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Il fischio, un segno d'attenzione

di Massimo Fini - 27/04/2025

Il fischio, un segno d'attenzione

Fonte: Massimo Fini

Il fischio è un richiamo. E’ una richiesta di attenzione ma è anche un’attenzione.
Il fischio esiste da tempo immemorabile, da quando gli uomini sono apparsi sulla Terra, ma non solo gli uomini perché alcuni animali, per esempio certi uccelli, fischiano. Come ogni suono, lo ricordava Riccardo Muti, è musica che può essere solista, come nel caso di Elena Somarè, la moglie o ex moglie del mio caro amico Claudio Lazzaro che è una professionista nel genere, o inserita in un’orchestra dove vi ha quindi meno importanza.
Ma qui intendo parlare del fischio popolare, del fischio, diciamo così, operaio. Prima che i ceti popolari fossero espulsi dalla città e cacciati nell’hinterland ad abitare paesi che del paese hanno spesso solo il nome, senza una piazza e nemmeno una chiesa (chiedere a Barbacetto) a Milano tutti quelli che pedalavano fischiettavano per tenersi compagnia. Allora la bici, a Milano, era un mezzo di trasporto popolare anche se, con molto ritardo su Amsterdam (dico in ritardo perché Milano come Amsterdam è una città totalmente piatta, per trovare una salitella, brevissima, bisogna andare ai giardini difronte alla Triennale o al Monte Stella nei pressi di San Siro) non era riconosciuto come tale per cui i ciclisti, almeno fino a quando ho pedalato io, erano le vittime designate. Oggi sono i pedoni ad essere le vittime dei ciclisti che pedalano spesso contromano e persino sui marciapiedi. Le bici sono state superate come pericolo solo dai monopattini che possono raggiungere i 30 chilometri all’ora e oltre.
Quindi nella Milano popolare fischiavano più o meno tutti, non però le donne a cui il fischio era interdetto perché ritenuto troppo maschile. Giovanni Trapattoni, milanese doc (è nato a Cusano Milanino) fischiava con quattro dita, due a ogni angolo della bocca. Ma questa è cosa per artisti, per geni come il nostro mitico allenatore. Oggi i coach, in giacca e cravatta, sembrano dei manager. Del resto allo stesso modo fischiava Gioàn Brera, milanese doc anche se di un hinterland all’epoca ancora popolare.
Il fischio, come dicevo all’inizio, è una richiesta di attenzione ma è anche una forma di attenzione. Il fischio alle ragazze, alle giovani donne, aveva questo senso ma adesso è stato dannato dal ‘MeToo’. Un pomeriggio di qualche giorno fa mi trovavo seduto ai tavolini di un bar in viale Tunisia. Accanto c’erano alcuni giovani operai che stavano sistemando delle tubature. Passò una Tipa pistolatissima, vestita in un modo fatto apposta per farsi notare. Uno dei giovani operai fece un fischio, di ammirazione, e lei lo guardò con quegli occhi gelidi, da medusa, che le ragazze hanno incorporato da sempre quando giudicano un’attenzione fastidiosa. Era solo un fischio, ripeto, in nulla assimilabile a un “comportamento inappropriato”. Quando passò davanti e me le dissi: “Un giorno, signora, rimpiangerà questi fischi”.
Il fischio è legato anche al vento perché il vento fischia (“fischia il vento, urla la bufera”).
Oggi il fischio è scomparso. Resiste ancora come forma di disapprovazione. In particolare allo stadio. Però, per una volta, fanno lodevole eccezione gli americani che utilizzano il fischio in segno di approvazione ad un cantante che se l’è cavata bene senza per questo far parte dello star-system o all’orchestra che l’ha supportato.
Un tempo il fischio era utilizzato sui campi di battaglia per avvertire di un pericolo. Non credo però che oggi sui campi di battaglia si fischi perché il fischio viene di fatto sovrastato, e reso inutile, dal frastuono dei bombardieri, dei droni, della contraerea che emettono anch’essi un suono. Ma è un suono di morte.