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L’esoterismo islamico

di Giovanni Sessa - 10/06/2017

L’esoterismo islamico

Fonte: Ereticamente

In un’età come la nostra, dominata da pauperismo spirituale e da fermenti disparati di “seconda religiosità”, come ebbe a definirli Spengler, misticismo ed esoterismo sono argomento di   d’interesse e di fraintendimento. Purtroppo, gli studiosi seri di queste Vie sono davvero limitati nel numero e il più delle volte inascoltati, per il clamore da baraccone suscitato attorno a tali tematiche da personaggi di dubbio livello, afferenti al New Age o all’occultismo. Pertanto, quando compaiono nel panorama editoriale opere significative, latrici di esegesi profonde del valore e del significato dell’esoterismo, vanno segnalate ai lettori. Tra esse, l’ultimo libro di Alberto Ventura, docente di Storia dei paesi islamici presso l’Università della Calabria. Si tratta de L’esoterismo islamico, volume che da poco impreziosisce il già rilevante catalogo della Adelphi, nella collana Piccola Biblioteca (euro 14,00).

Merito dell’autore l’aver presentato in modo chiaro ed esaustivo, cosa rara, gli aspetti essenziali della metafisica Sufi e dell’esoterismo islamico. In particolare, l’incipit del libro dice la differenza tra prospettiva exoterica ed esoterica nell’Islam: nella prima si predica l’Unità divina, nella seconda l’Unità viene realizzata. Affinché ciò si verifichi, è necessario che “l’uomo che la professa sparisca dalla scena” (p. 12), così l’Uno viene affermato come l’Unico. La metafisica è una forma di autoconoscenza perché, come è stato scritto “Chi conosce se stesso, quegli conosce il suo Signore” (p. 195). L’Identità suprema è il riconoscimento, la rammemorazione, di un’unità da sempre esistente “L’uomo è Dio perché Dio è l’unica realtà, ma non è Dio perché, in quanto individuo, è qualcosa di determinato e di condizionato” (p. 195).

   Con tale significativa affermazione, Ventura distingue in modo netto la visione autenticamente metafisica, sia dal panteismo che dal monismo, con le quali viene spesso confusa. Il Principio nella sua radicale trascendenza, è celato e irraggiungibile, è l’Interiore, ma al medesimo tempo egli è l’Esteriore, si mostra nelle cose, sue ombre. Dio “circonda” il mondo, è alla sue spalle “la sua vicinanza…avviene da dietro…da un oltre irraggiungibile” (p. 130), in Lui alterità e somiglianza trovano compiuta sintesi. Un simbolo illuminante svela tutto ciò: la “nube oscura”, che rinvia analogicamente all’Indeterminato primordiale “la nube è qualcosa di essenzialmente omogeneo e compatto, come lo è il Principio, ma allo stesso tempo è gravida della pioggia in essa contenuta allo stato ancora indistinto…immagine quanto mai adeguata della Possibilità universale” (p. 29). La “nube oscura” è un “ora” infinito, Assoluto al punto da essere svincolato dal limite dell’assolutezza stessa.

L’esegesi dell’autore si sviluppa in modalità comparativa, attraverso un continuo raffronto con dottrine taoiste, del Vēdanta e con la stessa tradizione speculativa del Medioevo cristiano. Dal che si evince come egli si collochi nella sequela dottrinaria e spirituale di Guénon, per il quale tutte le tradizioni sono manifestazioni della Tradizione primordiale. Sotto il profilo delle fonti, egli ha un Maestro venerato in Ibn ‘Arabī, il “Massimo”. Da questi ha appreso come per la metafisica islamica la manifestazione, pur non rappresentando la Realtà vera, non sia affatto luogo dell’irrealtà. Il simbolismo geometrico del cerchio chiarisce quest’aspetto in modo illuminante. Il centro, indicante l’unità, non dipende dalla circonferenza, anzi, fa essere la circonferenza (manifestazione), alla quale lo uniscono i raggi. Nonostante la molteplicità radiale, il centro non si “moltiplica”, ogni raggio simbolizza la “direttrice divina” che dà luogo a quel dato punto della manifestazione contingente.

Ora, l’intera manifestazione, l’insieme di tutti i mondi, è una sorta di “ciclo dei cicli”. E’ possibile rappresentare geometricamente la riproduzione indefinita della circolarità dell’essere, presupponendo un centro originario che genera una prima circonferenza “ciascuno dei punti della quale può a sua volta divenire il centro di un’ulteriore circonferenza” (p.151), così via indefinitamente. Ne nasce la figura rappresentativa della realtà, discussa da Ventura (p. 152), che al centro ha il cerchio della Presenza, sormontato dai quattro attributi di Dio, Vita, Potenza, Bontà, Scienza, dai quattro principi che determinano la produzione cosmica, Intelletto, Anima, Natura e Polvere tenue, nonché dai quattro elementi della manifestazione corporea.

Da ciò discende il simbolismo dei “tre mondi: la condizione corporea è tipica del mondo sensibile, le cui forme individuali sono connotate dal corpo “grossolano”; il mondo intermedio è costituito da quegli sati dell’essere nei quali l’individualità si riveste di forma “sottile”; infine, il terzo mondo, o degli spiriti, comprende gradi d’esistenza che trascendono tanto l’individualità, quanto la forma ed il corpo, è il mondo degli stati superiori dell’essere. Il loro insieme dà luogo al cosmo, l’universo manifestato “al di là del quale vi è il dominio del non-manifestato dei ‘gradi divini’” (p. 157). Il Corano definisce “loto del termine” l’estremo confine che separa il dominio cosmico da quello dei principi metafisici. Al di là di esso, sussiste solo l’Uno, senza più traccia di ente alcuno. Il triplice Regno si mostra anche nel microcosmo, nell’uomo, la cui realtà è costituita di corpo, anima, spirito. Si badi, nella prospettiva dell’autentica metafisica è lo spirito che contiene il corpo e non viceversa! Il che chiarisce pienamente come la modernità rappresenti, anche in questo ambito, un’inversione radicale della visione tradizionale del mondo.

   Il mondo “intermedio” è da Ventura presentato quale “barriera” o “istmo”, posto tra gli altri due regni, per la qualcosa in esso si specchiano tanto le realtà di ordine spirituale, quanto quelle di natura sensibile. Per questo, con garbata vis polemica, l’autore rileva che la valorizzazione del mundus imaginalis di Corbin risulta, alla luce delle verità tradizionali, eccessiva. Infatti “per Ibn’ Arabī, la conoscenza illuminante più perfetta si produce nella sfera degli intelligibili” (p. 169), per poi discendere alle immagini. Rilevanti ci paiono le sintonie evidenziate dall’autore tra la metafisica sufi e posizioni di Gioacchino da Fiore e di Scoto Eriugena.

In conclusione, quale insegnamento è possibile trarre dalla lettura delle pagine di Ventura? Egli ci indica, servendosi dell’autentico insegnamento metafisico sufi, una possibilità che può appartenerci, la liberazione. Ad essa possiamo giungere a condizione di attraversare la “morte”, l’estinzione, di ciò che relega al contingente. Un simbolo, l’acqua che evapora, illustra il punto apicale della realizzazione metafisica. Nel processo di evaporazione l’acqua lascia la sua forma materiale per assumerne un’altra. L’uomo che si libera è “trasformato”, “vaporizzato”, nel raggiungere l’Identità. In essa “non sono due identità distinte a congiungersi, ma si ricompone…ciò che non si era mai realmente separato” (p. 184).

Giovanni Sessa