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La comunità e il reddito di cittadinanza

di Fabio Falchi - 17/02/2017

Fonte: Fabio Falchi

La questione del reddito di cittadinanza pone molti problemi, ma pare poggiare su un fondamento politico-sociale assai solido.
La storia del Novecento ha insegnato (anche se sono ancora numerosi quelli che non hanno compreso questa lezione, ossia coloro che, per così dire, vogliono le albicocche ma non l'albicocco) che vi sono due forme principali di organizzazione sociale compatibili con l'apparato tecnico-produttivo generatosi a partire dalla rivoluzione industriale.
Vi sono infatti l'organizzazione sociale di tipo liberal-capitalistico, ovvero basata sulla proprietà privata dei principali mezzi di produzione, e quella di tipo statale, basata cioè sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e quindi caratterizzata dall’assenza del mercato capitalistico. Le cooperative o altre forme di socializzazione (più o meno "chimeriche") rientrano o nel primo o nel secondo caso a seconda che vi sia (come in Cina) un mercato capitalistico oppure no (come accadeva) nell'Urss. Difatti, le cooperative o altre forme di "autogestione", se vi è un mercato capitalistico, operano come imprese capitalistiche (e non vi è certo differenza per i lavoratori se le imprese sono dirette da manager pubblici anziché privati). Vi sono, com’è ovvio, anche forme miste (basti pensare all'Italia della seconda metà del Novecento), in cui cioè si combinano forme di proprietà privata e pubblica dei mezzi di produzione, ma l'organizzazione sociale in questi casi è pur sempre basata sul mercato capitalistico (e questo vale anche per la Cina, il cui "socialismo di mercato" è solo una  finzione ideologica necessaria per giustificare il potere assoluto del partito-Stato).
D’altronde, la storia recente (in specie dell'Urss e della Cina) ha anche provato che un'organizzazione sociale basata sul mercato capitalistico è quella più efficiente sotto l’aspetto economico (perlomeno una volta superata la fase della industrializzazione di una società ancora in larga misura basata sul settore primario). E anche la crisi del Welfare State è una realtà con cui fare i conti (come sempre più numerosi europei sanno bene). Invero, ormai è evidente che solo il mercato capitalistico può garantire la “crescita” delle forze produttive, ma al tempo stesso che questa “crescita” implica la distruzione di ogni legame sociale, promuove disoccupazione di massa, diffonde miseria nel “centro” stesso del mondo occidentale e favorisce un’immigrazione massiva e incontrollata (ora il paragone con l’albicocco dovrebbe essere chiaro). Bramosia di possesso e individualismo sfrenato sono così conseguenze inevitabili di quella sorta di capitalismo post-borghese e libidinale che si va affermando ovunque. Problemi che dovranno (anzi devono già in qualche misura) affrontare quei Paesi in cui il mercato capitalistico è il motore dello sviluppo anche se non si possono considerare Paesi liberal-capitalistici.
Sembra quindi che non vi sia alternativa se non quella che consiste nel ridefinire lo stesso Welfare in una prospettiva che per semplicità si potrebbe denominare di tipo comunitarista, anche per il fatto che quest’ultima sembra consentire di non “incagliarsi” nella dicotomia “crescita versus decrescita”, in quanto, in un certo senso, si pone oltre tale dicotomia (che è pur sempre fondata su schemi concettuali economicistici). In una prospettiva comunitarista, infatti, l’accento non cade sulla bramosia di possesso del singolo individuo (liberismo) né sull’unità produttiva (marxismo) ma sulla comunità.
Va da sé che secondo una concezione comunitarista la comunità è un “intero” sotto ogni profilo (incluso quello economico cioè) e decisivo perciò è il fatto che i cittadini in quanto membri a pieno titolo di una comunità sono “pari” (non si è più o meno cittadini) e che pure i loro bisogni primari (cibo, abitazione, salute, informazione e sicurezza) sono nella sostanza i medesimi. Pertanto, la ricchezza prodotta dalla comunità non può che essere ripartita tra tutti i membri della comunità secondo i loro bisogni e le loro capacità o i loro meriti. Prima però viene il “bisogno” poi il resto (desiderio incluso).
Una tale prospettiva, per ragioni facilmente comprensibili, implica non solo una concezione non economicistica dei legami sociali ma la netta supremazia della funzione politica e pure di quella culturale rispetto a quella economica. In questo contesto la questione del reddito di cittadinanza è chiaramente legata a quella dei diritti e dei doveri che non si possono pensare se non “in relazione a” quella tutela del bene comune cui ogni membro della comunità dovrebbe concorrere,  senza contrapporre il bene individuale a quello della comunità – ovverosia senza contrappore la “salute” della comunità a quella di ciascun membro della comunità.
In quest’ottica, dunque occorrerebbe affrontare la stessa questione del reddito di cittadinanza, secondo cioè una concezione non meramente economicistica ma politica e culturale che mostri come il “mercato” (comunque lo si intenda) non può che incontrare un preciso “limite” allorché è in gioco la “salute” della comunità e dei suoi membri. Vale a dire allorché è in gioco la tutela del bene comune, definito a partire non dalla bramosia di possesso di un “fantomatico” individuo isolato, weltlos (privo di “mondo”), ma dai bisogni reali di individui, che non possono “essere nel mondo” senza al tempo stesso “essere insieme con gli altri” (secondo una molteplicità di relazioni politiche, economiche, sociali e culturali )o, se si preferisce, senza appartenere ad una comunità.