fenomeno pecca di equilibrio: si alterna tra annunciazioni di carattere trionfalistico ed esternazioni del tutto pessimistiche, tra la gioviale sorpresa per il dilagare di nuove professioni e la contemporanea denuncia dell’arretratezza del sistema economico-produttivo.
In un paese che conta (circa) lo stesso numero di disoccupati di Francia e Gran Bretagna, lo squilibrio verso l’occupazione femminile è secondo solo alla Spagna; per contro, l’occupazione adulta risulta marginalmente compromessa dalla disoccupazione e quella della fascia più anziana pressoché immune. Ciò serve a fugare come afferma l’autore << … lo stereotipo classico del maschio adulto, che ha perso un lavoro operaio per lo più nell’industria. >>
I capifamiglia italiani, così, risultano al sicuro dal pericolo disoccupazione: ne è coinvolta una quota percentuale pari al 13% circa dell’intera popolazione alla ricerca di un lavoro (dato che oscilla notevolmente tra il settentrione e il meridione d’Italia).
I pochi capifamiglia senza lavoro non beneficiano di adeguate politiche di sostegno pubblico, in quanto, come afferma l’autore <<… l’Italia è il paese europeo sviluppato che spende meno per le politiche di sostegno del reddito. >> Largo rimane il distacco con l’Europa centrosettentrionale, che destina quote rilevanti a sostegno degli ex lavoratori. In Italia la beffa maggiore la subiscono i licenziati dalle piccole e medie imprese, a debita distanza dalle politiche di cassa integrazione delle grandi aziende.
E’ arduo comprendere come, nel panorama lavorativo, siano penalizzati proprio i giovani, coloro che, secondo le teorie del “capitale umano”, dovrebbero giovare alle aziende e al mercato, proprio per le maggiore scolarizzazione dei nostri tempi e per la freschezza mentale e fisica. Si genera un’inopportuna competitività lavorativa, nella quale i lavoratori adulti riescono a giocare meglio le proprie carte.
Le ipotesi al riguardo sono molteplici. Si ipotizza un deficit di esperienza per i giovani, tale da penalizzare l’inserimento nel mondo del lavoro, ma ciò non basta. Reyneri fornisce altre spiegazioni. Una, coincidente con il contributo di stabilità e fiducia che può offrire << … il lavoratore “posato” o sérieux, secondo le indagini francesi sui criteri di selezione, o il tipico “marito con due figli e un mutuo per la casa” di quelle inglesi. >>
Altra subdola motivazione è individuata nella consapevolezza, per i datori di lavoro, della posizione di svantaggio di un uomo con prole, rispetto a un giovane senza vincoli, in quanto più accorto nel non perdere il salario e più disposto ad accettare vessazioni.
L’opinione pubblica, scandalizzata dalla disoccupazione giovanile, tuttavia, è più incline ad appoggiare le esigenze dell’ex lavoratore padre di famiglia; anche le rappresentanze sindacali, nei fatti, privilegiano il carico familiare e ne rinnovano il peso in sede di contrattazione e di accesso al pubblico impiego.
Dispiace enormemente notare come le aspirazioni giovanili, fresche di importanti studi, siano annullate dalla realtà, ignorate o sottovalutate, in quanto l’impiego che si ottiene è di basso livello e non congruo agli studi fatti. Si tratta di disoccupazione intellettuale, alla quale non giovano gli sforzi della formazione scolastica per produrre allievi pronti all’inserimento lavorativo: le imprese mal si adeguano a una formazione sul posto di lavoro.
Il disagio psicologico che investe i giovani alla ricerca di un lavoro, è notevolissimo, un’insoddisfazione palese che sfocia nelle tensioni familiari e che investe soprattutto i maschi, ponendogli pressioni circa l’incapacità di divenire capofamiglia.
Molti giovani, frustati da offerte decisamente inferiori alle proprie pretese, preferiscono rinunciare alla prima occupazione che capita, forti del sostegno familiare, consci di alimentare tale disoccupazione intellettuale. In questo quadro le imprese, consapevoli delle scarse motivazioni che potrebbero accompagnare un giovane istruito declassato, non alimentano assunzioni del genere.
Vero e proprio spreco della forza lavoro istruita, in un periodo storico dove, per la prima volta, i giovani hanno possibilità di accesso a tutti gli istituti scolastici, senza particolari limitazioni di censo, anche se le statistiche pendono ancora per un’istruzione elevata meno popolare del previsto e, forte di relazioni sociali più alte e intense, volta a un più agevole inserimento lavorativo.
L’istruzione paga successivamente, nel caso si sia in pianta stabile nell’organigramma aziendale e, statisticamente, si sia più forti dei colleghi meno istruiti. Un adulto, laureato o diplomato, conserva il posto di lavoro in maniera superiore rispetto alle altre tipologie di lavoratori, però, in caso di licenziamento, fatica notevolmente per reinserirsi.
Lo squilibrio tra titoli posseduti e inserimento lavorativo, ancora i giovani a rimanere in famiglia, dopo aver trascorso molti anni a studiare e altrettanti a cercare un’occupazione. In realtà, l’inserimento lavorativo avviene molto prima, ma si tratta di lavoretti in “nero”, malpagati, soprattutto al sud, che in molti casi sfociano nel lavoro minorile e hanno seguito sino a quando nuove leve di giovanissimi scalzino quelli più maturi. L’opportunità di sfruttare tali lavori, stagionali, malpagati e irregolari, investe non solo i ceti più popolari, ma anche quelli medi; con la consapevolezza che, l’averli eseguiti, non costituisca base spendibile in futuro, per le aspirazioni lavorative vere e proprie.
L’autore si sofferma sulle relazioni sociali dei nostri tempi, ben più utili di settant’anni fa, in quanto non abbandonano a se stesso il lavoratore defenestrato ma, dopo averlo inserito in un contesto lavorativo, sono pronte a reintegrarlo nell’eventualità di un licenziamento. Fenomeno non esclusivamente italiano, quello delle conoscenze personali, distribuisce occupazioni in continuazione, anche di carattere irregolare, dettate dalle esigenze economiche. Clientelismo e omertà gestiscono in maniera decisa gran parte del mondo lavorativo, soprattutto quello sommerso.
Il quadro lavorativo è favorevolmente scosso dal crescente numero di donne occupate, e culturalmente preparate; diversamente dal passato, quando la donna, statisticamente con scarsa scolarizzazione, ha svolto mansioni paradomestiche e per periodi limitati nel tempo, spesso conclusi a seguito di maternità. Con il lavoro femminile è cresciuto il part-time e, conseguentemente, anche le altre forme di lavoro atipiche. In alcuni casi, come insegna l’esempio inglese, si è arrivati al triste paradosso per il quale alcuni posti “pieni” maschili siano stati sostituiti da “mezzi” posti femminili, meno garantiti.
Il lavoro femminile cozza spesso con l’esigenza di ottimizzare i carichi familiari e di gestire le occupazioni del lavoro domestico; in moltissimi casi, fenomeno prettamente italiano, ci si rivolge a collaboratrici straniere; in altri casi all’aiuto dei genitori.
Più in generale si è verificato un vistosissimo calo delle nascite, tanto che l’autore si chiede << Le donne hanno meno figli perché lavorano di più o lavorano di più perché hanno meno figli? >>
L’obiettivo perseguibile deve essere quello di offrire pari opportunità all’universo femminile, concedendo la possibilità di approdare a qualsiasi tipo di professione, evitando la limitazione a determinati settori, quali il pubblico impiego, la ristorazione, il turismo. In tal modo si eviterebbe lo “scimmiottamento” femminile dell’arroganza e della prevaricazione maschile, degno della più sfrenata corsa carrieristica a scapito del collega più prossimo.
L’autore fornisce un’interessante e inquietante speculazione << Nasce lo stereotipo della forza lavoro femminile “debole” e “marginale”, che presenta caratteristiche di discontinuità, scarso attaccamento al lavoro, disponibilità soltanto a orari ridotti o a un impegno stagionale, un tempo considerate poco compatibili con un’elevata produttività, ma ora preziose per un sistema economico alla ricerca di flessibilità che consenta di reggere la crescente variabilità e incertezza. >>
In un altro capitolo viene rimarcato il pesante squilibrio occupazionale tra il sud e il resto del paese, un rapporto di disoccupazione per nulla frenato dall’imprenditoria locale medio-piccola, più incisiva negli anni settanta, ora colpita da recessioni economiche tra cui quella del 1992. Il tasso di natalità, ancora alto al sud, non permette un equilibrato ricambio, tra le forze lavoro prossime alla pensione e le nuove leve alla ricerca della prima occupazione. Si conferma così un tasso di disoccupazione doppio rispetto al centro Italia e triplo nei confronti di quello del nord.
Paradossalmente, in Italia convivono regioni come la Lombardia, assimilabili alla Baviera, regione meno disoccupata in Europa, e terre quali la Campania e la Sicilia che contendono alle spagnole Andalusia ed Estremadura il primato negativo.
Tale maggiore disponibilità settentrionale non ha generato un esodo dal sud, come è avvenuto alcuni decenni fa. I motivi sono più d’uno. Sicuramente va considerato come la maggior parte dei senza lavoro, i giovani, riesca a sopportare il disagio perché ancora inserito tra le mura dei genitori; difficilmente il giovane con titolo accetterebbe un impiego proibitivo dal punto di vista alloggiativo, e penalizzante a livello professionale perché concentrato in genere in occupazioni umili. Un fenomeno che si è verificato qualche anno fa, in seguito un canale preferenziale avviato da una legge del 1987, completamente disattesa e fallimentare.
Lo sradicamento che si originerebbe è pagato, semmai, dalle élites professionali che si spostano per occupazioni di alto livello, ben retribuite e in grado di sopportare gli affitti delle abitazioni in cui andranno a soggiornare.
Il contenimento della disoccupazione italiana si è avuto grazie alla diffusione dei servizi, del terziario che ha sostituito agricoltura e industria, offrendo nuove probabilità di lavoro. Il sud è passato repentinamente dall’agricoltura al terziario saltando, quasi, la fase industriale.
Reyneri afferma <> << L’aspetto che distingue l’Italia da Francia e Germania è invece un altro: la scarsa occupazione nei servizi per le imprese (dalla ricerca e sviluppo alla finanza) … >>
Da rilevare il peso notevole dei servizi privati, quelli che hanno surrogato l’intervento pubblico, perché più veloci, sicuri ed efficienti, si pensi a esempio alla sanità e alla scuola.
L’aumento dei servizi e del settore terziario fa sì che il lavoro manuale, il lavoro nelle fabbriche, subisca forte contrazione, a sua volta alimentata dal decentramento e dall’innovazione tecnologica. Un fenomeno che interessa maggiormente la grande fabbrica, meno quelle di dimensioni piccole e medie. Molti di questi ex operai vanno a colmare la nuova e crescente richiesta di servizi, adattandosi a lavori domestici e servili dequalificanti, senz’altro un passo indietro rispetto alle precedenti occupazioni.
L’autore si sofferma a descrivere anche le caratteristiche e il peso del lavoro indipendente in Italia, in crescita nonostante l’assioma statistico che vuole un alto reddito pro-capite legato a una minore incidenza della quota del lavoro indipendente.
La realtà italiana ci ricorda quanto tale lavoro indipendente comprenda diverse tipologie, da coloro che hanno alle dipendenze alcuni salariati e altri che lavorano strettamente in proprio. Caratterizzato dall’instabilità, dalla forte componente maschile e di età adulta, dal carico notevole di orario, dall’elevata evasione fiscale, tale lavoro autonomo, a volte, deriva da scelte personali per crescere professionalmente ed economicamente, altre volte diventa una situazione di ripiego alla quale affidare tutte le proprie residue speranze.
In alcuni casi i lavoratori indipendenti sfiorano redditi da capogiro, altre volte rasentano la sussistenza. Molte attività oscillano tra l’esser considerate dipendenti o indipendenti: il legame contrattuale o di subappalto, con un committente, può configurarsi come lavoro autonomo ma fortemente condizionato. L’autore cita anche l’esempio del moderno franchising, in cui l’azienda fornitrice del nome, vincola notevolmente il concessionario che a fatica si può definire “indipendente”.
Il micro lavoro indipendente non sempre si lega a un’idea di maggior sviluppo economico, in concreto rappresenta la chiave ideale per le nuove forme flessibili e atipiche di lavoro, che richiedono adattabilità e disponibilità assolute. Queste ultime sembrano, a ragione, una manovra per evitare i vincoli dell’occupazione stabile, riducendone le garanzie, ne è la prova il riferimento a settori classici dei lavori stagionali, agricoltura, edilizia e turismo, nonché una larga diffusione tra giovani e donne, proprio le categorie tartassate dalla cronica deficienza occupazionale.
Statisticamente, i lavori atipici e temporanei servono a ridurre la percentuale di disoccupati, soprattutto la fascia dei senza lavoro di lungo periodo, ma non risolvono il problema in sé, in quanto alla fine del contratto pongono il singolo nella stessa situazione precaria di partenza.
Una sezione del volume è dedicata alle forme irregolari di lavoro, da quello “nero” alla doppia occupazione, fenomeno che investe soprattutto il mezzogiorno, nel settore agricolo e coinvolge larga fetta della popolazione tra giovani, dipendenti del pubblico impiego, donne ed extracomunitari.
Il malcostume dilagante si impernia su un’idea di salvaguardia esclusiva del proprio tornaconto, indifferente al disagio che tale evasione fiscale e previdenziale possa incidere sulle sorti comuni. Paradossalmente il lavoratore irregolare, che spezza il vincolo sociale e solidale, usufruendo di pubblici servizi pur non sostenendoli, contribuisce all’innalzamento dei loro costi. Spesso la condizione di irregolare non è sinonimo di disagio lavorativo o di costrizione, bensì di libera scelta, di concerto col datore di lavoro, per un vantaggio economico di entrambi, nonché di salvaguardia di posizioni previdenziali o sussidi raggiunti, quali indennità di disoccupazione, cassa integrazione e assegni familiari.
Afferma Reyneri <>
L’agricoltura è il settore ove maggiormente si concentra la percentuale di lavoratori irregolari, stimati intorno a un quarto della produzione totale, in crescita sono i comparti dell’edilizia e dei servizi. I capifamiglia che possiedono due lavori si contrappongono paradossalmente ai giovani, che non ne possiedono alcuno, in un singolare quadro in cui gli adulti sembrano togliere il lavoro ai propri figli.
L’impiego pubblico costituisce, soprattutto al sud, un’occasione molto ambita, per la stabilità intrinseca e per la possibilità di gestire un secondo lavoro. Nell’unico settore in cui esiste formale divieto di doppia occupazione e ove, invece, si concentra il tasso maggiore di irregolari extra, l’autore osserva << Nel pubblico impiego italiano si è innescato un circolo vizioso, per cui le basse retribuzioni e il lassismo organizzativo incentivano il doppio lavoro, il quale a sua volta contribuisce a ridurre la produttività e a giustificare le basse retribuzioni. >>
L’intervento pubblico a favore del lavoro, e a tutela della disoccupazione, sia a livello preventivo che successivo al licenziamento, è stato spesso lacunoso e deficitario. Un esempio palese è stato offerto dagli uffici di collocamento, fuori dalla realtà lavorativa locale, non sempre in reale contatto con il mercato e quindi parzialmente efficace nei propositi. I nuovi servizi pubblici per l’impiego debbono colmare tali lacune e favorire l’occupazione, soprattutto quella femminile e quella dei portatori di handicap. Il paese, che destina a tale scopo una quota inferiore alla media europea, deve promuovere il contatto fra imprese e forza lavoro, monitorare il mercato e le nuove professioni, nonché agevolare la ricollocazione del personale licenziato. Per la vastità e la complessità dell’impegno assunto, è necessario che, per la gestione dei nuovi servizi pubblici per l’impiego, sia coinvolto personale altamente qualificato nonché perfettamente preparato e in linea con le direttive nazionali ed europee del paese.
In conclusione, il libro di Reyneri offre un ampio quadro della situazione lavorativa italiana, e non solo, ponendo l’indice sulle problematiche ancora da definire; pur essendo stato scritto qualche anno fa, ricalca pienamente la situazione attuale. Negli anni successivi alla pubblicazione del volume si può senz’altro notare l’incidenza crescente del lavoro sommerso, della presenza di lavoratori extracomunitari e del peso rilevante delle forme atipiche di assunzione. La realtà precaria di tali occupazioni è stata sommessamente assorbita da una popolazione cloroformizzata all’estremo, capace di accettare passivamente ogni imposizione.
Diverso è il quadro d’oltralpe, della solita Francia, alla quale il pensiero europeo deve il più grande spirito rivoluzionario; un paese in cui l’introduzione di uno svantaggioso contratto di prima assunzione ha provocato la sollevazione popolare, non solo giovanile.
Altra pasta, altra stoffa, altro plasma...