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Una nuova classe decide il destino del pianeta

di Francesco Lamendola - 13/07/2017

Una nuova classe decide il destino del pianeta

Fonte: Accademia nuova Italia

Sono almeno tre le crisi finanziarie che hanno sconvolto il mondo dopo quella, tristemente famosa, del 1929: quella del 1987, quella del 2002 e quella del 2007, dalle cui tremende conseguenze non ci siamo ancora interamente ripresi, né, forse, ci riprenderemo mai del tutto. Ciascuna di esse è nata da una bolla speculativa, o da un insieme di bolle speculative; ciascuna di esse non ha avuto origine da una reale crisi industriale o produttiva, ma esclusivamente da un eccesso di speculazione finanziaria, che, poi, si è trasformata anche in crisi del sistema industriale e produttivo; e ciascuna di esse è passata tranquillamente sulla testa dei politici, rivelandone la totale impotenza, e ha distrutto il risparmio e la ricchezza reale delle persone, causando, nello stesso tempo, il realizzarsi d’immense e improvvise fortune da parte di soggetti come le banche, ma anche i tecnici, gli operatori finanziari, gli “esperti” che ruotano attorno ad esse e che lavorano in Borsa, i quali non svolgono alcun ruolo nella produzione della ricchezza reale e che, perciò, è corretto classificare alla stregua di mostruosi parassiti della società e dell’economia mondiale.

Tutto ciò ha un sapore rivoluzionario. Una rivoluzione consiste, a livello ideologico, nell’imposizione di un cambio di paradigma culturale; a livello materiale, in una gigantesca ridistribuzione della ricchezza e, quindi, nella nascita di una nuova classe proprietaria, o nel suo enorme rafforzamento; e, per converso, nell’impoverimento delle classi preesistenti, alle quali viene sottratta la disponibilità del grande capitale. La cultura dominante negli ultimi decenni ci ha abituati a pensare che la rivoluzione sia necessariamente una cosa di “sinistra” e sia l’attuazione violenta di un progresso ormai indilazionabile, al quale le forze della conservazione si erano inutilmente opposte; ebbene, questa vecchia idea non corrisponde alla realtà, ed è tempo di sbarazzarsene. La rivoluzione è essenzialmente un fatto tecnico e si realizza attraverso modalità tecniche: tanto è vero che hanno successo le rivoluzioni nelle quali le forze del cambiamento sanno usare con rapidità, decisione e spregiudicatezza le tecniche della presa del potere; falliscono quelle in cui ciò non avviene. Dobbiamo perciò spogliarci dell’idea romantica della rivoluzione e vederla essenzialmente  nella sua vera natura di tecnica della forza. A decidere le rivoluzioni è la tecnica, nel senso più ampio della parola: anche reperire i finanziamenti per preparare il terreno, agire attraverso la propaganda, corrompere le forze avverse, minare le basi dell’ordine sociale, rientra in una strategia di tipo tecnico. Per fare un esempio, si pensi agli aiuti logistici (il famoso “vagone piombato”) e ai cospicui finanziamenti forniti dal governo del kaiser Guglielmo II a Lenin e ai bolscevichi, in vista della Rivoluzione d’ottobre. Il regista di tutta quella operazione fu Parvus, un magnate ebreo russo divenuto cittadino tedesco, dal passato rivoluzionario e, a suo modo, sincero ammiratore di Lenin: era un tecnico nel senso che qui intendiamo, cioè un uomo d’affari senza scrupoli, che aveva fatto un sacco di soldi con oscure operazioni finanziarie, e che giudicava Lenin in senso puramente tecnico. Egli seppe cioè vedere con sicuro intuito, in quell’uomo ormai anziano e malato, che viveva isolato, in esilio, e che aveva apparentemente fallito la sua missione di rivoluzionario, il solo capace, in mezzo a tanti velleitari parolai, di prendere il potere in Russia, se gli fossero stati forniti i mezzi per arrivarci e diffondervi le sue parole d’ordine.

Un altro esempio, su un piano parzialmente diverso, è dato da ciò che è accaduto nella Chiesa cattolica durante e dopo il Concilio Vaticano II: l’introduzione surrettizia della rivoluzione modernista, realizzata – con suprema abilità – senza che la stragrande maggioranza dei fedeli se ne sia accorta, almeno sul momento. Eppure, anche quella fu una rivoluzione: una rivoluzione religiosa, culturale e spirituale, anche morale; ma sempre una rivoluzione. I principi rivoluzionari sono stati introdotti dentro la Chiesa per opera della Chiesa stessa, osservò, lucidamente, monsignor Lefebvre: ma il cambio di paradigma fu così abile e netto, da far sì che la rivoluzione venisse percepita come un necessario e benefico “aggiornamento” dell’esistente, non come la distruzione e l’azzeramento di quest’ultimo. E ad attuare quella rivoluzione, che prosegue tuttora a ritmo sempre più serrato (ci vuole comunque del tempo per azzerare duemila anni di tradizione!), sono stati, ancora una volta, i “tecnici”: vale a dire i teologi, o meglio, i teologi di tendenza modernista, cioè gli eredi di quel modernismo che san Pio X aveva solennemente denunciato come eretici e scomunicato mezzo secolo prima.

Una rivoluzione, inoltre, è attuata da un soggetto ben preciso: una classe sociale emergente, smaniosa d’impadronirsi di tutto il potere, sia quello economico-finanziario, che è il suo vero obiettivo, sia quello politico e culturale, che ne è lo strumento necessario – o, almeno, lo era per le rivoluzioni del passato. Oggi il quadro è cambiato, perché, in una società sempre più tecnica come la nostra, e con una economia sempre più di tipo finanziario e tendenzialmente speculativo, invece che produttivo (oltre il 95% dell’economia mondiale non consiste di beni e servizi reali, né esiste, da alcuna parte, la massa di denaro reale che possa garantirne l’eventuale solvibilità, perché nessuno si è dato la pena di stamparlo), chi vuol fare la rivoluzione non ha più bisogno di prendere materialmente il potere perché, tanto, controllando le borse e il mercato, il potere politico lo tiene già sotto controllo, come un cagnolino al guinzaglio. Ora, la classe naturalmente rivoluzionaria dei nostri giorni è quella dei tecnici che lavorano, direttamente o indirettamente (come i pubblicitari o i dipendenti delle agenzie di sondaggi e di rating) nel settore finanziario e speculativo, i quali, stanchi di operare per conto terzi, si sono dati a lavorare in proprio. Padroneggiando i meccanismi con i quali è possibile orientare, manipolare e drogare opportunamente il mercato, provocando oscillazioni mirate degli indici di borsa e realizzando fantastici guadagni grazie alla rapidità con cui comprano e vendono le azioni, essi sono in grado di padroneggiare, alla lettera, i destini del mondo: determinando espansione o recessione, crisi, bancarotte, collassi o impennate di singole aziende quotate in Borsa, di singoli Stati, o anche della Borsa nel suo insieme. E ciò a livello planetario, perché l’economia globalizzata è planetaria: tipico esempio, il Lunedì nero del 19 ottobre 1987, quando il tracollo della Borsa di Hong Kong ebbe effetti a catena che coinvolsero tutte le altre Borse del mercato mondiale, a cominciare dall’Europa e gli Stati Uniti, cioè dalle aree finanziariamente più sensibili dell’intero pianeta. La sola importante differenza con le classi rivoluzionarie del passato è che quella odierna, diversamente da tutte le precedenti, non solo ambisce alla ricchezza altrui, ma non ha una sua ricchezza da mettere in gioco: costruisce le proprie fortune sul nulla e quindi non rischia niente, non avendo niente da rischiare. Il che significa che è una classe parassitaria al cento per cento: prende, ma senza dare alcunché.

E dal punto di vista ideologico, in che cosa questa nuova classe di “tecnici” può considerarsi rivoluzionaria? Lo può, in un duplice senso: direttamente, perché una classe che sovverte l’ordine mondiale e si impadronisce di gran parte della ricchezza, a spese delle altre, è praticamente obbligata a elaborare una ideologia “rivoluzionaria”, e sia pure nel senso più egoistico, ristretto e meschinamente materiale che sia dato immaginare; in questo caso, la ricchezza per la ricchezza, il potere per il potere. In fondo, è un’ideologia anche questa: l’ideologia che meglio esprime la “cultura” di questa tarda modernità, e che, a ben guardare, non fa che portare all’esasperazione e al parossismo degli elementi che già esistevano, anzi, che già erano essenziali all’ideologia moderna, ben prima che si innescassero i grandi processi speculativi del XX e del XXI secolo. E lo può indirettamente, perché molti di questi “tecnici” hanno un background culturale di sinistra, marxista o addirittura libertario; sono figli del ’68 e di quella cultura rivoluzionaria, allora ancor malata di romanticismo. Oggi, guariti dal romanticismo, molti di quei giovani sono gli uomini di potere della new economy (o magari i loro figli, cresciuti in quella mitologia politica): non tanto i proprietari, ripetiamo, quanto gli esperti, i consulenti, gli operatori di borsa, i responsabili del marketing, gli esperti delle tecniche pubblicitarie. Chi riesce a controllare la pubblicità, controlla l’immaginario collettivo; chi controlla l’immaginario collettivo, controlla i meccanismi psicologici, e quindi gli stili di vita, anche finanziari, degli abitanti del pianeta Terra. È da un pezzo, del resto, che gli ex rivoluzionari comunisti si sono convertiti al liberismo più estremo, al capitalismo più speculativo e selvaggio: basta osservare chi guida le politiche della sinistra occidentale, da alcuni decenni a questa parte, e quali sono le sue ricette per uscire dalla crisi; non quelle sbandierate nei comizi e nelle manifestazioni sindacali, beninteso, ma quelle concretamente attuate, allorché quei signori sono portati al governo dalla inconsapevolezza del corpo elettorale, che continua a votarli, non essendosi accorto della loro mutazione genetica. Magari li vota perché, poveretto, gli è stato detto che solo così si potrà fermare il “populismo”, nuova versione dell’intramontabile spauracchio un tempo chiamato “fascismo”: vedi come i partiti della sinistra francese hanno invitato i loro elettori a votare per Macron - l’uomo delle banche! - pur di fermare la Le Pen (e vedi però come molti operai, meno sprovveduti di quel che pensavano i loro referenti politici, hanno fatto il contrario).

Scrive Giulietto Chiesa - uno dei non molti giornalisti di estrazione marxista che siano, al tempo stesso, onesti e indipendenti nelle analisi e nei giudizi, e perciò appunto finito nel mirino della disinformazione politically correct - nel libro Superclan. Chi comanda l’economia mondiale?, scritto in collaborazione con Marcello Villari (Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 23-24):

 

Una nuova classe si aggira per il pianeta. I primi di questa nuova classe, i Ceo statunitensi  [gli amministratori delegati] hanno commesso la più gigantesca truffa mai immaginata ai danni di milioni di risparmiatori americani, violando le leggile leggi e le regole del mercato mentre ne esaltavano le virtù, distorcendone fino all’inverosimile i meccanismi, usando nel più spregiudicato dei modi i sistemi d’informazione  e di comunicazione resi disponibili dalle nuove tecnologie per trarre in inganno i cittadini, utenti inconsapevoli dl sistema mediatico, consumatori indifesi, risparmiatori ciechi.

Ora è evidente che, senza l’ideologia della crescita infinita, del capitalismo ormai liberato per sempre dalle crisi cicliche,  della new economy come nuova Bengodi, non sarebbe stato possibile creare e gonfiare a dismisura le bolle speculative a Wall Street e nelle altre Borse valori, coinvolgendo milioni e milioni di risparmiatori nella più fantastica – in senso proprio e figurato – orgia finanziaria nella storia del capitalismo.

Come avrebbe fatto altrimenti questa nuova classe a convincere tanta gente della “scientificità” delle sue analisi e delle sue previsioni di una crescita senza limiti? E come avrebbe potuto, senza la potenza dei sistemi mediatici,  mantenere la sua credibilità così a lungo,  anche quando il boom speculativo stava rivelando tutte e sue crepe, anche quando le previsioni cominciavano a mostrarsi per quello che erano, costruzioni prive di fondamento? Come avrebbero potuto, analisti e consulenti, vendere impunemente azioni di aziende  fino a un minuto prima dell’annuncio della loro bancarotta, liberandosene in tutta fretta mentre convincevano gli altri ad acquistarle?  Bancarotta certa, ma nota solo a chi l’aveva fraudolentemente procurata. […]

Nel 1995, il sociologo americano Christopher Lasch ha fornito una prima descrizione di questa classe nel suo libro ”La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia. Studiando il decadimento della mitica classe media americana, Lasch parla della nascita di una nuova classe. I suoi mezzi di sussistenza non dipendono tanto dalla proprietà, quanto, in primo luogo, dall’abilità nel trattare le informazioni  e, in secondo luogo, dalla qualificazione professionale, intesa come  capacità di vendere sul mercato le proprie competenze. ”Ciò li distingue dalla vecchia classe proprietaria della fase precedente del capitalismo – scrive Lasch – perché hanno capito che le basi per far crescere il loro potere sono in primo luogo l’istruzione e la formazione. La nuova classe abbraccia una grande varietà di professionisti: agenti di Borsa, banchieri, consulenti, scienziati, medici, giornalisti, editori, pubblicitari, produttori e registi televisivi, cineasti, artisti, scrittorie docenti universitari. Non è necessario che tutti questi professionisti abbiano un punto di vista politico comune, ma certamente hanno un interesse comune: far fuori la classe dirigente dei politici professionali e ridurre il potere della borghesia proprietaria tradizionale”.

Siamo dunque di fronte a una classe, a suo modo rivoluzionaria, che ha approfittato delle circostanze per accumulare potere. Con tecniche metaforicamente “bolsceviche” è andata all’attacco dell’establishment precedente usando con spregiudicatezza l’arma antica dell’ideologia e quella moderna della comunicazione. Consapevole del nuovo ruolo dell’informazione nella società, essa l’ha usata ai propri fini con una determinazione e una ferocia Insider trading, falsificazione dei dati di bilancio, con gli immensi profitti correlati, sono serviti a manipolare idee e coscienze. Le relazioni industriali e finanziarie sono state progressivamente trasformate in combattimenti di pugilato senza regole. Le legislazioni vigenti sono state scagliate oltre limiti del campo, a colpi di mazza da baseball.

L’ormai inutile e irriso armamentario del marxismo-leninismo veniva sostituito dal “pensiero unico” e il gioco era fatto. Non è un caso che questa nuova classe sia emersa con decisione nel corso  delle due più grandi bolle speculative del dopoguerra,  quella degli anni ottanta e quella di cui parliamo in questo libro [quella del luglio 2002]. Non è nemmeno un accidente il fatto che, in Italia e altrove, alcuni dei rappresentanti, o dei maggiordomi, di questa nuova classe siamo stati di diretta o mediata provenienza dai movimenti di contestazione esplosi nel ’68 o negli anni successivi. In quel’epoca hanno appreso l’infarinatura necessaria delle tecniche politiche rivoluzionarie (di quelle militari non ne avevano bisogno). In seguito, le avrebbero applicate su un altro terreno e, quel che più conta, cambiando campo.

Per Lasch, l’elemento unificante di questa nuova classe è un atteggiamento laico e analitico,  ma con due potenti additivi: i suoi membri sono affascinati dal mercato capitalistico e sono caratterizzati da un’ossessiva avidità di profitto. Aggiungiamo che la facilità estrema con cui enormi fortune sono state realizzate (praticamente sul nulla, sulla prontezza di riflessi, sulla capacità di cogliere al balzo l’occasione) ha introdotto nella mentalità della nuova classe una variante dell’idea dell’imprenditore costruita sul colpo di fortuna, sul “prendi e scappa”. In altre parole, siamo di fronte a un ceto di intellettuali moderni, una sorta di avanguardia in grado di padroneggiar ei più avanzati mezzi della tecnologia, della scienza e della comunicazione, ma con un unico fine: il proprio potere e il proprio reddito. Non vi è in loro alcuna visione prospettica che vada al di là del benessere e del poter immediato. Sono privi di qualunque progettualità perché nella loro visione del mondo non esistono alternative reali. Per loro, il reale non è soltanto razionale: è l’unico possibile, l’unico immaginabile.

 

Vi ricordate Mickey Rourke in Nove settimane e mezzo? Era un arbitraggista di Wall Sreet, membro di questa new class cinica, amorale e ossessivamente avida di denaro. E vi ricordate come difesero il film, contro i giudizi negativi della critica “borghese”, giornali di sinistra come Il Manifesto? Curioso, non è vero? Ci si sarebbe aspettati che un miserabile speculatore di borsa, uno squallido personaggio che può concedersi un alto tenore di vita, con tutti i relativi vizi e divertimenti, solo perché sa giocare in modo sopraffino con i risparmi della gente comune, sarebbe incappato nel disprezzo dei “compagni” marxisti, che lo avrebbero riconosciuto, con o senza la storia d’amore e di sesso con la bellissima Kim Basinger (ancora il romanticismo!, mio Dio, riusciremo mai a liberarcene?), per quel che realmente è: un parassita sociale della peggiore specie. E invece no! Su questo aspetto del film, cioè sul fatto che i due protagonisti possono sbizzarrirsi nei loro giochi erotici con la sicurezza economica che viene da una più che discutibile attività professionale di lui, silenzio totale. In fondo, è pur sempre una storia d’amore; di un amore che lotta per sopravvivere nello squallore e nell’alienazione della società capitalista, eccetera, eccetera. Ecco: quello fu un segnale; e ce ne sono stati molti altri, non solo nel mondo virtuale del cinema, del teatro, della letteratura o della musica leggera, ma anche in quello, estremamente reale, dell’economia, della politica, della pubblica amministrazione, della cronaca quotidiana. Solo in pochi se ne accorsero, specialmente nel popolo della sinistra: era il segnale di una mutazione genetica in atto. La cosa preoccupante è che perfino oggi, che i giochi si sono fatti così terribilmente chiari, c’è chi non vede, perché si rifiuta di vedere.

Ma la realtà è quella indicata da Christopher Lasch, da Giulietto Chiesa e da alcuni altri (per la par conditio, mettiamoci dentro almeno anche un Alain De Benoist): è in atto una rivoluzione, e la nuova classe rivoluzionaria è proprio quella élite finanziaria mondiale, estremamente ristretta, estremamente cinica e spietata, immensamente avida di potere, che si sta arricchendo in maniera spropositata attraverso l’impoverimento accelerato della restante popolazione umana. Il tutto senza che il grosso dell’opinione pubblica, istupidito dai mass media controllati dall’élite, se ne renda neppure conto…