Ieri il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, al Mandela Forum di Firenze, all’interno del Tour 2016 di Coldiretti nella giornata nazionale dell’olio extra-vergine italiano, ha promesso, s’è indignato, ha alzato la voce, ha attaccato l’Ue. Un film già visto. Erano presenti oltre 10mila agricoltori, dentro e fuori il palazzetto, per rivendicare il diritto di esserci. Contro la speculazione, contro una deflazione paralizzante, contro una burocrazia asfissiante. Contro, soprattutto, la truffa perpetrata a danno di quello stesso Made in Italy che nessuno – mai – perde occasione di richiamare ed esaltare. Come poi nessuno – mai – cerca di risollevare. In Italia, si sa, vince lo spot elettorale, la grande opera; le Olimpiadi, un sogno mancato, e il Ponte sullo stretto, un sogno da realizzare. 100mila posti di lavoro e un servizio esclusivo e risolutivo per Calabria e Sicilia: queste le promesse sul tavolo, e di questo si discute in questi giorni. Niente di più lontano dalle necessità, quelle vere. Ci perdoneranno i lettori per la parzialità. E ci perdoneranno, pure, per scegliere di evidenziare uno solo dei problemi che affliggono il Sud, in questo caso la Sicilia. E che il dibattito sul Ponte, di fatto, vuole coprire. Accantoniamo il cemento, allora, e parliamo di limoni. Limoni in crisi.

L’allarme lanciato proprio dalla Coldiretti a metà settembre è l’ultimo di una lunga serie. Nell’Isola nel 2010 i limoneti si estendevano su una superficie di circa 22.400 ettari, diventati 17.800 nel 2015 e scesi ancora quest’anno. Una riduzione del 20%. Di più: dal 2000 a oggi hanno chiuso oltre il 50% delle aziende agricole siciliane, è sparita una pianta su due di limoni e nel 2015 l’importazione di agrumi ha raggiunto il massimo storico (con 480 milioni di chili). La grande distribuzione e gli esercizi medio-piccoli vendono limoni d’importazione a 3 euro al chilo – quando va bene – e, ad agosto (complice la riduzione della produzione), i frutti al supermercato hanno raggiunto un prezzo di quasi 4 euro al chilo. Peggio: la Sicilia produceva, vent’anni fa, il 95% dei limoni italiani, ora non più. Ora non è più terra di limoni. Ora chi coltivava sul luogo è stato stroncato: dai costi della filiera e dal guadagno inesistente. Scrive in una nota Coldiretti:

«La situazione del comparto è tragica: non si capisce perché bisogna acquistare a più di 3 euro il prodotto che arriva dall’altra parte del mondo e non consumare quello della nostra terra. I limoni arrivano sul mercato da Sudafrica e Argentina ma si tratta di un prodotto di scarsa qualità che nulla a che fare con le qualità organolettiche di quello siciliano».

Per il Wall Street Journal, il ponte è «l’emblema della storica indecisione che incatena l’Italia al proprio passato». Al passato, però, alla tradizione, l’Italia sta voltando le spalle; e da anni. In Sicilia incide l’embargo russo, che riduce la domanda. E incidono gli accordi commerciali di Tunisia e Marocco con l’Unione Europea a dazio zero. Una liberalizzazione dei mercati a cui il primo settore non era affatto pronto. In panoramica, se si guarda agli agrumi, negli ultimi 15 anni sono andati persi 60mila ettari e ne sono rimasti 124mila, di cui 71mila in Sicilia. Per la Cia (Confederazione italiana agricoltori) il calo è drastico: 50% dei limoni (come detto), il 31% degli aranci e il 18% dei mandarini. Si è rotto un equilibrio, insomma. Non ci dilunghiamo, e non cadiamo in esercizi di contro-retorica. Consapevoli di aver preso (brevemente) uno dei tanti esempi disponibili. Però ci chiediamo: in quest’Italia qui, l’Italia dei ponti, dove pure l’informazione è piegata, e il lavoro svilito, i limoni contano ancora? Pasolini rimpiangeva le lucciole, noi ci auguriamo di non dover rimpiangere nulla. Ingenuamente.