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Ipocondria di Stato

di Marcello Veneziani - 17/12/2017

Ipocondria di Stato

Fonte: Marcello Veneziani

No, non vi parlerò del biotestamento e della legge che è stata approvata dal Parlamento. Ma vorrei dirvi qualcosa sulla morte e sulla nascita in relazione al nostro Paese. E partire dai simboli più che dagli articoli di legge.

Impressiona pensare che un parlamento alla fine del suo mandato e alle soglie di Natale, si congedi sulla morte.

Nella migliore delle ipotesi diremo che si tratta di un parlamento leopardiano per un paese di vecchi che pensa più alla morte che alla nascita. Non dico se faccia bene o male, mi limito a osservare quest’aria da funerale che ci pervade.

E che è degna conseguenza di un dato statistico che dice: quest’anno ci sono duecentomila morti in più, il saldo vita-morte è sbilanciato a favore di quest’ultima. Fa impressione questo Natale che odora di Mortale. Si fa poco o niente per la nascita, invece si fa qualcosa per la morte.

Non si tratta di essere pessimisti se viste queste premesse, questo scenario e queste scelte, si deduce che siamo in piena decadenza, viviamo alla fine di un mondo e frequentiamo solo Tramonti, per dirla col titolo che un giovane editore ha voluto dare a un mio libro recente.

A ben vedere, il Discorso pubblico del nostro tempo verte sempre più spesso sulla morte: biotestamento, eutanasia, aborti, femminicidi, regimi morti e sepolti, memorie di olocausti, estinzioni di popoli, di specie, di flore e faune. Più contorno di malattie e inserti medici, tanta cronaca nera, festival di omicidi e suicidi, più terrore islamista e morti-spettacolo.

C’è una specie di ipocondria di stato che viene somministrata in grandi dosi mediatiche e istituzionali su un popolo che già di suo è vecchiotto, il più vecchio d’occidente.

Tutto questo si unisce a una convinzione e a una contraddizione.

La convinzione dei nostri giorni

La convinzione emersa in questi giorni, anche in merito al biotestamento, è che siamo padroni della nostra vita e della nostra morte. E dunque possiamo esercitare il diritto dei diritti, quello a toglierci la vita, quando non ci aggrada o non corrisponde ai nostri desideri.

Non ci sorge il sospetto che la vita noi non ce la diamo, la nascita non la decidiamo noi, e il nostro essere al mondo è frutto di una congiura millenaria che passa infine dai nostri genitori.

Se non fummo padroni di nascere perché dovremmo essere padroni di morire? Non rispondiamo a niente e a nessuno, non siamo figli o padri di qualcuno, non abbiamo doveri e compiti oltre che bisogni e desideri? Non vi sfiora il dubbio che se l’entrata non fu disposta da noi ma da qualche misterioso Fattore, la stessa cosa debba accadere anche in uscita?

Magari siamo sovrani (costituzionali, non assoluti) dentro il perimetro della nostra vita, ma non disponiamo delle chiavi per entrare e per uscire dalla vita. Non siamo sconfinati.

… e la contraddizione

La contraddizione che vorrei invece sottolineare è questa: da una parte abbiamo eretto a Valore Assoluto la nostra Vita, rispetto a cui ogni altra cosa, affetto, legame, principio, cade in secondo piano, e ci siamo barricati dentro la nostra sopravvivenza ad ogni costo, pronti a svendere ogni altra cosa che non serva alla nostra vita.

Ma dall’altro, l’elevazione della Vita a valore assoluto ha come controparte la svalutazione della vita nella mercificazione universale.

Cosa voglio dire? Se una vita non funziona, è di peso per gli altri, è un costo per la sanità pubblica, allora si può dismetterla, come di dice per gli ospedali da smantellare per ragioni di bilancio e per le aziende decotte; magari aiutandosi con la propagazione della tanatofilia di Stato, dell’eutanasia psicologica diffusa.

Ho anzi la precisa sensazione che per liberarsi da un famigliare troppo ingombrante o di un letto d’ospedale occupato da troppo tempo, si adottino strategie per affrettare l’uscita d questo mondo.

È un paradosso: tanto più morboso è l’attaccamento alla vita quanto più micidiale è questa idea di risparmiare costi, energie, attenzioni per i cosiddetti rami secchi della società. Il neocapitalismo è una macchina spietata, quando non sei più utile e non puoi più consumare.

A tutti costoro in vista di Natale vorrei donare la poesia di un mio concittadino, Riccardo Monterisi. Ve la traduco in prosa. Racconta di un vecchio che veniva portato da suo figlio in spalla verso l’ospizio dei Cappuccini; la famiglia era numerosa e il cibo non bastava per tutti.

A metà del percorso, davanti a una salita, l’uomo si fermò per riposarsi; e il vecchio ricordò con voce sommessa i corsi e ricorsi impietosi della vita, perché trent’anni prima anche lui aveva portato in spalla il suo vecchio padre all’ospizio e si era fermato per riprendere forza proprio lì. A quel punto il figlio lo riprese in spalla cambiando direzione; il vecchio provò a dire a suo figlio che stava sbagliando, ai Cappuccini s’andava dalla parte opposta. Ma il figlio, con un filo di voce fiera e commossa, gli rispose: si torna a casa e dove possono mangiare sei persone possono mangiare anche sette.

È una poesia che mi fa venire i brividi ogni volta che la leggo, di un’intensità d’amore dolce e struggente. Era una società povera, quella, e i sacrifici costavano più di quelli odierni.

Ma non mancavano atti di umanità, di sacro rispetto per la vita e per i suoi legami, per la vecchiaia e i genitori. E fedeltà, nella buona e nella cattiva sorte.