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Uno sradicamento planetario

di Serge Latouche - 27/01/2017

Uno sradicamento planetario

Fonte: Appello al Popolo

 

Quando i pensatori occidentali hanno elaborato una autocritica del colonialismo, hanno denunciato l’imperialismo europeo essenzialmente come un immenso sistema di “spoliazione”, cioè di furto puro e semplice delle ricchezze. Che si tratti di un saccheggio devastante o di uno sfruttamento razionale, l’imperialismo è identificato come un fatto “fondamentalmente” economico e solo in via accessoria politico. Né Marx, né Lenin, né Rosa Luxemburg, né i marxisti terzomondisti vi hanno visto un fenomeno di “dinamismo culturale”, come del resto Schumpeter, Hicks e la maggior parte dei pensatori borghesi. Questi ultimi riconducono l’espansionismo dell’Occidente a strascichi del feudalesimo, alla sopravvivenza dell’aristocrazia, al permanere di mentalità predatrici e al risorgere dell'”economia di comando”, cioè di una forma di dispotismo. In ogni caso, si tratta sempre di bottino e di prebende. Solo alcuni colonizzatori, in una forma cinica o confusa, e sempre paternalistica, hanno avuto l’intuizione della posta reale: la conquista delle menti e dell’immaginario. La vitalità delle culture si prova con la loro diffusione.

Denunciando l’imperialismo economico, i radicali occidentali hanno perseguito in altro modo l’occidentalizzazione del mondo, mentre i loro emuli del Terzo mondo, lanciandosi a corpo morto nella battaglia dello sviluppo, hanno approfondito ancor di più tale processo. Tutte le descrizioni di ciò che viene definito sottosviluppo nel Terzo mondo evocano una situazione tanto di carestia e di miseria quanto di abbandono che porta, anche nei casi meno desolanti, a società senza speranze e senza prospettive. La teologia cristiana ha inventato la parola “derelizione” per designare la situazione dell’uomo abbandonato dalla grazia divina. Questo effetto dell’occidentalizzazione non è il risultato di un meccanismo economico in quanto tale, ma di un processo più complesso di distruzione culturale chiamato “deculturazione”. Questa deculturazione si riproduce a sua volta e si aggrava con la terapia messa in opera per porvi rimedio: la politica di sviluppo e la modernizzazione.

L’etnocidio è lo stadio supremo della deculturazione. L’introduzione dei valori occidentali, quelli della scienza, della tecnica, dell’economia, dello sviluppo, del dominio della natura, è la base della deculturazione. Si tratta di una vera e propria “conversione”, nel senso che si attribuisce a una conversione di tipo religioso. Il violento impatto in realtà distrugge più di quanto non converta. Le massicce conversioni religiose si sono verificate solo laddove le credenze nell’aldilà si articolavano con «tecniche» alle quali la “magia” dei bianchi poteva fare concorrenza con successo. Le società tradizionali allergiche ai valori dei bianchi sono state puramente e semplicemente eliminate con lo sterminio o per declino “naturale”. Che cosa diventano le tribù delle quali si occupano i servizi di protezione? Una volta «pacificati», i Parintintin non sono più che dei poveri cenciosi, ridotti a mendicare; i Kaingang marciscono in una riserva dello Stato di São Paulo, dove si ammassano gli indios condannati di diritto comune; i Maka del Chaco paraguaiano abitano nel parco zoologico di Asunción, dove «fanno l’indiano» per pochi soldi. Ridotti a mendicanti o massacrati, il risultato è identico: la scomparsa quasi ineluttabile degli indios.

Nella diffusione dell’immaginario occidentale, il rapporto con la morte ha avuto un ruolo fondamentale e spesso sottovalutato. Il progetto della modernità, e dell’etica borghese, è consistito anche nell’eliminare la morte in tutte le sue forme e imporre come valore la “vita”, senza altre qualità. Esso non ha potuto radicarsi né diffondersi se non laddove la morte biologica è ugualmente percepita come non auspicabile. Certo, le società tradizionali danno un senso molto forte alla morte, come alla miseria e alla malattia. L’esaltazione della vita biologica come valore supremo è “disumana”, in quanto essa rivela un rifiuto della nostra condizione di mortali. Essa distrugge il senso stesso dell’esistenza nel suo spessore qualitativo. L’Occidente sostituisce i misteri della natura con spiegazioni razionali e trasforma tutti gli oggetti in merci. Così, l’intero universo diventa utilitaristico e funzionale. Secondo l’analisi del grande sociologo tedesco Max Weber, l’Occidente “disincanta” il mondo, cioè fa della vita terrestre il valore per eccellenza. Quando non si ha più l’eternità davanti a sé, la vita è una lotta inquieta contro il tempo. Certo, il tempo terrestre diventa infinito, ma questa infinitudine offre solo uno spazio illimitato all’ansietà dell’uomo moderno.

L’accumulazione infinita delle opere è un sostituto fantasmatico dell’immortalità. Le società che esaltano la morte nei campi di battaglia o idealizzano il suicidio non fanno della morte biologica, in quanto tale, un valore. Se la guerra è una festa e la morte in combattimento è una sorte invidiabile, la vita felice e spensierata è un bene. Il progetto occidentale di eliminazione della morte è desiderabile, purché non rimetta in causa l’antico e tradizionale senso della vita. Purtroppo, non è così. Il progetto occidentale di morte alla morte è radicale ed esclusivo. La lotta della vita per la vita è veramente totalitaria ed esige un abbandono totale delle pratiche sociali di integrazione del “negativo”: la morte, la miseria, l’infelicità, la malattia… La loro perdita di senso, che equivale alla perdita di senso e alla riduzione folcloristica di tutta quanta la cultura, avviene naturalmente e poco per volta.

Il culto occidentale della vita per la vita, e il suo risvolto profano che non c’è un aldilà e che la morte non ha senso, è penetrato assolutamente ovunque e si radica sempre più in profondità. Nietzsche aveva molto ben percepito il significato di questo fenomeno: «Si rinuncia alla grande vita quando si rinuncia alla guerra». Anche se, in fin dei conti, non sono state eliminate né la morte violenta, né la morte miserabile, né la morte naturale, lo spettacolo del loro immaginario sradicamento è sufficientemente impressionante per «mettere in trappola» le società non occidentali. Progressivamente, il mondo appare loro “disincantato”, senza che la vita, per quanto prolungata, ritrovi una qualche pienezza. E’ solo sopravvivenza. C’è anche una verità tragica nell’umanesimo-universalismo dell’Occidente. L’affermazione che i valori dell’Occidente, essendo «naturali», appartengono a ciascuno e a tutti diventa vera, senza che per questo tali valori siano più «naturali». Semplicemente, sono sopravvissute e sopravvivono solo le società che, almeno in parte, hanno accettato quei valori.

Il neocolonialismo, con l’assistenza tecnica e il dono umanitario, ha fatto senza dubbio molto di più per la deculturazione che non la brutale colonizzazione. Gli economisti, con la calcolatrice al posto del cuore e della testa, ragionando come bottegai si sono senza dubbio profondamente sbagliati nell’attribuire il sottosviluppo al prelevamento delle ricchezze. L’orgia sanguinaria dei conquistadores, l'”auri sacra fames” degli avventurieri, la sfrenata sete dell’oro, fenomeni mai veramente scomparsi e ancora presenti nella rapacità delle società transnazionali, nella violenza dei mercenari o negli abusi degli esperti, non sono che delle «sbavature», certamente spettacolari ma tutto sommato secondarie nel dramma cosmico della dinamica delle società.

L’immaginario occidentale si tiene fuori portata e continua a dare senza accettare nulla. All’occasione sottrae, ma non riconosce alcun debito e non intende ricevere lezioni da nessuno. Colpite al cuore, le società non occidentali possono solo girare a vuoto. La perdita di senso, che le colpisce e le corrode come un cancro, progressivamente, non è un’acculturazione. Il semplice fatto che l’Occidente è lì, presenza che non può essere eliminata né assimilata, non comporta che le sue molle e i suoi segreti vengano integrati. Questa presenza, senza alcuna violenza fisica, senza alcun tentativo di spoliazione e di sfruttamento, è di per sé disastrosa. La favolosa società di Bali? E’ stata più destrutturata da trent’anni di turismo internazionale che da duecento anni di colonizzazione olandese, seppure considerata “dura”. Il verme è nel frutto.

Il vuoto creato dalla perdita di senso insidiosa e progressiva, generata dall’esistenza dell’Occidente, è colmato, in certo qual modo, dallo pseudo-senso occidentale, ossia dal fascino del modello. Questa sostituzione non è una acculturazione, perché non si tratta dell’adozione dei miti dell’Occidente e dell’integrazione dei suoi valori. Più semplicemente: non avendo più occhi per vedersi, parole per dirsi, braccia per agire, la società ferita adotta lo sguardo dell'”altro”, si dice con le parole dell'”altro”, agisce con le braccia dell'”altro”. Il suo mondo è proprio disincantato. In questo caso, la parola disincanto va presa alla lettera. Che cosa le resta quando i suoi dèi sono morti, i suoi miti sono dichiarati favole, le sue imprese appaiono impotenti e inutili? La società non occidentale può solo scoprirsi in una “nudità” insensata, così come l’Occidente ha decretato: essa è miserabile. Destinata alla mortalità infantile, a una derisoria speranza di vita, divorata da parassitosi di ogni genere, non possiede che tecniche arcaiche e ridicole che le danno un bassissimo Prodotto nazionale lordo pro capite. Non vede più nei suoi riti che delle proliferazioni mostruose (cannibalismo, sacrifici umani … ) generate dal delirio della miseria e dall’oscurantismo. Stretta nella morsa delle norme dell’Organizzazione delle nazioni unite, essa è vinta. Ammette di essere vinta. Chiede perfino con insistenza di essere classificata tra le meno progredite. E’ ormai buona soltanto per la “mendicizzazione” internazionale.

E tutto ciò senza colonizzazione, “prima” ancora che le sue strutture produttive siano state distrutte dalla concorrenza dei prodotti stranieri, prima ancora che le sue «ricchezze» siano state saccheggiate dai “conquistadores”, dalle società coloniali, dalle ditte transnazionali. Il sottosviluppo è, “nella sua essenza”, questo sguardo, questa parola dell’Occidente, questo giudizio sull’altro, decretato miserabile prima che lo sia, e che lo diventa perché è giudicato così in modo irrevocabile. Il sottosviluppo è una nomination occidentale.

[da La fine del sogno occidentale. Saggio sull’americanizzazione del mondo, trad. it. Elèuthera, Milano 2002]