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La malattia Occidente, seconda parte (L’occidentalismo come malattia dello spirito europeo)

di Fabio Calabrese - 24/04/2017

La malattia Occidente, seconda parte (L’occidentalismo come malattia dello spirito europeo)

Fonte: Ereticamente

Questa seconda parte della nostra trattazione avrà sicuramente un andamento meno sistematico della prima. Il fatto è che una volta concluso il pezzo precedente, mi sono reso conto che di cose da dire riguardo al soggetto di questa trattazione ne sono restate comunque fuori diverse.

Per prima cosa, una domanda che penso più di qualcuno di voi si sarà posto, è che tipo di rapporto può esistere fra le tesi da me sostenute e la teoria esposta da Oswald Spengler in quella che è verosimilmente la sua opera più nota, Il tramonto dell’Occidente?

A Spengler, io penso, dobbiamo soprattutto una grande intuizione: non esiste “la” civiltà, ossia un progresso generalizzato dell’umanità a partire dallo stadio barbarico verso condizioni sempre più elevate, esistono “le” civiltà, ciascuna delle quali si sviluppa, raggiunge la sua maturità, decade indipendentemente dalle altre.

Chiaramente, questa concezione sbarra la strada in maniera netta a qualsiasi ubbia progressista. Non è certamente un caso che Il tramonto dell’Occidente ha avuto Julius Evola come autorevolissimo traduttore in lingua italiana.

Secondo Spengler, la storia di ogni civiltà attraverserebbe due fasi ben distinte, la fase di crescita e di espansione, che egli chiama Kultur, e la fase di decadenza che egli chiama Zivilisation. La prima sarebbe caratterizzata da rapporti di tipo organico a livello di istituzioni così come di visione del mondo, di cultura, di filosofia, di religione; la seconda si pone sotto il segno del meccanico, dei rapporti esteriori e formalistici in campo giuridico e politico, della conoscenza non più intesa come sapienza ma come dominio delle forze naturali, con tutte le rispettive ricadute in ambito scientifico e filosofico, e via dicendo.

Ora, e proprio la lettura dell’opera spengleriana lo chiarisce molto bene, se questo schema interpretativo calza alla perfezione per quanto riguarda quello che (provvisoriamente) potremmo chiamare l’ecumene europeo-occidentale, risulta poco convincente e forzato riguardo alla storia di altre civiltà.

Inoltre, teniamo presente che quando l’autore tedesco scriveva, nell’epoca a cavallo fra le due guerre mondiali, si poteva ancora parlare di “Occidente” intendendo con questa parola l’Europa e le sue propaggini oltre Atlantico e in Oceania, perché non era ancora avvenuto l’assoggettamento dell’Europa a un dominio condominiale russo-americano all’indomani del conflitto e all’egemonia americana oggi.

Ciò gli ha probabilmente impedito di comprendere appieno, anche se ha compreso con grande preveggenza i sintomi della decadenza europea, che Kultur e Zivilisation non sono tanto due momenti di una stessa civiltà, quanto due mondi “l’un contro l’altro armati”, come invece ha ben colto Sergio Gozzoli ne L’incolmabile fossato.

Alcune riflessioni di Spengler rimangono valide e andrebbero attentamente meditate, come quella sui popoli fellah, popoli il cui ciclo di civiltà è esaurito e sono destinati a diventare materiale di riciclo per nuove culture emergenti più forti. Fellah, è questo appunto che siamo diventati/stiamo diventando sotto il tallone americano, almeno fino a quando l’immigrazione che ci viene forzatamente imposta non cancellerà la nostra stessa sostanza etnica.

Kultur cioè Europa, Zivilisation, cioè Occidente, sarà una semplificazione, ma rende chiara l’idea.

Abbiamo chiesto noi di essere “occidentali”, abbiamo forse supplicato gli yankee di venire durante la seconda guerra mondiale a seppellire le nostre città sotto il diluvio di ferro, fuoco e morte che hanno fatto in tutta Europa quattro milioni di vittime civili (quattro milioni di vecchi, donne e bambini) per renderci tali?

Probabilmente lo ricorderete, in un articolo di diverso tempo fa, Razzismo rosso, avevo già posto questo quesito, commentando l’atteggiamento di una mia conoscente, politicamente molto a sinistra e grande amica degli immigrati la cui casa è sempre aperta a gente di ogni colore, che mi aveva sorpreso con una sparata anti-meridionale a proposito di un collega immigrato dal sud che aspirava a tornare dalle sue parti (particolare che rende la cosa ancor più grottesca: questa donna è di madre siciliana). In tutto ciò, mi è parso di intravedere una logica sia pure aberrante: verso qualunque extraeuropeo deve valere il rispetto della sua sedicente “identità culturale”, per quante usanze repellenti possa contenere, ma noi in quanto “occidentali” abbiamo l’obbligo di essere cosmopoliti, citoyen du monde , quindi in sostanza degli sradicati, pronti a gettare la nostra identità nel crogiolo dell’universale meticciato. Credo di avervi raccontato già anche questo, ma è meglio tornarci su: la psicanalista e ovviamente sinistrorsa francese Françoise Dolto raccontava di essersi occupata negli anni ’60 di un ragazzo mulatto, confuso e depresso per non avere un’identità etnica precisa, e di avergli spiegato che lui e quelli come lui erano l’avanguardia di una nuova umanità, che un giorno tutti sarebbero stati così.

Questa donna leggeva il futuro nella sfera di cristallo, o era già allora al corrente del piano Kalergi, e della progettata cancellazione dei popoli europei mediante imbastardimento? Verosimilmente né una cosa né l’altra, dava semplicemente voce a una vecchissima aspirazione della sinistra.

Quanti oggi si stupiscono delle politiche adottate dalle sinistre in Europa, a cominciare da quella italiana, politiche che vanno palesemente a danneggiare le classi lavoratrici e a far regredire lo stato sociale, semplicemente non hanno capito cosa è la sinistra, una sinistra che a livello europeo è diventata la più zelante alleata del capitalismo internazionale nell’attuazione del piano Kalergi visto da essa come la materializzazione delle sue antiche utopie cosmopolite fondate sull’esplicita negazione del fatto che l’eredità di sangue etnica-biologica abbia qualche importanza. Tutto ciò in pratica è RAZZISMO, il più abietto che possa esistere, quello contro i propri connazionali.

Un razzismo che non è una pecca emendabile, ma è qualche cosa di profondamente connaturato all’ “essere di sinistra”, lo spiegava molto bene Diego Fusaro in un articolo apparso su “Lo spiffero” in data 3.4.2013: Se il capitalismo diventa di sinistra:
“Quando dai giornali e dalle televisioni vediamo che le forze di sinistra sono favorevoli all’immigrazione e alla società multirazziale a volte ci si stupisce pensando: “ma non si rendono conto del danno che l’immigrazione produce alle classi popolari più povere e ai lavoratori? Non notano di come la criminalità, molto maggiore tra gli immigrati, si riversa prima di tutto sui poveri?”.

Bene, ci si dimentica qui dell’origine della sinistra.

[La sinistra] parte dalla concezione egualitaria secondo cui gli umani sono tutti uguali in quanto non c’è corrispondenza tra la genetica di un popolo e il suo carattere e cultura. Tutto dipenderebbe da circostanze storiche e ambientali.

E quindi sarebbe possibile ipotizzare una società perfetta a partire da studi “scientifici”. E realizzarla tramite la distruzione del vecchio e delle identità etniche. I sinistri sono dei razzisti che si sono radicati nell’utopia.

La loro realtà è solo mentale ma che ha escluso il corpo”.

L’analisi di Fusaro ha bisogno di essere corretta in un solo punto: il capitalismo non ha alcuna necessità di diventare di sinistra, poiché sinistra e capitalismo fanno parte storicamente di un unico movimento di sovversione e distruzione della civiltà europea, prima politicamente e culturalmente, e oggi anche dal punto di vista etnico con l’imposizione del meticciato, e sboccano entrambi nella stessa cloaca mondialista.

La sinistra sembra avere profondamente interiorizzato un concetto che un intellettuale davvero controcorrente (non uno dei soliti “anticonformisti” tanto anticonformisti da essere uguali l’uno all’altro come gocce d’acqua che pullulano nella nomenklatura sinistrorsa), Jean François Revel aveva già enunciato a suo tempo:

“I persiani di Erodoto pensavano che tutti avessero torto fuorché loro; noi altri occidentali moderni siamo ormai prossimi a pensare che tutti abbiano ragione fuorché noi”.

In realtà questo cupio dissolvi non riguarda “l’Occidente” i cui presunti valori mondialisti sembrano essere particolarmente cari al sinistrume nostrano, si veda l’esaltazione che una certa parte della sinistra come la non rimpianta Oriana Fallaci, ha fatto dell’americanismo (e come dimenticare Lenin, “America come religione”?), ma specificamente la Kultur europea di cui si vuole l’estinzione a cominciare dall’elemento più vitale, ossia la compattezza etnica dei popoli del Vecchio Continente.

Vale la pena di rileggersi il brano di Revel contenuto nel suo libro La conoscenza inutile (en passant possiamo ricordare che “la conoscenza inutile” che dà il titolo a quest’opera è precisamente quella degli intellettuali di sinistra che, pur essendo pienamente a conoscenza dei fatti storici che smentiscono le loro farneticazioni ideologiche, riescono bellamente a metterli da parte in modo che non arrechino disturbo alle astrazioni di cui sono innamorati):

“È solo con la civiltà greca, poi con Roma e con l’Europa moderna che nacque un giorno, in una cultura, non certo modestia totale ma almeno un punto di vista autocritico in seno a questa medesima cultura. Con Montaigne, per esempio, e ancor più con Montesquieu, naturalmente, si sviluppa pienamente il tema della relatività dei valori culturali. In altre parole, noi non abbiamo il diritto di definire un costume inferiore al nostro semplicemente perché diverso e dobbiamo metterci in condizione di giudicare i nostri costumi come se li osservassimo dal di fuori.

Ma in Platone, Aristotele o, nel XVIII secolo, nei filosofi dei Lumi (cui appartengono i Padri fondatori americani) questo principio relativista significa non che tutti i costumi si equivalgono ma che tutti devono essere imparzialmente giudicati, compreso il nostro. Noi non dovremmo, secondo tali filosofi, essere più indulgenti con noi di quanto lo siamo con gli altri, ma non dovremmo neppure essere più indulgenti con gli altri di quanto lo siamo con noi stessi. L’originalità della cultura occidentale consiste nell’aver stabilito un tribunale dei valori umani, dei diritti dell’uomo e dei criteri di razionalità, di fronte al quale tutte le civiltà devono parimenti comparire, non nell’aver proclamato che tutte le civiltà sono equivalenti, il che porterebbe a non credere più in alcun valore (…).

Dal momento che, peraltro, la severità nei confronti della civiltà occidentale non si è attenuata, e che questa civiltà rimane per ogni anima virtuosa, un bersaglio legittimo, ne risulta che su di essa soltanto si appuntano gli strali della critica, nostra e altrui (…).

Quando Montaigne stigmatizzava con una virulenza vibrante i misfatti degli europei durante la conquista del Nuovo Mondo, lo faceva nel nome di una morale universale, dalla quale secondo lui non erano esclusi neppure gli indiani.

La nostra civiltà ha inventato l’autocritica in nome di un corpus di principi valido per tutti gli uomini a cui devono ispirarsi tutte le civiltà, nell’autentica uguaglianza. Essa perde la sua ragion d’essere se abbandona questo punto di vista. I persiani di Erodoto pensavano che tutti avessero torto fuorché loro; noi altri occidentali moderni siamo ormai prossimi a pensare che tutti abbiano ragione fuorché noi. Ma questo non è un progresso dello spirito critico, sempre auspicabile, è il suo abbandono totale” .

Ora, io direi che questo scritto per la sua parte propositiva evidenzia molto bene i limiti di un pensiero liberale come è quello di Revel, e che certamente non possiamo fare nostro. In primo luogo, non possiamo condividere l’esaltazione che l’autore fa dell’illuminismo: non ci può sfuggire il fatto che storicamente i pensatori “dei lumi” si inseriscono in quel movimento che attraverso la rivoluzione francese, le rivoluzioni liberali dell’ottocento a cui poi si sono aggiunte quelle di ispirazione marxista, ha portato l’Europa a decadere dalla posizione di egemonia planetaria che aveva fino a poco più di un secolo fa, a un ruolo di servaggio e subordinazione a una “cultura” mondialista “made in USA”, e allo stesso modo va respinto l’uso mistificante del termine “occidente” o “civiltà occidentale”, perché, come abbiamo visto, esso che un tempo indicava l’ecumene europeo con le sue propaggini in altri continenti (Americhe e Australia), ha cambiato di segno dopo la seconda guerra mondiale, venendo a significare la dipendenza dell’Europa dal dominio statunitense.

Rimane però valida, ed estremamente valida la pars destruens di questa riflessione che falcia l’erba sotto i piedi a quel relativismo “democratico” che predica l’equivalenza fra “civiltà” e culture, e vorrebbe imporci l’accettazione di tutto quanto ci è culturalmente estraneo, in nome di una tutela dell’ “identità culturale” altrui che ci obbliga costantemente a rinnegare la nostra.

Noi siamo europei (non “occidentali”), abbiamo tutti i motivi per essere fieri di esserlo, e il diritto e il dovere di difendere la nostra identità e le nostre radici.