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La lezione francese non tocca l’Italia

di Marcello Veneziani - 29/04/2017

La lezione francese non tocca l’Italia

Fonte: Marcello Veneziani

Da giorni tutte le foche ammaestrate della repubblica italiana ci dicono di prendere lezioni dalla Francia. Passata la sbornia dei primi giorni, è tempo di riprenderci e di ragionare a mente fredda.

Prima di tutto chiediamoci: perché dovremmo trarre lezione solo dalla Francia e non, per esempio, dalla brexit inglese o dall’elezione di Trump in America? E in cosa consisterebbe poi la lezione francese, che peraltro è una lezione a metà, perché vedremo il suo compimento solo tra otto giorni? La vittoria dell’Europa sui populismi, rispondono in coro i Media Allineati e aggiungono i berluscones: la Francia insegna che i populisti da soli non vanno da nessuna parte.

In realtà la lezione francese, come la lezione americana o britannica, ci insegna poco e nulla. Perché si tratta di storie imparagonabili e di situazioni del tutto differenti. E noi siamo un paese speciale, nel bene e nel male.

C’è solo un punto in comune ed è che i partiti tradizionali si stanno spegnendo, stritolati tra le oligarchie e i populismi. Dappertutto sono in ritirata e al loro posto sorgono leader extramoenia, esterni. Ma, finita questa analogia le storie sono del tutto diverse.

L’Italia è ancora un caso a sé, imparagonabile agli altri Paesi, compresi quelli più vicini. Stiamo messi decisamente peggio di loro ma rispetto a loro conserviamo un piccolo privilegio: siamo uno strano laboratorio di formule politiche poi esportate nel mondo, e tradotte in modi diversi.

Da noi, per esempio, non c’è un Trump o una Le Pen perché i populisti in realtà sono più antichi, sparpagliati e in maggioranza: populista è Grillo, populista è Salvini, semi-populista è la Meloni, ma populista double-face è pure Renzi, e populista prima di tutti fu Berlusconi.

Fu lui il Priore dei Pop anche se ora fa il moderato, l’agnellino, e si presenta come il domatore dei populisti e il trasformatore del populismo in partito popolare.

Metti Salvini e Meloni nel frullatore ed esce la Merkel. Insomma in Italia il populismo non è una novità. E non basta: a Roma c’è anche un populista che presiede il Vaticano, Papa Francesco, col suo populismo dell’accoglienza. Papa Ong da sbarco.

Ma non solo. Il nostro Paese vanta un esperimento originale che in Europa non trova riscontri: da noi il centro “moderato” di derivazione democristiana, in parte craxiana, e di estrazione aziendale, ha vinto per tre volte le elezioni politiche perché si è alleato ai populisti e ai radicali della Lega e della destra sociale e nazionale.

Vero è che quei populisti se non si fossero alleati con Berlusca non sarebbero andati da nessuna parte. Ma vero è pure il contrario, Berlusconi conquistò il governo sulle gambe della destra e della Lega. E spesso li scavalcò in populismo, semi-legalità e demagogia.

In Francia, invece, è ancora impensabile un’alleanza tra gollisti e front national. Da noi non c’è Marine Le Pen perché il nostro populismo è lottizzato in vari spicchi, da destra a sinistra, da Arcore alla Padania e alla Garbatella, dai grillini al giglio magico.

E non c’è nemmeno un Macron. Ci provò l’europallido Enrico Letta, persona seria, ammodo, ma scialba, di scarsa incisività non solo mediatica ma anche governativa. Se vogliamo proprio italianizzare Macron, diremo che è un Monti travestito da Renzi. Ma si tratta di storie del tutto diverse.

La lezione francese ci dice che franano le colonne della repubblica, i partiti venuti da De Gaulle e Mitterrand, ma al loro posto non s’impone una nuova leadership, semmai il Paese si frantuma e alla fine si spacca in tre versanti: populisti nazionali, oligarchici tecno-europei e astenuti per disgusto bilaterale.

No, l’Italia non va a studiare all’estero, il suo asse politico è ancora Milano-Roma, via Genova e Firenze. Usiamo i populisti e gli euro-domestici fatti in casa.