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«Contrordine, compagni!»

di Francesco Lamendola - 18/09/2017

«Contrordine, compagni!»

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

Può darsi che ai giovani d’oggi sfugga completamente il significato ironico e allusivo della espressione: Contrordine, compagni!; che non ne abbiano mai sentito parlare; che non abbiano mai letto un libro di Guareschi, o visto un film della serie di Don Camillo; e che i libri di testo di storia e i professori non abbiamo mai parlato loro della cosa. In tal caso, spieghiamo - e ci perdonino le persone più in età, le quali lo sanno benissimo - che l’espressione Contrordine, compagni!, nasce da un particolare vizietto dell’ideologia marxista, e, più specificamente, della strategia comunista per la conquista e la conservazione del potere: quello di assecondare le circostanze tattiche di volta in volta individuate, con assoluta spregiudicatezza, per non dire con cinismo rivoltante (ma una simile reazione sarebbe parsa moralistica e piccolo-borghese, quindi reazionaria, ai disciplinatissimi quadri comunisti) dalla direzione del Partito, la quale, a sua volta, prendeva ordini direttamene dalla direzione del Comintern, cioè dall’Unione Sovietica, cioè da Iosif Vissarioniovic Džugašvili, detto Stalin. Bisogna sapere, infatti, che il Partito comunista, cioè il Partito per definizione (tutti gli altri essendo solo delle conventicole di servi al servizio del capitale) godeva, agli occhi dei suoi seguaci, di un prestigio, di un’autorevolezza, di un alone d’infallibilità, in tutto e per tutto paragonabili, se non addirittura superiori, a quelli di cui godeva la Chiesa cattolica, nella persona del Papa, agli occhi dei cattolici. Si trattava di una fede assoluta, cieca, a prova di qualunque smentita, tale era stata l’opera d’indottrinamento, diciamo pure di lavaggio del cervello, che i “compagni” subivano allorché si accostavano al Partito, e ne subivano il fascino e il magnetismo. Ora, il Partito sapeva sempre quel ch’era giusto, anche, se del caso, a dispetto delle apparenze, del buon senso e della più cristallina evidenza; e, al di sopra del Partito, sapeva tutto specialmente Stalin, il padre di tutti i lavoratori del mondo, il quale non faceva preferenze per questo o quel partito (comunista), ma, in un’ottica internazionalista, giudicava sempre ciò ch’era meglio per la Causa. E siccome la Causa, a partire dall’Ottobre 1917, era incarnata dall’Unione Sovietica, ciò che era bene per l’Unione Sovietica, era bene per i lavoratori di tutto il mondo: solo da essa, infatti, avrebbe potuto, un giorno, suonare la diana della rivoluzione mondiale. Fino a quel momento, bisognava costruire e realizzare il socialismo in Unione Sovietica; quando fosse stato abbastanza forte, si sarebbe potuto pensare alla seconda fase, quella della rivoluzione globale, che l’eretico Trotzkij (che per questo era stato condannato) aveva preteso, invece, di anteporre alla dottrina del “socialismo in un solo Paese”. Per i comunisti, il comunismo era una religione e il Partito era la loro chiesa; ci credevano senza ombra di senso critico: tanto che, secondo alcuni storici, si potrebbe considerare il comunismo, nel XIX e nel XX secolo, una eresia del cristianesimo, dal quale, in effetti, ha ricavato, stravolgendole, le sue idee base, e specialmente quella di giustizia.
Così disciplinati, così indottrinati, così irreggimentati, i comunisti di tutto il mondo erano pronti, prontissimi, a credere e a fare, con fede assoluta, e, se se necessario, con sprezzo della propria vita, qualsiasi cosa il Partito avesse detto e ordinato loro: fosse pure l’esatto contrario di ciò che aveva detto  e ordinato fino al giorno prima. L’esempio più celebre di questa ferrea auto-disciplina è dato dal patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 (occhio alla data: una settimana prima della scoppio della Seconda guerra mondiale, che esso preparò e rese possibile), con il quale Stalin e Hitler, improvvisamente, da un giorno all’altro, si accordarono e perfino si allearono, appianando le loro divergenze e stabilendo la spartizione dei Paesi minori posti fra la Germania e l’Unione Sovietica. Naturalmente, i disciplinatissimi comunisti francesi, belgi, italiani, spagnoli, iugoslavi, greci, turchi, messicani, cinesi e di qualunque altro Paese del mondo, accettarono senza batter ciglio la nuova verità: Hitler era un amico, le potenze democratiche erano il nemico numero uno. Cera solo il piccolo dettaglio che solo pochi anni prima, varando la politica di Fronti Popolari, i socialisti e gli altri partiti dell’area democratica e di sinistra erano stati alleati nella crociata contro il fascismo e il nazismo; mentre ora, per forza di cose, essi diventavano, o meglio, tornavano ad essere, quel che erano stati prima: i social-fascisti, i social-traditori, i peggiori nemici della classe operaia e, quindi, del Partito. E tali rimasero fino all’ultimo: fino a quando le armate corazzate di Hitler avanzarono, sferragliando con terribile efficienza, oltre la Linea Maginot, per i comunisti francesi essi non erano il nemico numero uno, perché il nemico numero uno erano e restavano i socialisti e i democratici delle varie sfumature, tutti desiderosi di sabotare la grande alleanza fra Stalin e Hitler e tutti, quindi, nemici mortali della rivoluzione, tutti nemici immeritevoli di grazia, o di tregua, o di pietà: infidi, sleali, subdoli. Inutile dire che, dopo l’attacco tedesco all’Unione Sovietica del 22 giugno 1941, la cosiddetta Operazione Brabarossa, il nemico numero uno, anzi, il nemico mortale, il serpente velenoso che andava assolutamente schiacciato e distrutto, era Hitler; e che Churchill e Roosevelt, i nemici di ieri, gli strumenti del capitale finanziario e gli abietti sfruttatori delle masse lavoratrici, altrettanto bruscamente divennero gli alleati e i compagni di lotta nella santa crociata contro il nazismo e il fascismo - o meglio, contro quella sorta d’ircocervo, quella cosa mai esistita che i “compagni” prontamente battezzarono nazifascismo, per includere nella stessa condanna irrevocabile l’Italia di Mussolini e l’esempio da lei rappresentato.
Ebbene: ci sembra che l’espressione Contrordine, compagni!, si presti benissimo a descrivere quel che è accaduto, e che continua ad accadere, in un diverso ambiente e in un altro ambito storico: quello dei cattolici progressisti, specialmente a partire dal Concilio Vaticano II. E non ci riferiamo solo all’opera da essi svolta all’interno della Chiesa, della quale abbiamo già parlato spesso; ma anche della loro psicologia e del loro comportamento nella vita privata, nella vita di ogni giorno, nel contesto della società profana. L’esempio del matrimonio chiarirà concretamente quel che vogliamo dire. Per un cattolico, il Matrimonio, lettera maiuscola, è un Sacramento, lettera maiuscola: non è soltanto un legame umano, né un rito puramente esteriore – anche se molti, di fatto, lo vivono così – ma un legame profondo, indissolubile, di carattere sia naturale che soprannaturale, contratto fra un uomo e una donna, che si trovano in grazia del Signore e che a Lui si affidano perché dia loro la forza e la serenità per sostenersi a vicenda, nella buona e nella cattiva sorte, mettendo su una famiglia, procreando dei figli e occupandosi della loro crescita e della loro educazione cristiana. Ma il clero neomodernista, passato dalla causa del cattolicesimo a quella del modernismo, non ha fatto nulla perché una tale consapevolezza entrasse in profondità nella mente e nei cuori dei cattolici; ha preferito seguire la corrente, adattarsi alle mutate condizioni della società civile e fare buon viso a cattivo gioco, finendo per auto-convincersi che il gioco non è poi neanche tanto cattivo come poteva sembrare. Per dirla con Nicolas Gomez Davila: Per salvare l’istituzione, il clero moderno ha preferito sbarazzarsi del messaggio. Si è fatta così strada, ed è cresciuta giorno dopo giorno, anche fra i cattolici, l’idea, assolutamente non cattolica, che il matrimonio (lettera minuscola), non che un Sacramento in cui opera la grazia di Dio, è solo un’unione formale fra due esseri umani; e, imbevuti di idee moderne e laiciste sui diritti civili, sulla libertà come principio assoluto, e quindi sul diritto inalienabile di ciascuno a cercare la propria felicità, hanno finito per diventare dapprima possibilisti quanto al divorzio, infine a schierarsi apertamente in suo favore, come si è visto negli anni ’70 del Novecento, in occasione del referendum abrogativo. Il clero non ha potuto fare lo stesso, per ovvie ragioni; in compenso ha scelto la via del silenzio/assenso, cioè ha smesso di parlarne, puramente e semplicemente, così come ha fatto, del resto, anche a proposito dell’approvazione legale dell’aborto volontario. Non c’è da meravigliarsi che, a un ceto punto, e specialmente dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, che le equipara al matrimonio vero e proprio e anzi, per certi aspetti (fiscali), addirittura le agevola, l’idea del matrimonio, specialmente religioso, abbia perso tutto il suo fascino, tutta la sua attrattiva. Perché mai due giovani dovrebbero contrarre un impegno così “gravoso”, per giunta indissolubile, quando è possibile semplicemente convivere, e godere di un trattamento simile di fronte alla legge? Così facendo, essi si tengono sempre aperta la via dello scioglimento della loro unione, se così dovessero decidere. Inutile dire che i progressisti, a suo tempo, e com’è loro costume, hanno sbandierato il caso delle unioni informali che durano da anni e decenni, comprese quelle omosessuali, e hanno domandato: Che cos’hanno di meno queste unioni, nelle quali c’è un lungo e costante amore reciproco, rispetto a quelle riconosciute ufficialmente come matrimoni? È presto detto, che cosa hanno in meno: l’impegno solenne e irrevocabile, davanti a Dio e davanti agli uomini, oltre che davanti alla propria coscienza. Chi non si sposa, ma convive, sa che in qualunque momento, senza scandali e senza bisogno di avvocati, può riprendersi la sua libertà; chi si è sposato davanti all’altare, invece, sa che di quell’uomo o di quella donna, che gli sono stati affidati da Dio come compagni per tuta la vita, dovrà rispondere, e non potrà dire: Sono io forse il suo custode? E ciò, per tacere la questione dei figli: figli che sono stati generati e messi al mondo con l’impegno solenne di proteggerli e averne cura, e che non possono essere sballottati, poi, di qua e di là, dall’uno o dall’altro coniuge, in caso di divorzio, secondo le decisioni di un giudice e di un tribunale, come se fossero dei semplici pacchi postali.
La cosa che più colpisce è vedere come anche numerose persone di una certa età, cresciute, quindi, prima del “diluvio”, prima del Vaticano II, quando la Chiesa teneva ancora fermo su una serie di principi non negoziabili, e diceva, come raccomandato da Gesù Cristo: Sì, sì, e No, no, e non parlava solo di diritti, ma anche di doveri, né lasciava intendere che la misericordia di Dio pone rimedio a qualsiasi peccato, pur di fronte a dei peccatori poco convinti di aver sbagliato, ora si uniformano completamente alla mentalità del mondo, approvano le convivenze dei loro figli, approvano le separazioni e i divorzi e raccomandano ai giovani di evitare qualunque impegno definitivo, per non ipotecare il proprio futuro. Queste persone hanno ricevuto un’educazione cristiana, dei principi cristiani, e, molto probabilmente, degli esempi di vita cristiana: i loro genitori, i nostri nonni, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno tenuto fede all’impegno che avevano preso, hanno tenuto unite le loro famiglie, hanno superato insieme le difficoltà che anch’essi, come chiunque altro, certamente hanno dovuto affrontare; ora, però, essendo cambiato il vento, ed essendo radicalmente mutato l’atteggiamento complessivo della società, si son allineati all’opinione generale, hanno fatto propria la filosofia del mondo, e si son  sbarazzati, senza rimpianti né rimorsi, della loro matrice cristiana, nonché dell’esperienza della loro stessa vita. Dalle persone anziane, ci si aspetterebbe una parola di saggezza, anche, se necessario, in contrasto con la mentalità prevalente nel mondo: che cosa hanno da perdere, rischiando l’impopolarità? Invece, si vedono non di rado dei vecchi che si mettono a dare consigli di disimpegno ai giovani, che li scoraggiano dal contrarre matrimonio, e che non spendono nemmeno una parola sulla sacralità del Matrimonio cristiano (e sul grave peccato che consiste nel romperlo). Un simile atteggiamento lo si vede assumere anche nei confronti dell’omosessualità, compresa quella esibita ed ostentata, nonché della pretesa delle coppie omosessuali di adottare dei bambini, o di procurarseli con la fecondazione eterologa. Ma che strano. Fino a qualche anno fa, nessuno si sognava di fare simili discorsi, tranne qualche attivista dei vari movimenti LGBT e qualche raro intellettuale progressista; ora li fanno tutti, compresi molti sedicenti cattolici e perfino alcuni membri del clero, s’intende col sostegno quasi unanime dei mass media e del mondo politicamente corretto. D’improvviso, tutti sono stati folgorati sulla via di Damasco della presunta liberazione omosessuale. Cosa è accaduto, dunque? È come se tacitamente, silenziosamente, capillarmente, fosse stata diffusa la magica formula: Contrordine, compagni!; ed ecco che quanto era sbagliato fino a ieri, oggi è divenuto giusto, bello e buono, perfettamente logico e naturale. Con buona pace della solenne raccomandazione di san Paolo: (Romani, 12, 2): Non conformatevi alla mentalità del mondo! Proprio questo è accaduto: i cristiani si sono conformati alla mentalità del mondo. Che siano cristiani, che siano cattolici, nessuno se ne accorge, né dalle loro parole, né dai loro atti, né dal loro stile di vita. Pensano, agiscono e vivono esattamente come fanno tutti gli altri, sprofondati nella palude fangosa del consumismo, dell’edonismo e del materialismo. Il tramonto del Matrimonio cristiano ne è un indice significativo. I pochi che ancora si sposano in chiesa, non di rado lo fanno pensando più all’abito bianco (ma tanto, lo indossano tutte), ai fiori, alla musica, alla festa e ai regali. Tristissimo, ma vero.
Ora, la grande domanda è questa: come è potuto accadere?  La riposta, purtroppo, non può essere che una: perché non erano dei veri cattolici, ma degli pseudo cattolici, i quali, del cattolicesimo, avevano afferrato solo l’esteriorità, vale a dire niente, e andavano avanti per conformismo e forza d’inerzia. Da un pezzo ormai la nostra società non ha più nulla di cristiano e di cattolico. Perciò, se si vuole ripristinare il Matrimonio in tutta la sua serietà, santità e sacralità, si deve ritornare a Dio…