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Verdun, la battaglia infinita

di Emilio Gentile - 30/10/2016

Verdun, la battaglia infinita

Fonte: ilsole24ore


Il combattimento è stato trasfigurato come epico ma non fu né decisivo né il più cruento.
I diari di Ernst Jünger, un documento prezioso per una storia antropologica del conflitto
Fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 1916, l’esercito francese, dopo trecento giorni di combattimenti attorno alla città di Verdun, cominciò a riconquistare il terreno che aveva perso in seguito all’offensiva lanciata dall’esercito tedesco il 21 febbraio di quello stesso anno. Fu la battaglia più lunga della Grande Guerra, una successione di offensive senza vincitore, che non aveva «niente di simile a una battaglia vera e propria», perché «lo stesso gioco può ripetersi senza limiti», come scrisse un analista militare francese nell’aprile del 1916, pensando che «non sarà mai possibile mettere la parola fine alla battaglia di Verdun». Per trecento giorni furono usate tutte le armi più moderne e più micidiali, compresi i gas. Morirono 300mila soldati fra tedeschi e francesi. Altrettanto numerosi furono i feriti, i mutilati, i prigionieri. Interi paesi furono rasi al suolo, boschi e colline furono bruciati e cancellati in un paesaggio lunare di crateri scavati da mesi di bombardamenti, fra labirinti di trincee e selve di reticolati.
Nella memoria francese, la battaglia di Verdun è stata monumentalizzata come la grande battaglia della resistenza contro l’invasore. Di fatto, fu l’ultimo grande successo in battaglia conseguito dell’esercito francese, che nelle guerre successive, fino al periodo della decolonizzazione, ebbe solo disfatte.
Un alone leggendario trasfigurò la battaglia di Verdun da «una noiosa guerra di logoramento in un epico scontro tra bene e male». Questo è il giudizio dello storico americano Paul Jankowski nel centenario della Grande Guerra. Seguendo il proposito dello storico francese Jean-Baptiste Duroselle («dal simbolo dobbiamo estrarre la realtà»), egli ha sfrondato la battaglia di Verdun di molti attributi leggendari, in un libro che inserisce l’evento militare nella nuova storiografia antropologica della Grande Guerra.
In realtà, osserva lo storico americano, per i francesi Verdun non fu una battaglia decisiva come quella della Marna, che nel settembre del 1914 aveva arrestato l’avanzata tedesca verso Parigi. Non fu neppure la battaglia più cruenta della Grande Guerra, perché altre battaglie fecero più vittime, come l’avanzata tedesca fra agosto e settembre del 1914. E non fu una battaglia risolutiva per i tedeschi, che dopo trecento giorni di violentissimi combattimenti e centinaia di migliaia di perdite, si ritrovarono al punto di partenza. L’affermazione fatta dopo la guerra dall’artefice dell’offensiva, il generale Erich von Falkenhayn, capo di Stato maggiore tedesco, il quale sostenne che non alla vittoria aveva mirato, ma al “dissanguamento” della Francia, era una patetica giustificazione postuma. Tuttavia, anche per i tedeschi la battaglia di Verdun divenne un simbolo eroico più della battaglia della Somme, che fu altrettanto lunga e sanguinosa, iniziata il 1° luglio del 1916 ed esaurita nel novembre successivo. «Verdun, a differenza della Somme, non produsse alcun Ernst Jünger, l’autore del celebre memoriale di Trincea Nelle tempeste d’acciaio», fa notare Jankowski.
In effetti, Jünger non prese parte alla battaglia di Verdun, ma per una curiosa coincidenza, proprio a Verdun, nell’ottobre del 1913, il diciottenne tedesco, fuggito dalla Germania, si era arruolato nella Legione straniera, e fu subito spedito in Algeria. Solo per l’intervento del padre, con appoggio diplomatico, fu permesso al giovane legionario il ritorno in Germania il 25 dicembre. Lo studente Jünger odiava la scuola e sognava una avventurosa vita da soldato. Così, nell’agosto del 1914, corse ad arruolarsi volontario. Il 6 ottobre 1915 annotava: «Sono entrato nell’esercito un anno fa per vivere delle avventure. (Triste ma vero!)». Al fronte rimase dal 30 dicembre 1914 al 26 agosto 1918, combatté coraggiosamente rischiando più volte la morte; subì sette ferite, alcune delle quali molto gravi, e meritò le più alte onorificenze al valore.
Durante tutta la permanenza al fronte, Jünger scrisse un diario, che divenne il materiale grezzo dal quale, rielaborandolo nel pensiero e nello stile, trasse i libri sulla sua esperienza bellica, che lo hanno reso celebre. Ma i libri nulla tolgono al diario come testimonianza diretta di una singolare partecipazione alla guerra di un giovane, che si sente «soldato anima e corpo»; che dalla guerra è affascinato come esperienza e come spettacolo; che combatte con furore di guerriero, ma senza esaltazione nazionalista, deciso a uccidere il nemico ma senza odiarlo, e anzi rispettandolo; che si espone volontariamente al pericolo indifferente alla morte, perché considera il coraggio «l’unica virtù dell’uomo», e crede che «solo nel rischio è il gusto della vita. O mi arricchirò di un’esperienza impagabile o ci lascerò le penne», scrisse il 25 febbraio 1916, all’inizio della battaglia di Verdun.
Il giovane soldato non ignorava gli orrori della guerra, descritti spesso nel diario con crudo realismo. Detestava i comandanti che conducevano la guerra dalle retrovie, «mentre noi carne da macello del fronte siamo abbastanza in gamba da farci massacrare a colpi di arma da fuoco» (25 luglio 1916). L’anno successivo, anche il guerriero entusiasta era consapevole del proprio «abbrutimento causato dalla guerra» e si domandava: «quando finirà questa guerra di merda» (24 aprile 1917).
La scrittura del diario fu per Jünger un modo per trascendere l’orrore della guerra con uno sforzo di obiettività nel descriverla in tutti i suoi aspetti, soprattutto per ciò che rivela dell’essere umano: «Io non sono un corrispondente di guerra, io non presento nessuna collezione di eroi. Non voglio descrivere come avrebbe potuto essere, ma com’è stata», scriveva nelle ultime annotazioni alla fine della guerra. «L’essere umano è imprevedibile, stando a contatto con lui si deve essere pronti a tutto. Non c’è nulla che non ci si possa aspettare, nulla che non ci sia da temere da lui. Proprio lì dove la sua volontà si potenzia al massimo, in guerra, accanto ai valori più alti si spalancano abissi di brutale meschinità. Là dove un uomo ha raggiunto il livello di perfezione più vicino a Dio, la disinteressata dedizione a un ideale fino all’estremo sacrificio, se ne trova un altro dal corpo ormai freddo a cui frugare avidamente nelle tasche». Nella rielaborazione dei diari in libro, il reduce si proponeva una descrizione obiettiva dell’esperienza bellica. Pur consapevole che la «assoluta obiettività è irraggiungibile», egli riteneva che il «grado di obiettività di una persona dà la misura del suo valore spirituale». Con il suo grado di obiettività, il diario di Jünger è forse il documento più autentico per una storia antropologica della Grande Guerra.
Paul Jankowski, La battaglia di Verdun, il Mulino, Bologna, pagg. 404, € 29;
Ernst Jünger, Diario di guerra 1914-1918, a cura di Helmuth Kiesel, LEG Edizioni, Gorizia, pagg. 642, € 28