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Antiantifascisti

di Alessio Mannino - 14/07/2017

Antiantifascisti

Fonte: L'intellettuale dissidente

Partiamo dal principio. Qual è l’essenza storica e ideologica del fascismo, la sua origine e il suo nocciolo? La violenza – di strada, paramilitare, organizzata, sistematica, eretta a metodo e ideale, che proveniva dal trauma inedito della Prima Guerra Mondiale, coi reduci delusi e i giovani ribelli all’ordine costituito – con cui una forza politica dittatoriale, ultranazionalista, imperialista, socialisteggiante (più nelle idee che nei fatti) sopraffece e represse chiunque si opponesse al suo cammino. Un’idea e una prassi liberticida, fin dagli inizi. Durante il Regime, chi osava esprimere pubblicamente un’opinione in dissenso contrasto con l’ideologia di Stato finiva, come minimo, sotto osservazione, oppure in carcere o, nei casi più di aperto antifascismo, al confino. Chi non aveva la tessera del partito non lavorava, o poteva incontrare grossi problemi professionali, se non di mera sopravvivenza. Dopo il primo periodo di brutalità squadriste, su tutto e tutti vigilava, occhiuta e capillare, la polizia segreta (Ovra), con la sua tentacolare rete di agenti, informatori e spie. Uno Stato di polizia in piena regola, sia pur senza gli eccessi e la ferocia di quello nazista e stalinista (le condanne inflitte dal Tribunale Speciale furono neanche cinquemila, di cui 42 a morte: sempre tante, sempre troppe, ma imparagonabili ai numeri dei lager e dei gulag).

Il fascismo è stato un fenomeno storico, concluso nel 1945 con la fine della sua ultima metamorfosi, la Repubblica Sociale Italiana, mesto epilogo della parabola mussoliniana. La Costituzione della nuova Repubblica fu scritta da antifascisti che avevano patito la galera o l’esilio, e col sangue ancora fresco dei morti dell’una e dell’altra parte, stabilì il divieto di ricostituzione del partito fascista (XII Disposizione Transitoria), che trovò poi applicazione con una legge ordinaria del 1952, la famosa legge Scelba contro l’apologia di fascismo. I costituenti, che erano persone mediamente serie, la definirono appunto “transitoria”, perché ogni fatto della Storia transita, cioè scorre e passa nel flusso degli eventi e dei cambiamenti sociali e culturali. Se all’indomani della Resistenza era comprensibile e giustificabile, già negli anni ’60 e ’70, nonostante la guerriglia politica nelle città, c’era chi, come il socialista Lelio Basso, si interrogava sull’antifascismo di maniera, o chi, come Pasolini, lo considerava una battaglia fuori bersaglio, perché l’oppressione di allora, sosteneva con lungimiranza, era il subdolo capitalismo consumistico ed edonistico. Senza contare l’atteggiamento pragmatico del Partito Comunista di Togliatti, che spinse per un’applicazione morbida della legislazione punitiva, dopo aver promosso l’amnistia per gli ex fascisti (in certi casi invereconda, ad esempio per prefetti torturatori e “gerarchietti” approfittatori).

Oggi, sulla scia della lezione pasoliniana ma prima ancora di banale senso storico, si può tranquillamente dire che un pericolo fascista non c’è e non può esserci. I fatti storici non si ripetono mai, se non, diceva il buon Marx, in forma di farsa (e il titolare del lido Punta Canna a Chioggia lo prova come meglio non si potrebbe: l’immaginario nazifascista ridotto a discorsi confusi e scritte parodistiche, per bagnanti unti e muscolosi che, dice chi c’è stato, lo faceva sembrare più una spiaggia gay friendly che un avamposto dell’eversione nera). Eppure l’antifascismo, che essendo anti
aveva senso quando c’era un fascismo da combattere, emana ancora un potente richiamo. Il motivo è che siamo rimasti orfani di ideologie forti, che con i loro miti, riti e liturgie fornivano una fede religiosa, o anche solo un immaginario totalizzante buono per infondere forza mitologica (i simboli, i personaggi, le storie e le leggende) a quelle quattro idee, rozze e sempliciotte, che ha in testa l’arrabbiato comune. Questo vale sia per i sedicenti neofascisti, sia per gli antifascisti in servizio permanente effettivo. Gli uni si sostengono agli altri, gli uni hanno bisogno degli altri: si perpetua così una lotta fra due movimenti storici che non hanno più nulla a che vedere con i problemi della realtà odierna, se non appunto nel vuoto di grandezza, eroismo, epopea e sentimenti primordiali (la
necessità animale di avere un nemico) in cui la noia post-moderna si impantana. E che in mancanza di sostituti più aggiornati, viene riempito da questi surrogati vecchi di settant’anni.

Ma un antifascista coerente, soprattutto un antifascista che voglia dirsi un vero democratico dovrebbe trovare ripugnante ricorrere alle leggi e al questore per reprimere le opinioni che egli non concepisce. Purtroppo a sinistra si sono dimenticati il sano storicismo marxista, che prevedeva di attualizzare analisi e giudizi secondo l’evolversi della società, non di vivere nella nostalgia, trasformando la memoria in feticcio. E soprattutto non si accorgono che tappare la bocca è esattamente quanto faceva il fascismo. Che almeno, perciò, abbiano la decenza e il coraggio di ammetterlo: “non siamo democratici, la democrazia va bene ma con il limite che decidiamo noi”. E’ il vecchio vizio liberale: già Locke, padre del liberalismo, predicava l’intolleranza verso gli intolleranti. Gli antifascisti a fascismo morto non sono altro che liberali. Ma non sono democratici. La democrazia ha valore solo se permette il conflitto a tutti, ad armi pari, pacificamente. Altrimenti è solo dittatura della maggioranza. E se oggi la maggioranza è antifascista, domani potrebbe essere fascista. E le parti si rovescerebbero, ma a sistema invariato.

La verità è che chi invoca il bavaglio e la censura teme la diversità, il diverso da sé. E’, in fondo, un vile da due soldi, un debole d’intelletto e di volontà, un’anima piccola, gretta, faziosa. Ha paura della libertà, che come ogni cosa ha il suo prezzo: deve valere anche per chi la nega. Altrimenti non è libertà, è arbitrio e legge del più forte. Che può imporsi con la violenza pura, come fecero i fascisti, o con la violenza legale, come vorrebbero oggi gli antifascisti alla Fiano, emanando apposita legge. Ma che sempre sopraffazione rimane.

Ps: un pensiero agli amanti del “citazionismo” che hanno riesumato la frase di Giacomo Matteotti, “il fascismo non è un’opinione, è un crimine”. Detta dal deputato socialista che venne poi assassinato, pronunciata in quel periodo e in quel contesto, con le squadracce che picchiavano e ammazzavano, era un’affermazione con un significato pieno e puntuale. Era, dal suo punto di vista di oppositore, vera al mille per mille. Ma oggi, che conosciamo l’intero sviluppo del fascismo, bollarlo semplicisticamente come criminale è un’idiozia. Criminali allora diventano gli italiani che vi parteciparono e credettero,
cioè una buona parte. Criminali andrebbero considerati individui di una certa levatura che vi aderirono, Pirandello, Mascagni, Ungaretti, Vittorini, Malaparte, Maccari, Montanelli, solo per fare qualche nome. Criminali o frutto di un crimine diventa ciò che Mussolini e i suoi realizzarono in vent’anni, e che durò dopo di loro (si pensi solo all’economia, con l’Iri, le banche pubbliche, la politica agricola). Per tutto il resto, c’è il codice penale vigente. Lasciamo stare la povera salma di Matteotti, ormai sbrindellata a forza di girarla e rigirarla a proprio favore. Lasciamo che i morti seppelliscano i morti, e ricordiamoci del passato solo se serve per capire il presente, non per schiacciarlo sotto il peso dei fantasmi. Quanto a fasci e nazisti dell’Illinois, anziché nascondersi dietro i tribunali, un vero
antifascista dovrebbe imitare i fratelli Blues: sberleffo e via. Una pernacchia ci salverà.