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Dopo Berlino

di Alessio Mannino - 31/12/2016

Dopo Berlino

Fonte: vvox

Eccoli, i cuor contenti crociati del "benessere" che difendono la nostra presunta felicità paranoica contro i paranoici terroristi. Anziché farsi qualche domanda. Profonda. Dicono che no, non devono farci temere un conflitto i venti di guerra siriani che hanno armato la mano di un poliziotto turco: “Aleppo, Aleppo!”, gridava dopo aver freddato davanti alle telecamere, nella sorpresa generale, l’ambasciatore russo Karlov. Dicono che Aleppo sia vittima della nuova alleanza fra Russia e Assad con la Turchia di Erdogan, ma non dicono che senza l’impegno della Russia e dei siriani fedeli alla Repubblica baathista (che sul piano religioso significa laica, lo ricordiamo ai laici di casa nostra), il Califfato non avrebbe perduto terreno e posizioni. Dicono che siamo in guerra, ma è una strana guerra la nostra, una drôle de guerre: non combattuta, non sentita, non vissuta. Ce ne eravamo pure dimenticati. Ci hanno pensato i due attentatori che hanno fatto strage nei mercatini natalizi di Berlino, a darci il promemoria. Forse, la sveglia. Dicono che il sopravvissuto sia un pakistano richiedente asilo, entrato in Germania da poco, e dicono che questo fatto costituisce un implacabile atto d’accusa alla politica immigrazionista della Merkel, che anziché chiudere totalmente le frontiere le tiene aperte a fisarmonica, calcolando i flussi ma non, evidentemente, il rischio di radicalizzazione fra i profughi. Ma non dicono che finora gli episodi di terrorismo a vario titolo islamista sono stati compiuti da immigrati occidentali od occidentalizzati, che aderiscono all’ideologia totalizzante del Califfo in solitaria, esaltandosi davanti al computer sul mezzo più global che esista, Internet, auto-arruolandosi in un esercito che ha un territorio con capitale Raqqa, ma contemporaneamente e potenzialmente è senza confini e ci abita nella porta accanto. Dicono che bisogna cacciarli («fuori dai coglioni», scriveva oggi il sempre misurato Feltri), che bisogna combattere, che bisogna reagire. Ma se c’è chi pensa di conquistare il nostro benessere trasferendosi da noi, se c’è chi ci odia perché il nostro benessere ci ha resi ciechi e sordi di fronte agli errori, gli orrori e le ingiustizie che abbiamo causato nel mondo musulmano, è da noi stessi che bisogna partire, per capire cosa fare. Dicono infatti che non dobbiamo rinunciare al nostro modo di vivere. Alla nostra felicità. Ma quale felicità, di grazia? Quando portavamo i calzoncini corti, l’età in cui ci beviamo tutto facendo sì sì con la testa, ci hanno rintronato con l’idea che rinunciare a un po’ del nostro per il prossimo sia il dovere di buon cristiano. Poi, più grandicelli, ci hanno spiegato che consumiamo troppo e male, che sprechiamo, che buttiamo via troppa roba, che spendiamo i nostri soldini in cavolate che ammalano la Terra. Oggi, che purtroppo ragazzi non siamo più, abbiamo capito che non per doveristica bontà, e nemmeno solo per ecologismo, faremmo meglio a dismettere uno stile di vita vuoto, vacuo, fatuo, imbecille. Ma per una ragione terra terra e al tempo stesso spirituale: perché ci fa star male nel profondo, nell’inconscio e nel corpo, passare la vita a correre, rincorrere, scrivere e rispondere ai messaggi, controllare le email, guardare, e soprattutto guardarsi sui social, lavorare di più per essere pagato di meno, fare la spola da casa al lavoro e dal lavoro a casa, col fiatone per racimolare il tempo per uno straccio di hobby o per far muovere un po’ i muscoli, visto che siamo schifosamente sedentari; non sapere più cos’è stare in silenzio, non sapere quasi più cos’è un paesaggio incontaminato, non aver mai saputo, per chi oggi ha vent’anni, com’è l’esistenza senza essere perennemente connessi, reperibili, rintracciabili, con la testa china e autistica sul telefonino; non riuscire a fare a meno della santissima obsolescenza del prodotto che ci fa comprare l’ultimo modello di cellulare, di computer, di satellitare, altrimenti ci perdiamo le indispensabili novità tecniche, così come non poter evitare il giro di shopping, il rito degli acquisti, la fila idiota al Black Friday, la vacanzetta dove cerchiamo gli stessi comfort e le stesse abitudini di casa, spendere e spandere in status symbol standardizzati, anziché sperperare pure gioiosamente (pauperismo, vade retro!) ma non perché lo predica la pubblicità o perché così fan tutti ma perché a me, che son fatto come son fatto, piace eccedere e lussarmi il conto (lusso viene da luxus, stessa etimologia di quando vi parte una scapola) secondo i miei gusti, solo miei, e non i gusti degli altri, alla ricerca di piacere gratuiti, letteralmente gratis, per dono, non cash, senza attaccamento, senza compulsività, senza produrre tutta quella spazzatura materiale e mentale; e infine, cosa che sta in cima alla lista, fare tutto quel che facciamo sempre con l’affanno, sempre con l’occhio all’orologio, senza goderci più l’attimo, senza chiederci il senso di tutto questo. Il senso di noi stessi: che ci facciamo qui? E per cosa o per chi fatichiamo tanto, riempiendoci di appuntamenti, oggetti inerti, passatempi per ammazzare il tempo (e già questa espressione dice tutto), annoiandoci a morte nel tempo libero (l’altro tempo, quindi, è schiavo), prendendoci tremendamente sul serio nella nostra finto-allegra mediocrità, mentre non sappiamo più affrontare seriamente le questioni serie della vita, la nascita (non facciamo più figli) e la morte (rimossa come tabù che disturba le vendite)? E ci vengono a dire che non dovremmo rinunciare a nulla? Dobbiamo rinunciare eccome, alla robaccia tossica e alla sua presunta sacralità. Anzitutto per star meglio, e così, poi, rinvigoriti, per lottare meglio contro questi paranoici. Io ho già cominciato da mo’. Come? Semplice: compro il meno possibile, dissacro un po’ tutto, mi interrogo sempre su che diavolo di scopo abbia quel che mi viene propinato per buono e scontato. Compresa la favoletta del “migliore dei mondi possibili”, che sarebbe il nostro. Tsk.