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Ustica. Storia di un'indagine

di Tatiana Genovese - 09/02/2007




Ustica, 27 giugno 1980: un DC-9 dell’Itavia, partito da Bologna e diretto a Palermo, cade con 80 persone a bordo; nessun superstite. La notizia, posta così, non può dar adito a nessuna ipotesi se non quella che, il 10 gennaio 2007, la Cassazione ha deciso di decretare come l’unica possibile: nessun crimine può aver determinato la caduta del velivolo: l’aereo è precipitato per disgrazia, nessuno a colpa. Un bel calcio alle due ipotesi, quella dell’accusa, che difende i familiari delle vittime, e per cui la caduta è stata determinata da un missile, e quella della difesa per cui c’è stata un’esplosione a bordo.
C’è chi si è ritiene soddisfatto per la decisione della Cassazione in quanto giudica questa sentenza come la fine di una serie di ipotesi di complotto, prive di valore e capziose. Ipotesi che, alcuni, hanno voluto definire non soltanto troppo semplici e superficiali ma anche possibili distrazioni per il procedimento penale, che hanno dato avvio a costose perizie e fallimentari indagini.
Ora il punto è questo. Esiste chi ha operato in prima persona nelle indagini. Chi ha svolto un lavoro di primissimo piano nel collegio peritale, nominato nel 1990 dal giudice istruttore Rosario Priore, nell’ambito del processo Ustica: uno tra questi si chiama Carlo Casarosa, e di mestiere non fa l’affabulatore e tantomeno il dietrologo, bensì il professore di ingegneria aerospaziale presso la riconosciuta università di Pisa.
Carlo Casarosa ha spiegato la sua tesi nel libro “Ustica. Storia di un’indagine”. Un libro che tenta di ripercorrere il difficile cammino dei periti che furono convocati in questa istruttoria, attraverso un diario che riporta con estrema perizia, non soltanto i dati tecnici e gli ostacoli da superare (entrambi numerosi), ma anche e soprattutto sensazioni e sentimenti di chi prese parte a questa lunga e difficile indagine.
Carlo Casarosa ha la sua tesi: “L’incidente poteva essere inserito in uno scenario di operazione di riconoscimento e intercettazione di un velivolo che volava nella scia del DC-9 da parte di altri due velivoli che lo avevano poi inseguito verso la Calabria. Il velivolo intercettato, per sfuggire alla manovra, avrebbe potuto sorpassare il DC-9 virando poi verso la Calabria, lasciando così la scia che avrebbe innescato il fenomeno dell’interferenza. Durante la virata la scia sarebbe stata particolarmente violenta, perché lasciata da velivolo in manovra, forse con elevato valore del fattore di carico. Almeno uno dei velivoli intercettatori avrebbe poi raggiunto il bersaglio, provocandone la caduta sulla Sila. Il DC-9 era stato quindi casualmente coinvolto e, probabilmente, sia i velivoli intercettatori, sia il velivolo intercettato non si erano neppure accorti di aver causato l’incidente. Non era fuori da ogni logica ipotizzare che il velivolo che volava dietro il DC-9 fosse stato il Mig 23, il cui relitto fu ritrovato in seguito proprio sulla Sila”. Il Mig 23 cui accenna Casarosa è un Mig libico, e a proposito di questo velivolo vi sono due aspetti particolari che hanno attirato l’attenzione del professore, inducendolo a ipotizzare questa tesi: il primo riguarda il manuale di volo di questo velivolo, nel quale viene evidenziato che “nei voli in formazione, si deve assolutamente evitare di entrare nella scia del velivolo precedente perché la scia lasciata da questo tipo di velivolo è particolarmente intensa”. L’altro aspetto riguarda “lo stato di tensione che all’epoca esisteva tra alcune potenze occidentali e la Libia”; basti pensare, a tal proposito, che, poco tempo dopo l’incidente di Ustica, si verificò nel cielo della Sirte un episodio simile che provocò la perdita di alcuni Mig 23.
Casarosa, dopo aver esposto quella che, a suo avviso, rappresenta la ricostruzione dell’antefatto che causò l’incidente, precisando che “è frutto di fantasia. Ma questo non autorizza a ritenere che non abbia un fondamento di verità. Le testimonianze sono vere e sono depositate agli atti”, inizia il racconto con la convocazione da parte del professore Paolo Santini a far parte del nuovo collegio peritale. Prosegue l’analisi di tutte le ipotesi; la prima, quella di cedimento strutturale, attribuita a carente manutenzione del velivolo, aveva, da subito, destato un certo scalpore ed aveva portato gran parte dei mass media “a imbastire un linciaggio morale della compagnia ITAVIA che aveva avuto eco anche in Parlamento”, determinando la revoca della concessione alla compagnia. “In questa operazione si erano dimostrati molto attivi i parlamentari ‘di sinistra’, in quanto la compagnia era notoriamente sostenuta dai loro colleghi di ‘destra’.” La seconda, avallata dagli avvocati di parte civile, era nata come uno scoop del giornalista Andrea Purgatori, che, in base a informazioni a lui pervenute, sosteneva che “il DC-9 era stato abbattuto da un missile a guida infrarossa attratto dal calore dei motori del velivolo, lanciato durante un’esercitazione o forse, anche peggio, durante un episodio di battaglia aerea alla quale si ipotizzava che avessero partecipato forze aeree europee, statunitensi e libiche.”.
Nella terza ipotesi si asseriva invece la possibilità di un’esplosione a bordo, probabilmente dovuta ad una bomba, il cui posizionamento era difficile da rintracciare data la scarsità degli elementi recuperati: tronco di coda, tratto centrale della fusoliera, parte dell’ala sinistra, rari frammenti dell’ala destra, i due motori con le relative gondole, il vano bagagli posteriore, ancora pieno di melma e materiali di minori dimensioni (cuscini, borse, valigie e vestiti).
Casarosa spiega che, subito dopo l’incidente, la magistratura aveva nominato una commissione tecnica, la quale, però, non era approdata a nulla di fatto, poiché le autorità politiche, adducendo la scusa dei “costi elevati” non avevano autorizzato il recupero del relitto. Dato che i frammenti disponibili non permettevano la formulazione di un’ipotesi ragionevole, i familiari delle vittime, costituitisi in comitato e sostenuti dai media, avevano richiesto al governo l’apertura del caso, stanziando, a loro spese, i fondi necessari per il recupero del relitto. Venne quindi composta una nuova commissione di esperti che, coadiuvati da una società francese, localizzarono il relitto e procedettero a recuperarne una parte. Dopo qualche anno di lavoro, la suddetta commissione approdò alla tesi dell’abbattimento ad opera di un missile; ma ulteriori e approfondite indagini, richieste dall’autorità giudiziaria, portarono alla divisione della commissione: una parte a sostegno dell’ipotesi del missile e l’altra a sostegno dell’esplosione di una bomba a bordo dell’aereo. Nel frattempo, per “tutelare l’onorabilità della Forza Armata”, si era costituito un Comitato per Ustica, presso ambienti vicini all’Aeronautica Militare.
Questo era ciò che Casarosa, dopo dieci anni dall’accaduto, trovò quando venne istituta un’ulteriore commissione di esperti e lui venne chiamato a farne parte.
Casarosa spiega che il suo primo intento, dopo aver osservato il materiale recuperato e le perizie avviate dai periti precedenti, fu quello di soffermare la sua attenzione sul Mig 23 ritrovato sulla Sila, per il quale c’era una relazione della commissione italo-libica. Secondo quanto riportato su questa relazione il Mig 23, era decollato dal Benin il 18 luglio e doveva servire da bersaglio “per un’esercitazione di routine”, nell’ambito della “missione Nemer”. Casarosa ci mostra come, attraverso sopralluoghi e indagini sui mig, la missione ipotizzata dalla commissione italo-libica era impossibile da affermare in quanto incompatibile con la “quantità del carburante presente nei serbatoi del Mig 23 al decollo” e con i “consumi durante il volo”.
Per quanto attiene al DC-9 le prime analisi di Casarosa e della commissione di esperti si incentrarono sulle schegge nei cuscini dei sedili, la cui presenza era stata addotta dal precedente collegio per convalidare l’ipotesi di un’esplosione a bordo. Il risultato però fu che “in nessuno dei cuscini, dove erano state rinvenute le schegge esistevano tracce di penetrazione”. Per cui, conclude Casarosa, “la presenza di schegge non poteva essere ritenuta come prova di alcun tipo di esplosione, (…) né interna, né esterna per la testa di guerra di missile”.
Mentre proseguivano le “particolarmente osteggiate” indagini sull’FDR del Mig 23 e sull’interpretazione dei dati registrati dall’apparecchio, iniziò la nuova campagna di recupero del DC-9, che portò al ritrovamento di parte della fusoliera, di frammenti della fiancata destra e dell’FDR; alcuni dei quali rintracciati in una zona dove la società francese, che fece i primi recuperi, dichiarò che “tutto ciò che era stato trovato era stato recuperato”.
Il perito prosegue il racconto attraverso le utili scoperte che fece nelle riunioni presso i laboratori del RARDE (dai quali provenivano le prove sulla possibilità di un’esplosione interna) e presso la MBB, dove discusse con Manfred Held degli effetti dei test di guerra sui bersagli e delle caratteristiche dei missili aria-aria operativi nel periodo dell’incidente. Illuminante fu per Casarosa e il suo collegio soprattutto l’ultimo incontro, attraverso il quale pervenne alla conclusione che “Se il DC-9 fosse stato abbattuto da un missile sulla sua struttura si sarebbero dovuti necessariamente osservare i danni prodotti dall’impatto dei frammenti”; essendo tali danni inesistenti, tutto il collegio optò per abbandonare, almeno per il momento, l’ipotesi del missile.
Importante a questo punto è per l’autore mostrare le numerose ricerche sui reperti nei quali erano state trovate tracce di esplosivo tali da avvalorare la tesi dell’esplosione interna. Per quanto riguarda alcuni reperti fu determinato che le tracce di esplosivo derivavano da inquinamenti dei reperti avvenuti dopo l’incidente (probabilmente per il fatto che questi reperti erano stati trasportati senza alcuna precauzione su imbarcazioni che presentavano tracce di esplosivo), invece, per quanto attiene in particolare ad una scheggia, furono effettuati esami chimici specifici dal RARDE. Casarosa ci racconta, proprio a proposito di questo esame, come si sia verificato uno strano evento (non l’unico durante queste indagini): “Dall’Italia era partita una bustina con un frammento e al RARDE era arrivata la stessa bustina con due frammenti. Le tracce di esplosione erano state trovate sul frammeno aggiunto”. Nel frattempo, Casarosa, ritornando alla campagna di recupero, ci racconta come durante una ricerca venne rinvenuto, nel punto prevedibile dell’impatto “un serbatoio di carburante del tipo sganciabile in volo normalmente montato su velivoli militari da combattimento”. Ulteriori indagini individuarono che il serbatoio, costruito da una società americana per la Marina Usa, equipaggiava tutta una serie di velivoli “operativi nell’area mediterranea all’epoca dell’incidente”. Ma oltre a questo ritrovamento, ad avvalorare la tesi del nostro autore si aggiungono le continue analisi dei radaristi, una di particolare interesse, riguarda le tracce al momento dell’incidente del DC-9: “Oltre ai punti che la traiettoria seguita dal DC-9, in direzione da nord a sud, denominati in gergo plot, ne erano presenti alcuni congruenti con la traiettoria di un velivolo o di più velivoli operanti in formazione stretta, rivelati dal radar come un unico plot”. Inoltre venne dimostrato che “inizialmente questa traiettoria si sviluppava parallelamente al DC-9 e alla sua destra, ad una distanza da esso di circa 30 Km, ed era caratterizzata da due plot. Successivamente deviava verso il DC-9, seguendo una rotta da ovest verso est, ed era caratterizzata da un elevato numero di plot. Uno di questi plot si trovava in corrispondenza della posizione occupata dal DC-9 al momento dell’incidente. Al di sotto di questa traccia si era trovato il serbatoio”. Ma, nostante le nuove scoperte, Casarosa, racconta che gli esperti radar del suo collegio non vollero avallare la sua ipotesi, bensì sentenziarono che la presenza di un altro velivolo doveva essere convalidata da ulteriori evidenze e non solo attraverso i plot. Da qui deriva l’amara conclusione del nostro autore, che nonostante frattografi, chimici ed esplosivisti, non erano in grado di trovare segni di evento esplosivo, si rese conto che la posizione dei suoi colleghi, convinti dell’ipotesi dell’esplosione interna “derivava da una sudditanza alle idee di Frank Taylor, tecnico di grande esperienza”, il quale aveva dichiarato che, anche dinnanzi ad una fotografia di un velivolo accanto al DC-9, avrebbe comunque sotenuto l’ipotesi di una bomba a bordo dell’aereo italiano.
Casarosa prosegue con il racconto dei nuovi dati emersi dal recupero di altri frammenti: parte della paratia posteriore, scala posteriore d’accesso, parti della fiancata destra e sinistra, accessori appatenenti alla toilette, alcune scaffalature e una serie di frammenti della parte superiore della fusoliera. Innanzitutto attraverso gli esami del RARDE si scoprì che sul relitto, così come ricostruito, con i nuovi frammenti, non era visibile alcun segno di esplosione (quali segnature da schegge, fusioni di materiali, bruciature di tessuti, tracce di esplosivo, annerimenti da fumo, prove di esposizione dei reperti a fonti di calore): “I tecnici del RARDE riconobbero che i segni da loro evidenziati nelle precedenti indagini non potevano essere ritenuti prova di esplosione nelle zone ipotizzate, nelle quali non vi era traccia dell’evento”. Purtroppo però anche se c’erano tutti gli elementi per mettere in discussione l’ipotesi di esplosione sostenuta sulla base dei nuovi reperti, i sostenitori dell’esplosione giunsero a tutt’altra conclusione, cioè che “l’esplosione doveva allora essere ricercata in altra zona”; e l’autore ci spiega come fu per lui “sconcertante” continuare ad avallare tale ipotesi: “È stato sempre per me un mistero capire da dove traessero la convinzione che a bordo si fosse verificata un’esplosione, nonostante, per loro stessa ammissione, le prove dell’evento da loro addotte non avessero valore”. Casarosa ci informa però che grazie a alcuni segni, dedotti sia dalle caratteristiche di ritrovamento dei frammenti (come nel caso della parte posteriore della fusoliera sovrastate il pavimento), sia dall’esame dal relitto (in particolare per quanto attiene ai due motori e al tronco di coda), si poté ipotizzare che, a differenza di quanto sostenuto in altre perizie, il velivolo non era integro al momento dell’impatto con la superficie del mare, ma aveva subito una destrutturazione in volo. Per cui ora bisognava impegnarsi nel ricercare la causa dell’incidente. Secondo l’autore esistevano delle “informazioni di carattere positivo”, che, se interpretate correttamente, potevano fornire un indirizzo alle indagini per risalire alle cause del disastro: tra queste, l’indicazione che i cedimenti di volo fossero dovuti al superamento dl massimo valore del fattore di carico positivo previsto in sede di progetto; e l’informazione, derivante dall’esame delle caratteristiche di rottura del bordo di attacco della superficie verticale di coda, che indicava come in volo si fossero superati anche i limiti di carico laterale previsti per la superficie. Come ci racconta l’autore, fu proprio dopo aver ricevuto quest’ultima indicazione che decise di effettuare delle prove di simulazione, ponendo il velivolo nelle condizioni di volo di crociera del DC-9, e, simulando il distacco dell’estremità dell’ala sinistra, attraverso l’inserimento dei dati del velivolo danneggiato. Grazie a questa prova giunse alla determinazione che la rottura dell’estremità sinistra dell’ala poteva essere considerata come evento primario, da cui sarebbe derivato il collasso degli altri elementi strutturali. “A questo punto – spiega Casarosa – occorreva individuare l’evento esterno che aveva potuto determinare la rottura”. Importanti a tal proposito furono le indagini dei vari gruppi di radaristi che, seppur in modo differente, giungevano alla conclusione che “la presenza di altri velivoli nel cielo dell’incidente era una possibilità che non poteva essere esclusa”. Ed è proprio dopo aver accettato in via ipotetica la presenza di altri velivoli vicino al DC-9 (denunciata anche da tre testimoni calabresi che videro tre aerei oltre al DC-9, prima dell’incidente), che l’autore racconta come abbia iniziato a prendere in esame l’eventualità dell’interferenza dei vortici o scie vorticose. La scia vorticosa è generata, in corrispondenza di ciascuna estremità alare, dalle forze di sostentamento del velivolo sviluppate dall’ala: “Se un velivolo si trova a passare nelle vicinanze di questa scia, a una distanza generalmente non superiore a qualche metro dal centro dei vortici, le velocità di rotazione al suo interno inducono un flusso d’aria che si somma al flusso d’aria derivante dalla velocità di volo del velivolo stesso, determinandone una variazione di intensità e direzione. L’effetto dominante è comunque la variazione di direzione che, alterando gli angoli di incidenza ai quali opera l’ala del velivolo sottoposto a questa interferenza, causano variazioni di forze portanti che possono essere devastanti”. Fu grazie a questa logica di eventi che Casarosa sviluppò e presentò al suo collegio la sua ipotesi definita di “quasi collisione”. Arrivati a tal punto, le ultime pagine del libro sono dedicate alla scrittura della perizia: la tesi però accreditata dal collegio fu quella dell’esplosione interna, venne però concesso al nostro autore di inserire una “nota aggiuntiva”, sottoscritta però solamente da lui e da Manfred Held. Nella suddetta nota il perito non soltanto spiegò i motivi per i quali non sosteneva l’ipotesi dell’esplosione interna, ma dimostrò anche l’ipotesi da lui avallata, quella della “quasi collisione” (immettendo anche due grafici, uno della distribuzione di portanza sull’ala del DC-9 e un altro sulle caratteristiche di sollecitazione in condizioni di volo normale; grafici che in perizia vennero però riportati con alcuni errori); per accertare la quale però denunciò la necessità di accertare la presenza di altri velivoli nella direzione del DC-9. Purtroppo tale certezza mancava. Altri problemi giunsero quando si dovettero fornire all’autorità giudiziaria dei chiarimenti sui contenuti della perizia. Infatti, oltre al fatto che dallo stesso collegio provenivano due diverse ipotesi in contrasto, ancora doveva essere depositata la perizia da parte civile. Quando anche questa fu consegnata, solamente pochi giorni prima dei termini della chiusura dell’inchiesta, venne depositata anche la seconda perizia radaristica in cui si sosteneva la certezza della presenza sia “di un velivolo che nel cielo della Toscana si era inserito nella scia del DC-9, seguendolo fin al punto dell’incidente”, sia “di uno o due velivoli che, al momento dell’incidente, avevano attraversato la rotta del DC-9”. In base ai nuovi risultati Casarosa produsse delle ulteriori spiegazioni, sia per screditare la tesi di parte civile, sia per avvalorare la sua. Ma di questi documenti, che diedero atto ad accesi dibattiti, fu decretata la nullità in quanto depositati oltre il termine stabilito dal giudice. È indubbio che il nostro autore, dopo gli innumerevoli sforzi fatti per giungere ad una soluzione, sia rimasto particolarmente amareggiato dalle sorti del processo e dal fatto che la sua “nota aggiuntiva” non venne mai presa in considerazione fino in fondo. Va però a Casarosa il merito di aver voluto spiegare e chiarire la sua ipotesi che, come scrive lo stesso autore “pur non avendo il grado di certezza assoluto, risultava comunque tecnicamente corretta, si accordava con le informazioni desumibili dal relitto e con le caratteristiche di ritrovamento de frammenti, spiegava la concatenazione degli eventi avvenuta a bordo del velivolo al momento dell’incidente e si accordava infine con lo scenario esterno”.