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La metafisica contro lo scontro di civiltà con l’Islam: per una geopolitica della terra

di Luca Siniscalco - 23/02/2017

Fonte: Barbadillo

“Scontro di civiltà”, “attacco fondamentalista all’Occidente”, “difesa dell’Europa laica”, “tutela dell’Europa cristiana”, “islam moderato vs islam radicale”. È febbraio, Annus Domini 2017, ma questi slogan triti e ritriti continuano a intasare i dibattiti televisivi, la carta stampata, frate web e sora radio. L’ermeneutica della banalità, la potremmo chiamare, rammentando pure come è proprio nella banalità che spesso prospera il male. La “chiacchera”, per dirla con Heidegger, imperversa. Non lo diciamo per snobismo o elitismo intellettuale: è giusto tentare dei quadri interpretativi il più organici e totalizzanti possibili, adeguati a fornire risposte alla gente e, se possibile, suggestioni pragmatiche al dominio politico. Ma, proprio per questo, la reiterazione di stilemi incapaci di offrire indicazioni costruttive alla evidente situazione di disagio in cui la nostra – pur non volendola – modernità soggiace necessita di riflessioni sensate, giustificabili secondo il triplice dominio del pensare, volere e sentire.

Sulla questione del fondamentalismo islamico e delle sue ricadute sulla nostra civiltà si è alzata molta confusione, ma pure diverse voci critiche serie e competenti, che hanno messo in luce distinzioni concettuali essenziali: Islam e islamismo fondamentalista, integralismo tradizionalista e fanatismo modernista, esoterismo ed essoterismo, ecumenismo laicista e pluralismo tradizionale. Franco Cardini, Claudio Mutti, Aleksandr Dugin e Pietrangelo Buttafuoco sono alcuni degli studiosi che, pur secondo le rispettive, autonome, Weltanschauungen, hanno offerto orientamenti importanti in materia.

Ricordava recentemente quest’ultimo, in una puntata di Dago in The Sky, con il suo stile lirico e appassionato, che «nel Corano c’è il racconto dell’amore e della guerra. C’è il racconto della pace e dell’odio. Nel Corano la presenza di Dio è contemporaneamente il destino di ogni uomo. E in ogni uomo c’è la presenza del male e del bene.  Il Corano, come la gran parte dei testi sacri delle religioni universali, ha questo doppio registro, che è quello di guardare, come se fosse ancora una volta il Dio Giano, il Dio bifronte dei Romani, alla pace e alla guerra». Così, «l’Islam fa paura perché nel nome dell’Islam tanti ammazzano. Perché nel nome dell’Islam moltissimi preparano le stragi, si dispongono anche alla morte, ai suicidi – ammazzano loro stessi –, il che certifica la più potente bestemmia contro Dio. (…). L’Islam, dunque, fa paura, perché intorno a questo spavento che ci tocca tutti, intorno a questa ossessione, fatta di morte, sangue e orrore, il contenuto, il contesto, il finale, è ben serrato in una grande mistificazione: l’idea stessa che l’Islam sia portatore di morte. Il più grande nemico del fondamentalismo islamico è l’Islam stesso».

Grande e Piccola Guerra

Qui risulta decisiva la questione del jihad, Grande e Piccolo. Un altro tema mal compreso, su cui tanto hanno scritto i più celebri autori tradizionalisti del Novecento e per la cui rettifica il filosofo Flavio Cuniberto opera una distinzione precisa: il Grande jihad è la lotta interiore contro il male, la dia-bolica scissione che spezza i legami sacri, il Piccolo quella esteriore. Quest’ultimo, tuttavia, non prevede lo sterminio dei non-musulmani – come oggi si tende a credere –, ma la conversione degli “infedeli”, nel senso coranico degli “idolatri”, che non sono – si badi bene – né ebrei, né musulmani e nemmeno induisti.

Islam come sguardo all’Origine

L’Islam, dunque, come sguardo a quell’Origine che tanto l’islamismo fondamentalista quanto il laicismo avversano, nelle contrapposte eppur solidali linee direttrice. A lumeggiare scenari politici, dunque, ancora una volta, irrompe la metafisica. È per questo che gli appunti offerti dal già citato Flavio Cuniberto, nel suo Il cedro e la palma – che sottotitola, non a caso, Esercizi di metafisica – sono davvero preziosi. Senza voler strumentalizzare un testo dal profondo afflato mistico, entro cui le tre “fedi” abramiche vengono studiate su un piano esegetico autenticamente simbolico-spirituale, il saggio offre una franca verità, valida pure nella lettura della quotidianità politica. Dimostra, infatti, con grande lucidità, la compresenza di un forte nucleo metafisico – quello di «una dottrina e una prassi della polarità, del ritmo, dell’Uno e del Due, dove il Due è l’aprirsi dell’Uno e rimane perciò interno all’Uno»  – nelle tre religioni già menzionate. È proprio l’oscuramento di questo nucleo, che spesso le religioni stesse, nella loro forma istituzionalizzata e secolarizzata, tendono a obliare, a causare dissidi e ostilità. È in questa reificazione, infatti, che cresce il dissidio, «la lotta all’ultimo sangue per il primato sul palcoscenico della credenza religiosa. Un palcoscenico che non esitiamo a definire frivolo – e il mondo “laico” ne ha preso da tempo le distanze come da una noiosa disputa infantile intorno al nulla –, a meno che il “sostantifico midollo” non torni a ravvivare lo stanco involucro delle forme esterne».

Riflettere sul fatto che forse la cura a una certa violenza non sia maggior modernismo e laicismo, ma una ricomprensione delle «nozze metafisiche fra Atene e Gerusalemme», è una torsione intellettuale – e interiore – straordinaria. Irenismo universalista e spirito crociato sono pericoli estremi ma paralleli. Volgere lo sguardo, allora, questo è l’imperativo, non più ai quanta, ma ai qualia. Per una geopolitica che sia anche geografia, “scrittura della terra”, sacra.