Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Andrea Doria sempre leale a Carlo V

Andrea Doria sempre leale a Carlo V

di Paolo Mieli - 12/05/2015

Fonte: Corriere della Sera




Nella storia (in particolare quella della nostra penisola) le alleanze durature che resistono alla sorpresa degli eventi sono talmente rare che quella trentennale tra Andrea Doria e Carlo V è oggetto di meraviglia e di studio. Siamo a tal punto assuefatti al tradimento degli accordi — anche nel giorno per giorno della politica — che l’«eccezione doriana» ci appare come un caso pressoché unico. Ludovico Ariosto, quando, ai primi del Cinquecento, scrisse l’ Orlando Furioso, depositò nel XV canto una considerazione assai particolare nei confronti del principe Andrea Doria (nato a Oneglia nel 1466, morto a Genova, in quella che definiva la sua «patria», nel 1560): «Questo è quel Doria che fa dai pirati/ sicuro il vostro mar per tutti i lati». Avere come alleato Andrea Doria, aveva ben compreso l’Ariosto, significava a quei tempi essere padrone dei mari. Ma non solo. Il poeta (che sarebbe morto nel 1533) aveva dedicato altri versi a descrivere quanto sarebbe stata importante l’alleanza (nata nel 1528 e destinata a durare ininterrotta per trent’anni) tra l’imperatore (dal 1519) Carlo V e il grande navigatore ligure. Ed è sui versi ariosteschi scritti quando quell’alleanza era solo agli inizi che si è soffermata Gabriella Airaldi nell’avvincente biografia Andrea Doria, che sta per essere pubblicata da Salerno.
Ariosto, scrive la Airaldi, individua come Andrea appartenga «a una élite europea che, diversamente dalle altre, non porta in sé solo i caratteri dell’aristocrazia fondiaria, i quali pure — come dimostrano le vicende della casa Doria — restano la radice della sua ragion d’essere». Andrea «appartiene all’aristocrazia consolare che dal Mille è al vertice di un Comune e... combatte per due sistemi politici alternativi ma complementari». Anzi da prima del Mille: la genealogia attesta che i «de Auria» (questo il nome corretto della famiglia, che poi cambierà in «d’Oria» negli annali della Repubblica di Genova citando un documento del 1134) «sono presenti sul palcoscenico della storia più di un secolo prima che nascesse il Comune e cioè fin dal 900, quando Genova, cuore di relazioni internazionali pacifiche e guerresche e città vivace di presenze forestiere, già godeva di riconoscimenti regi». Risale al 1125 il primo segno della potenza della famiglia Doria, che in quell’anno fonda la sua chiesa gentilizia.
La fortuna dei Doria sarà legata a quella dei liguri a Roma dal 1471, quando sarà elevato al soglio pontificio Francesco della Rovere, che prenderà il nome di Sisto IV. Saranno i Papi liguri a dare il via a una grande rivoluzione urbanistica, che cambierà il volto di Roma. Prima il genovese Giovanni Battista Cybo, con il nome di Innocenzo VIII (in carica dal 1484 al 1492), poi Giuliano della Rovere, con il nome Giulio II (1503-1513). Andrea Doria vivrà nella città del Pontefice tra il 1488 e il 1492. Sono anni — questi e quelli che seguiranno — in cui «il nepotismo pontificio, la vendita delle indulgenze e degli uffici provocherà le critiche di Erasmo da Rotterdam e scatenerà Martin Lutero». Ma ora «nello splendore romano si aggirano Mantegna, Pinturicchio, Raffaello, Michelangelo, Benvenuto Cellini».
Andrea «non è un uomo d’affari né uno dei tanti capitani di ventura che girano il mondo con i loro mercenari; è un cavaliere, un “artista della guerra”; risponde perciò in tutto e per tutto all’antico canone europeo». Andrea Doria, prosegue l’autrice, «è uno degli uomini più potenti della sua epoca; come tale deve difendere la sua potenza e conservarne i segni; ma non è ricco; d’altronde lui preferisce la potenza alla ricchezza e recita la sua parte come Carlo recita la propria; per questo il principe (dal 1531 sarà insignito del titolo di principe di Melfi) passa la maggior parte del tempo con le sue armi, sulla sua galera; un mondo particolare, a modo suo solidale, dove però la convivenza obbligata rende la vita grama a tutti».
Nel 1515, Francesco I sale sul trono di Francia. L’anno successivo Andrea è alla guida della spedizione contro i corsari barbareschi voluta dal Papa e da Francesco. Nel gennaio del 1516, a sedici anni, Carlo d’Asburgo diventa re di Spagna. Tre anni dopo, nel giugno del 1519, un consorzio di banchieri, sborsando una cifra astronomica, in quello che è stato definito «il più grande poker politico della storia», gli consente di «superare l’antagonista Francesco I e di assumere su di sé la corona imperiale». Tra i due inizia un grande duello. Carlo V vuole il controllo della penisola italiana. Per conquistarlo ha bisogno di Genova, di Milano e di Roma. Per avere un vantaggio sull’avversario, instaura una politica coerente antiluterana e antiturca. Fa saccheggiare la «francese» Genova. Tenta di spaccare l’asse tra Francesco e Milano. Mette a sacco Roma, nel 1527, per ridurre a ragione l’anti-imperiale Clemente VII (Giulio de’ Medici). Alla fine la sua politica e i suoi eserciti l’avranno vinta; ma ciò non sarebbe avvenuto, sostiene Gabriella Airaldi, «senza l’aiuto del più importante guerriero di mare del tempo, senza le galee e senza i capitali genovesi». È lo spostamento a suo favore di Andrea Doria che decide la partita.
Nel suo Carlo V (Salerno), Alfred Kohler ha scritto che all’epoca «in campo militare Carlo aveva all’inizio poca esperienza». La sua familiarità con le armi si era per lungo tempo «limitata ai tornei». Di fatto, Carlo dovette attendere fino ai 34 anni per sperimentare di persona la guerra, davanti a Tunisi. Fino ad allora era rimasto «un teorico che, guidato dai suoi militari, si occupava di questioni particolari relative alla guerra, come le fortificazioni — un interesse che gli derivava da suo nonno Massimiliano — o il problema dei rifornimenti, soprattutto dopo l’esperienza negativa fatta dal suo esercito in Provenza nel 1524». Nelle questioni militari si affidò da giovane al viceré di Napoli Charles de Lannoy, più tardi a René de Chalon, principe d’Orange e ad Andrea Doria, che risvegliò in lui l’interesse per la guerra navale.
C’è qualcosa di simile nelle vicende di Carlo V e di Andrea Doria, mette in rilievo Gabriella Airaldi sulla scia del fondamentale Carlo V e il suo impero (Einaudi) di Federico Chabod: «Fin dal momento in cui i loro destini si sono incrociati, l’intesa tra i due è stata forte ed è proseguita con un’intensità slegata dalla pura occasionalità». Il loro carteggio è «fitto». L’imperatore e il principe sono due individui che vivono «esperienze estreme». Le loro vite si assomigliano. Tutta la loro esistenza è «tinta dei colori del sangue»; il loro «colloquio con la morte è costante e nessuno dei due la teme». Per Andrea «la solitudine», dice ancora l’Airaldi, «è stata fin dalla gioventù una scelta di vita». Per Carlo «una condizione sine qua non che alla fine ha assunto i contorni di una soluzione esistenziale, quando il suo grande impero ha preso i confini di una piccola casa vicino a un monastero», dove tra il 1556 e il 1558 trascorse i suoi ultimi due anni di vita. Ma «gli spazi sono ristretti anche per il capitano Doria», che all’ultimo trascorre tutto il tempo che gli rimane nel suo bel palazzo. Individui al vertice di situazioni complesse, insiste Airaldi, Carlo e Andrea «sono e restano due uomini soli». La rinuncia a ogni potere terreno, la decisione di vivere con servitù ridotta in una dimora semplice e il testamento politico di Carlo non si possono leggere senza riandare alla stanza in cui Andrea si ritira a pensare «per longo spatio»; alle ultime volontà che il principe detta appena un mese prima della scomparsa dell’imperatore; ai codicilli che le completano; alla genealogia in cui delinea le fondamenta della sua storia familiare; alla cura che, fin dagli anni Quaranta, mette nel predisporre la propria sepoltura nell’antica chiesa gentilizia.
Ma torniamo al 1528, l’anno nel quale Andrea Doria «lascia» Francesco I per unirsi a Carlo V in un rapporto indissolubile che durerà ben tre decenni. Senza l’inaspettato cambiamento della situazione determinato, nel luglio 1528, dal passaggio di Andrea Doria dalla parte di Carlo V, sostiene Kohler, l’Orange non avrebbe probabilmente potuto far fronte al blocco navale imposto fino a quel momento dalle galere del nipote di Doria, Filippino; questi ritirò allora, finalmente, le sue navi. In seguito, la situazione dell’esercito francese davanti a Napoli peggiorò visibilmente e, dopo la morte inaspettata del generale Foix Odet visconte di Lautrec, avvenuta in agosto, i francesi interruppero l’assedio della città. L’allontanamento del Doria dal re di Francia, prosegue Kohler, non avvenne improvvisamente, come perlopiù si afferma, e non era nemmeno motivata esclusivamente dagli attriti con il comando supremo francese per il bottino conquistato in occasione della vittoria navale di Amalfi (28 aprile 1528), ottenuta da Filippino Doria contro la flotta spagnola. Già il 1° luglio di quello stesso 1528, Andrea Doria aveva concordato con l’imperatore una condotta di due anni e quell’accordo venne ratificato il 10 agosto a Madrid.
Nella conquista di Andrea Doria alla causa dell’imperatore svolse probabilmente un ruolo di mediatore il cancelliere di Carlo V, Mercurino Arborio di Gattinara, che nel 1527 aveva soggiornato per un mese a Genova (anche se nell’autobiografia il Gattinara spiegava la propria sosta dicendo di aver avuto un attacco di gotta). La flotta genovese, mette in rilievo Kohler, assicurò all’imperatore per gli anni successivi il controllo del mare in tutto il Mediterraneo occidentale e il sostegno nella lotta contro Chaireddin Barbarossa; Genova poté beneficiare non solo dello scambio di merci fra Italia e Spagna, in particolare del commercio di cereali con la Sicilia, ma ottenne nuovamente l’ancor più importante collegamento con lo spazio economico della Spagna e dei Paesi Bassi e la possibilità di concludere affari finanziari con l’imperatore. In Italia settentrionale la situazione era inizialmente sfavorevole agli imperiali. Il duca Enrico il Giovane di Braunschweig-Wolfenbuettel non riuscì a ottenere con le proprie truppe alcun successo. Da parte francese, invece sotto il comando del Borbone-Vendome Francesco II, conte di Saint-Pol, si presentò un esercito di diecimila soldati che contese ad Antonio de Leyva la Lombardia. In questa situazione fu vantaggioso che, grazie ad Andrea Doria, «il porto di Genova fosse nuovamente aperto all’esercito imperiale, cosa che era di importanza determinante per far giungere in Italia settentrionale i rifornimenti». Progressivamente «migliorarono anche le condizioni per il viaggio in Italia dell’imperatore, anche se la guerra continuava». Punto di forza dell’alleanza tra Carlo V e Andrea Doria, scrive la Airaldi, è che mai l’alleanza di Genova con la Spagna e con l’Impero si sarebbe trasformata in sottomissione». Mai «sarebbe venuto meno il sistema repubblicano su cui essa si basava e di cui si sarebbe gloriata in ogni tempo».
Con il passaggio di Andrea Doria dalla parte dell’imperatore, scrive Kohler, i banchieri genovesi si trovarono al servizio di Carlo: Genova divenne, accanto ad Anversa, la piazza finanziaria più importante dell’impero, e fu lì che Suarez de Figueroa concluse alcune tra le sue più importanti operazioni di credito. Ma — prima ancora dei vantaggi economici — è la personalità di Andrea che segna quell’epoca. «Guerriero di vaglia sulla terra e sul mare», scrive Gabriella Airaldi, «il principe è un uomo colto; ha vissuto nel palazzo paterno di Oneglia, nel castello materno di Dolceacqua, nel quartiere genovese di San Matteo, e fin dalla giovinezza ha soggiornato in molte corti, a Roma, a Urbino, a Parigi, a Madrid». «Amico di principi, cardinali e pontefici, si circonda di intellettuali e artisti; proviene da un milieu le cui origini si perdono nel tempo, un consesso di ammiragli e condottieri, politici, diplomatici, uomini d’affari e uomini di Chiesa che spesso sono anche raffinati intellettuali». La loro influenza gli darà la forza per affrontare numerose congiure. Quella di Cesare Fregoso e degli altri giustiziati nel 1534; quella del prete Valerio Zuccarello, decapitato nel 1539; quella (assai più importante) di Gianluigi Fieschi, stroncata nel 1547. Quest’ultima, con la terribile vendetta che ne seguì, «segna una tappa importante non solo nella storia locale ma anche in quella internazionale». Ciò che accadde, infatti, aprì la via «al definitivo successo spagnolo, ed è forse per questo che la congiura dei Fieschi è una tragedia che, al di là della sua valenza nella storia del principe, si fissò subito nella memoria di tutti diventando fonte di ispirazione per gli intellettuali di ogni tempo, dai contemporanei a Rousseau, a Schiller, al Guerrazzi».
Andrea è uno dei pochi italiani ante litteram che tengono fede alla parola data, alle alleanze stipulate, e ne è compensato con successi talvolta insperati. Vivrà a lungo, più di novant’anni, e vedrà succedersi più generazioni. Avrà 51 anni quando Lutero proporrà le 95 tesi; 63 quando Solimano giungerà sotto le mura di Vienna; 79 quando si aprirà il Concilio di Trento; 93 al momento del trattato di Cateau Cambrésis. «In quasi cent’anni di vita», scrive Airaldi, «il mondo gli è cambiato sotto gli occhi». Parenti e amici sono tutti più giovani e gli è difficile scegliere un successore. «Al suo erede occorre un apprendistato serio e complesso che si può compiere solo con lui... Tra la gente che gli è vicina circolano due nomi importanti, quello di Filippino, che però muore trent’anni prima di lui, e quello di Antonio, più giovane di lui di trent’anni e che morirà diciassette anni dopo di lui, con il quale però le relazioni sono pessime». In altre parole, Andrea Doria non avrà eredi alla sua altezza. E tutto il patrimonio politico che avrà accumulato, dopo la sua morte andrà gradualmente dissolvendosi.
Un ultimo dettaglio: Oneglia, la città dove è nato, resterà nel suo cuore finché vivrà. Il 20 giugno 1538, il principe vi condurrà Carlo V e il papa Paolo III in viaggio da Nizza a Genova. Promuoverà l’istituzione di una gabella «perché vi siano sempre un medico e un maestro di scuola». Nel 1576, sedici anni dopo la sua scomparsa, Oneglia sarà venduta ai Savoia. Segno che l’«eccezione doriana» sparirà con l’uomo che l’aveva impersonata. E i patti torneranno ad essere violati, traditi, ribaltati come da tradizione.
Repubblica 11.5.15
Intervista alla scrittrice Joyce Carol Oates
“Ecco perché io non sarò mai Charlie”
di Antonio Monda


NEW YORK OYCE Carol Oates accetta di intervenire sulla questione del premio a Charlie Hebdo, che ha spaccato il Pen Club in due gruppi di scrittori composti entrambi da autori di alto livello. La Oates non è intervenuta immediatamente nella polemica, e dopo qualche giorno di riflessione ha deciso di manifestare il proprio sostegno a coloro che protestavano per il premio dato al giornale satirico francese vittima dell’attentato terroristico di matrice islamica in cui sono morte 12 persone nel gennaio scorso. La scrittrice non arriva tuttavia invitare al boicottaggio. È appena tornata dalla California, e spiega la sua opinione misurando le parole.
«I media stanno amplificando le polemiche, dando un quadro di lotte intestine che non fa alcun bene al Pen», racconta con amarezza, «è un’istituzione che fa molto, ma molto di più che dare un premio».
Ritiene si tratti di una frattura insanabile?
«No, penso che non sia irreversibile. La mia opinione è che alcuni scrittori abbiano avuto una crisi di coscienza riguardo al possibile razzismo delle vignette di Charlie Hebdo, ritenendo quindi che non si potesse dare un premio ai vignettisti. Penso che ci sia stata poca chiarezza sulla motivazione del premio, dato al “coraggio”».
Salman Rushdie ha avuto una posizione durissima nei confronti di chi ha boicottato il premio, definendo costoro “donnicciole”.
«In un primo momento ha reagito in maniera emotiva nei confronti di scrittori amici che non avevano la sua stessa opinione, poi ha cambiato tono. Quello che danneggia il Pen è soprattutto la reazione di alcuni membri nei confronti di altri riguardo alla “libertà di espressione”. E questo per alcuni rappresenta una sorpresa. Io ho sottoscritto la lettera dei sei dissidenti, che hanno agito secondo coscienza, sperando che il Pen rimanga unito, e che questa vicenda non trascenda da un dibattito tra opinioni diverse, cosa che in realtà è stato, al di là dell’emotività delle prime ore».
Teju Cole, che è in prima fila tra i dissidenti, scrisse pochi giorni dopo la strage che, al di là dell’orrore e la pietà, è impossibile solidarizzare con una rivista come Charlie Hebdo senza di fatto appoggiarne il contenuto.
«Io credo che la tradizione americana — o almeno quella che dovrebbe essere la tradizione americana — dice che invece si può».
Allora perché si è schierata con coloro che hanno preso le distanze dal premio?
«Credo che la posizione corretta sia quella di garantire a riviste come Charlie Hebdo il diritto di esprimersi, anche quando hanno posizioni volgari, vigliacche, blasfeme e stupide. Tuttavia, non ero entusiasta riguardo l’idea di premiarla perché ritengo che mandi un segnale sbagliato a chi con capisce quanto libertario sia il Pen. Molta gente pensa che un premio di questo tipo dia autorevolezza anche al contenuto».
Ma la missione del Pen è proprio celebrare coloro che sono vittime a causa della libertà di espressione: lei cosa avrebbe fatto per ricordare l’atrocità del sette gennaio?
«Non ero in quel comitato, ed esito a giudicare perché spesso questi comitati fanno un grande lavoro che non viene celebrato. Capisco la necessità di affrontare l’orrore di quanto avvenuto negli attacchi: forse mi sarei limitata ad una menzione. E nonostante non siano state vittime di un massacro penso ad esempi come Edward Snowden e Chelsea Manning: anche questi sono casi di coraggio ».
Spesso la satira appare solo un mezzo per un attacco politico.
«Ora è diventato un cliché dire “Sono Charlie Hebdo”, senza sapere bene cosa significhi. La satira probabilmente non è mai apolitica, altrimenti quale sarebbe il suo proposito?».
Esiste un limite tra satira e attacco politico?
«Ogni società ha le proprie tradizioni e aspettative. Esiste un senso comune di comportamenti accettati, e tutto il resto è considerato illegale, immorale o tabù. Io sono pronta ad accettare il fatto che il Pen non abbia commesso un brutto errore dando un premio ad una rivista che si è distinta, tra le altre cose, per razzismo: rivendico tuttavia il diritto di non avere certezze ».
Ogni religione ha i propri estremisti, ma i fondamentalisti islamici massacrano e i leader religiosi arrivano alla fatwa.
«Nel passato anche altre religioni hanno avuto atteggiamenti simili: basta pensare all’Inquisizione o alla repressione da parte degli ortodossi di ogni culto nei confronti di chi era considerato eretico. Penso anche ai Puritani che qui nel nuovo mondo perseguitavano donne che consideravano streghe probabilmente solo perché anticonformiste. Tutti costoro si sono distinti per brutalità, ma si tratta appunto del passato. Ovvio che il terrorismo non è limitato al fondamentalismo islamico, ma oggi lo percepiamo come la minaccia più grande. Ma ci sono anche minacce che provengono da altri governi in forme più ellittiche. Aggiungo che nel nostro paese ci sono persone in carcere, che vivono in condizioni terribili nonostante abbiamo commesso crimini non violenti. Mi chiedo se questo sia da considerare una forma di “terrorismo di Stato”. Ovvio che non sto facendo un parallelo, e so bene che i più temibili sono i terroristi islamici: è per questo che sono anche i più seguiti dai media».
Chi ha voluto dare il premio a Charlie Hebdo ha sottolineato la volontà di mandare un segnale al mondo fondamentalista.
«Il Pen non ha nessun membro che proviene da quel mondo. E dubito che i fondamentalisti siano stati sfiorati da quanto dichiarato: perché questa gente dovrebbe occuparsi di un premio? Aggiungo che anche grande parte degli americani è indifferente al Pen, e hanno visto solo di sfuggita quanto è stato scritto nelle ultime due settimane. La nostra ampia cultura è focalizzata sulla politica, lo sport e le celebrità, non sugli scrittori e i loro premi».
La satira deve ferire sempre?
«L’unica satira che conosco bene è quella inglese del Diciottesimo secolo, in particolare quella di Jonathan Swift che era a favore dei deboli irlandesi contro i potenti inglesi. Specie in una Una modesta proposta la sua satira è indignata, morale e immaginata in maniera brillante. Quella sì che è satira, non c’è alcun paragone con le vignette di Charlie Hebdo ».
Repubblica 11.5.15
Cina
La nuova marcia dell’esercito rosso
di Giampaolo Visetti


Nessuna super-potenza ha incrementato il budget militare quanto Pechino Una corsa al riarmo senza precedenti. E in cinque anni l’export bellico cinese ha superato quello di Germania e Francia fermandosi dietro solo a Usa e Russia. Una crescita che spaventa il mondo

PECHINO LA Cina non acquista solo industrie, terra, infrastrutture e debiti stranieri. Per conquistare il mondo ha bisogno di armi e Pechino non lesina gli investimenti. Nessuna super-potenza, negli ultimi tre anni, ha incrementato il budget militare quanto la Cina, impegnata in una corsa al riarmo senza precedenti. Il confronto è uno shock non solo nel Pacifico: costringe a spese di guerra miliardarie Usa, Russia e Giappone, ma pure Francia, Germania, Gran Bretagna e Paesi arabi. La reazione a catena impone shopping bellici record in tutta l’Asia, dal Vietnam alla Corea del Sud, dalle Filippine all’India e all’Australia. Se c’è un mercato globalmente in espansione, oggi è quello degli armamenti e Pechino ne è l’indiscusso protagonista. Due giorni fa, per la prima volta, soldati dell’armata popolare di Pechino hanno sfilato a Mosca sulla piazza Rossa, per ricordare il decisivo «fattore comunista» e il «ruolo asiatico» nella lotta contro il nazismo hitleriano che sconvolse l’Europa del Novecento.
La rinnovata esibizione di forza ha però adesso anche una data e una passerella in Oriente: 3 settembre, piazza Tiananmen. Per celebrare la fine della seconda guerra mondiale, con la vittoria sul Giappone, il presidente Xi Jinping ha invitato nella capitale i capi di Stato e di governo del pianeta, a partire proprio dal russo Vladimir Putin e dal dittatore nordcoreano Kim Jong-un, che in extremis ha disertato la parata russa. Davanti a loro sfileranno, per la prima volta dall’ascesa al potere del “nuovo Mao”, i gioielli segreti del sempre più sofisticato arsenale cinese. L’imbarazzo diplomatico è ogni giorno più evidente. Il presidente americano Barack Obama e il premier giapponese Shinzo Abe, come la cancelliera germanica Angela Merkel e gli altri leader della Ue, si troverebbero a passare in rassegna le armi cinesi al fianco di despoti asiatici e africani, mentre Pechino lancia la volata verso il riarmo atomico del pianeta e nemmeno un mese dopo il ricordo dell’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki, consumato 70 anni fa.
La scelta di festeggiare la fine dei conflitti del Novecento con uno show di missili, droni, sommergibili e carrarmati, invece che con uno spettacolo dedicato alla pace e alla riconciliazione, per gli analisti conferma il nuovo approccio di Pechino alla politica internazionale. Consumata la fase dell’espansione economica e culturale, per Xi Jinping è giunta l’ora di mostrare i muscoli, sia in patria che all’estero. Ai primi di marzo il silenzio sulla corsa alle armi cinese, mantenuto per dieci anni da Hu Jintao, è stato rotto dalla portavoce dell’Assemblea nazionale del popolo, Fu Jing. «La Cina ormai è un grande Paese — ha detto — e ha bisogno di una forza militare capace di proteggere la sua sicurezza nazionale e il suo popolo». Ha aggiunto che la leadership rossa non ha dimenticato la lezione della storia: «Quando siamo rimasti indietro sull’esercito, siamo stati attaccati e invasi ».
Nessuno oggi può permettersi di minacciare la Cina, ma per l’apparato che governa la Città Proibita un arsenale da incubo è necessario anche per conservare il potere e mantenere la stabilità interna. Le purghe “anti-corruzione” di Xi Jinping decimano i generali e decapitano i vertici delle forze armate. A Pechino da mesi si rincorrono voci sul rischio di tentativi di colpo di Stato e sul conto alla rovesciata scattato per l’implosione del comunismo, come in Unione sovietica nel 1989. Ai successori di Mao investire montagne di yuan in armamenti serve, oltre che a spaventare vicini di casa e Occidente, a blandire i militari fedeli e a confermare che l’apparato della sicurezza rimane la spina dorsale dell’autoritarismo post-rivoluzionario.
L’intelligence straniera è convinta che la spesa in armi cinese, rispetto alle cifre ufficiali, ammonti ad oltre il doppio. L’incremento degli stanziamenti giustifica in ogni caso l’allarme. Questa settimana Cina e Russia svolgeranno le loro prime esercitazioni navali congiunte nel Mediterraneo. La Cina lo scorso anno è diventata il primo importatore mondiale di armi e il terzo esportatore. In cinque anni l’export bellico di Pechino è cresciuto del 143%, superando quello di Germania e Francia e fermandosi dietro solo a Usa e Russia. I media di Mosca ieri hanno rivelato che la Cina ha ordinato all’ex Urss il sistema di missili terra-aria S-400, stanziando oltre 3 miliardi di dollari. Le nuove armi anti-aeree possono distruggere qualsiasi bersaglio anche a lungo raggio, dai caccia ai razzi cruise. In Asia l’investimento certifica l’alleanza bellica Cina-Russia, in risposta a quella Usa-Giappone: rivela però in particolare la necessità di tecnologia dell’industria delle armi di Pechino.
Il caso simbolo è quello della prima portaerei atomica, la “Liaoning”, acquistata quattro anni fa dall’Ucraina: terminato il restauro, tecnici e scienziati cinesi sono stati in grado di avviare il varo della seconda, ormai imminente. Il boom delle importazioni di armi è la via scelta dalla Cina per bruciare le tappe nell’accumulo di conoscenza, sia per modernizzare l’Esercito popolare di liberazione che per irrompere nel mercato mondiale dell’export. A confermarlo, anche le cifre ufficiali. Nel 2014 Pechino ha investito in armi 132 miliardi di dollari, che quest’anno saliranno a 148. Sempre nel 2014 l’incremento annuo della spesa bellica è stato del 12,2%, ridotto al 10,1% nel 2015. La crescita del riarmo resta però sempre superiore a quella del Pil, oscillante tra il 7,4 e il 7%. Pechino impegna in armi il 2,2% del prodotto interno lordo: entro dicembre aumenterà di 50 navi la propria flotta costiera, passerà da 66 a 78 sottomarini di profondità, varerà più imbarcazioni e aerei da guerra di ogni altro Paese. Questo sarà il quinto anno consecutivo di incremento a doppia cifra del budget di difesa, impegnato per un terzo negli stipendi dei 2,3 milioni di soldati.
I dirigenti comunisti rispondono all’accusa di «corsa al riarmo atomico» ricordando che, nello sprint, gli Stati Uniti restano per ora irraggiungibili: 585 miliardi di dollari spesi nel 2014, pari al 3,7% del Pil. Il problema è che il confronto con Usa e Russia è storico, mentre il boom bellico dell’Asia minaccia di preparare i conflitti dei prossimi decenni. A metà gennaio Tokyo ha annunciato che quest’anno riserverà al riarmo 36 miliardi di euro, terzo aumento annuo consecutivo nonostante nel Paese sia ancora in vigore la Costituzione pacifista imposta da Washington nel 1945. Se alle spese belliche di Cina, Giappone e Russia (88 miliardi di dollari) si aggiungono quelle di India (48 miliardi), Corea del Sud (34 miliardi) e delle nazioni emergenti del Sudest, si scopre che la regione Asia-Pacifico dopo secoli è già il più micidiale arsenale del pianeta, anche escludendo quello misterioso della Corea del Nord. Lo spostamento del dominio bellico, dall’Occidente all’Oriente, spaventa Europa e America, ma costituisce il primo allarme proprio in Asia.
Da due anni Cina e Giappone sono ogni giorno ad un passo dal conflitto armato per il controllo dell’arcipelago conteso delle Diaoyu-Senkaku e degli spazi aerei rivendicati sia da Tokyo che da Pechino. Xi Jinping non ha avuto problemi ad entrare in rotta di collisione con Vietnam, Cambogia, Filippine, Malesia, Indonesia e Taiwan per il possesso di centinaia di atolli e scogli corallini nel Mar Cinese meridionale. Tra le isole Spratly, Pechino sta alzando una “grande muraglia di sabbia”, costruendo isole artificiali e allungando la barriera corallifera, aprendo porti militari, piste d’atterraggio ed edifici utilizzabili come caserme. Il governo assicura che si tratta di una «bonifica impeccabile che rispecchia la sovranità nazionale», ma le cancellerie straniere temono che la Cina stia in realtà preparando le «condizioni per un nuovo ordine mondiale » e per un «nuovo tipo di relazioni tra grandi potenze». I servizi Usa, dopo le critiche di Barack Obama al riarmo di Pechino, parlano esplicitamente di «prove di guerra». Per la Cina costituirebbe un esordio assoluto: affari d’oro per i mercanti di morte, l’ultima tragedia per l’umanità.

Archivio