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Ottorino Respighi: il D'Annunzio del suono

di Luca Leonello Rimbotti - 16/01/2018

Ottorino Respighi: il D'Annunzio del suono

Fonte: Italicum

 

La crisi dell’Occidente era dramma ideologico già all’inizio del Novecento. Già allora si percepiva con chiarezza che il progresso, quel tipo di progresso, condotto sull’onda materialistica del denaro e della fortuna occasionale, avrebbe finito con lo spegnere l’antica virtù europea per l’applicazione, per il tradizionale appartenere delle cose al loro rango, alla loro natura. Parve allora a molti – e dopo Spengler pressoché a tutti – che l’Occidente fosse a rischio di rovina per esaurimento morale, per la morte dell’anima e delle energie vitali. Questo precipizio, oggi spalancato davanti a noi in tutto il suo spaventoso vuoto, era già allora presentito. E fu la cultura che spesso tradì vibrazioni legate alla percezione della rovina. E la ricerca dell’antico, del bello, del sublime, quasi in una fuga onirica dal brutto e dall’informe, divenne poesia, narrazione, suono musicale. La ricerca della tradizione appare non appena la tradizione è avvertita come morta o morente. Ecco che dunque l’Europa produsse tutta una serie di tentativi di ritorno al primordiale. Le avanguardie, letterarie, artistiche, ma anche politiche, furono esattamente questo: la disperata ricerca di una nuova fonte primordiale, alla cui forze rinverginate attingere per la costruzione di un nuovo inizio.
L’affermazione delle ultime energie dello spirito europeo non fu però soltanto dovuta all’esplosione delle avanguardie. Situazioni come quelle futurista, astrattista, costruttivista, surrealista, non furono esclusive di una volontà di vita nuova. Ugualmente tenaci furono i neoclassicismi, i decadentismi, i nuovi romanticismi che il Novecento produsse a raffica, impastandoli di energia e volontà nuova di affermazione dell’eterno. Se vi furono sforzi inefficaci (pensiamo al romanzo borghese, Thomas Mann, Musil, Proust, e ugualmente a quello antiborghese di un Céline), che testimoniarono la crisi europea senza saperla superare, si registrarono anche potenti tentativi di assorbire la modernità privandola dei veleni intossicanti legati alla massificazione materialista. Questo lo si vide ad esempio nella narrazione di un Hamsun, di un Unamuno, di un D’Annunzio, nella musica di un Richard Strauss, di un Respighi, di uno Stravinskij. Ma quest’ultimo fu esemplare di un percorso molto battuto, vivendo il neoclassicismo come volontà di ripresa insufficiente, poiché alla fine si gettò egli stesso nella dodecafonia e quindi nell’accettazione della scomposizione modernista. Direi quasi alla maniera, molto radicalizzata, di un Drieu La Rochelle: cocaina, puttane, metropoli notturna, e, per converso, sogno della rivoluzione aristocratica fascista come nostalgia del bello, del puro, del forte e dell’eterno. Chi tenne duro sul crinale della protezione identitaria, rilanciando la tradizione come esaltante mèta per il futuro, è stato in un primo tempo tacciato di passatismo, ma poi gli è stato riconosciuto uno spessore che sui tempi lunghi l’ha avuta vinta sugli effimeri avanguardismi.
In Italia, un esempio tipico di posizionamento tradizionale con intendimenti di rinnovamento e ripresa del classico è stato Ottorino Respighi, il maggior musicista italiano del Novecento. Proprio su di lui si è accesa in anni recenti una polemica contro quanti – essenzialmente Massimo Mila – avevano fatto del musicista bolognese un “passatista”, un residuato bellico del romanticismo ottocentesco. Le medesime accuse, del resto, vennero lanciate all’omologo tedesco di Respighi, cioè Richard Strauss. È il destino di ciò che è classico. Quello che è eternamente bello dispiace a chi segue le mode, a chi vaga nel mutamento e nell’incostanza.
Abbeveratosi a fonti di piena tradizione come Max Bruch, il direttore d’orchestra e compositore neoromantico di cui seguì le lezioni a Berlino, oppure come Rimskij-Korsakov, il maestro della scuola nazionale russa, con cui ebbe occasione di studiare a San Pietroburgo nei primi anni del Novecento, Respighi sin da giovane si pose lungo una strada diritta e sicura: rilanciare lo stile antico e farne la manifestazione di una modernità di rango, altamente qualitativa. La lezione degli antichi, in questo senso, non era né poteva essere, semplice riproposizione di temi antiquati, ma rivalorizzazione di fonti ispirative immutabili, che sono eternamente giovani e non invecchiano mai, come non invecchia mai l’ideale di bellezza. Direttore del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, si dimise nel 1925 per seguire il suo estro e soprattutto per intraprendere una serie di giri di concerti che lo resero famoso in tutto il mondo. Musicista puro, versato più alla sinfonia, al poema sinfonico piuttosto che al melodramma, in realtà fu vero poligrafo, e la sua caratteristica di trascrivere e reinterpretare opere e arie di antichi maestri – che egli per primo praticò, inaugurando un uso poi largamente seguito anche da altri musicisti – ci denota un suo vigore di filologo e specialmente il suo amore per i talenti della nostra tradizione compositiva.
Notiamo facilmente che l’attenzione di Respighi per la musica italiana dal Cinquecento al Settecento (da Monteverdi a Vivaldi) non fu certo gusto antiquario, ma scelta direi ideologica, nel volersi fare continuatore di uno stile lineare e conseguente, ponendosi come vertice di una maniera, la sonorità all’italiana. Nelle composizioni dedicate alle antiche arie e danze, comprese quelle popolari, ma anche nelle orchestrazioni e nelle trascrizioni di brani di classici come Bach, e pure di moderni come Rachmaninov, Respighi andava preparandosi a quel suo particolare talento di sinfonista, di autore unanimemente amato di poemi sinfonici di grande colorazione, di intensità orchestrale straordinaria, fino ai suoi pezzi più noti e replicati, quale ad esempio la Trilogia romana: Le fontane di Roma, del 1916, e poi I pini di Roma (1924) e Le feste romane (1928). Composizioni nelle quali i critici hanno ravvisato influssi vasti e varii, da Debussy a Stravinskij e a Strauss. E questo anche nel caso della musica lirica, dalla Pentola magica (1920) alla Campana sommersa (1926), dal dramma di Gehrard Hauptmann, fino a Maria Egiziaca e persino alle Quattro liriche sul Poema paradisiaco di D’Annunzio del 1920, composte da Respighi all’epoca in cui il poeta stava vivendo la “ventura” di Fiume. Erano quadri d’ambiente che, insieme a brani sinfonici del tipo della Sinfonia drammatica (1924), Vetrate di chiesa (1926) o Trittico botticelliano (1927), costituirono il fuoco centrale della produzione orchestrale di Respighi, ciò che è stato anche descritto come “pittura sonora”, dandogli persino la definizione di “etnocentrismo sinfonico”, volendo con ciò particolarmente sottolineare la fonte ispiratrice della musica di Respighi, che si incentrava sulla tradizione alta della musica italiana, ma anche sulla tradizione del canto e dell’aria di derivazione popolare: che infatti talora emergono a colorire di virtù sanguigna e paesana le pagine di più denso sinfonismo. Anche se bisogna dire che la vena popolare Respighi la cercò nella tradizione popolare non solo italiana, ma ad esempio anche in quelle armena o russa, e perfino brasiliana, cui si ispirò per altrettante composizioni.
Numero uno della famosa “generazione dell’Ottanta”, cioè dei musicisti nati appunto intorno agli anni ottanta dell’Ottocento (Casella, Respighi, Busoni, Pizzetti, Malipiero), intrisa di valori di “nuova oggettività” modernista, ma non meno di versatile attrazione per la migliore produzione popolaresca, Respighi era già famoso quando il fascismo andò al potere. Meno degli altri, pertanto, si dette a perorare la propria causa presso i nuovi signori del potere. Eppure, l’identificazione tra valori fascisti e musica di Respighi è rimasto un classico della critica, poiché, in effetti, certi raggiungimenti sonori e apparecchiamenti scenici andavano davvero verso un unico intento di valorizzazione dei temi e dei modi della musica italiana, rappresentando gli intenti celebrativi del regime con quelli trionfalistici e “imperiali” di alcuni brani del sinfonismo di Respighi: pensiamo solo ai Pini di Roma. Il musicista bolognese venne dal regime nominato al Santa Cecilia nel 1923, all’Accademia d’Italia nel 1932, fu al centro di iniziative, festival, celebrazioni musicali e ricevette quindi onori ufficiali fino alla morte prematura, avvenuta nel 1936, pochi giorni prima della proclamazione dell’Impero. Occorre dire che la critica storiografica ha osservato che Respighi, contrariamente alla totalità dei musicisti operanti durante il fascismo, fu il meno servile. Ricevette naturalmente gli omaggi e i riconoscimenti, non li dovette sollecitare. Le smaccate manifestazioni di adesione – a parte il caso macroscopico di un Mascagni, che l’iconografia ricorda in fez e camicia nera montare la guardia alla Mostra della Rivoluzione del 1932 – in cui si prodigarono i vari Casella, Pizzetti, Malipiero, furono estranee al maestro bolognese. In proposito, à stato scritto:

Paradossalmente Mussolini vide in lui il meno propenso a servili manifestazioni di devozione, la sintesi ideale della musica fascista (“Apprezzo moltissimo il suo talento sinfonico”, telegrafava a D’Annunzio nel 1930) materializzata in quella ricca tavolozza orchestrale su cui Respighi faceva convivere l’orecchiabilità del classicismo con elementi di modernità mai troppo ‘fastidiosi’ o dirompenti. Catalizzatore e arbitro delle molteplici e multiformi diatribe che animavano l’intellighenzia fascista, Mussolini apprezzava sicuramente in Respighi la naturale estraneità a quelle dispute estetiche, che immancabilmente doveva governare cercando di accontentare tutti. A quello che Fiamma Niccolodi definisce il musicista della sua generazione prediletto da Mussolini il capo non risparmiò riconoscimenti, dall’incarico di consigliere per la musica nella stesura della legge sul diritto d’autore alla nomina a direttore del Conservatorio romano di Santa Cecilia con promozione a funzionario di prima classe, fino all’ingresso all’Accademia d’Italia, “premio di una fortunata e indiscussa carriera” [Stefano Biguzzi, in “L’orchestra del duce”, UTET, 2003].

Ricercatore instancabile, Respighi riportò in auge nella modernità l’architettura del classicismo barocco, compiacendosi di produrre all’antica fantastiche composizioni, che riudendole oggi non sai se siano Rameau o Haydn e invece sono Respighi, come ad esempio Gli uccelli, suite per piccola orchestra del 1928, o i Concerti gregoriani del 1921, in cui la bravura tecnica e la sapienza orchestrale si immergono in una dolcezza senza limiti, in una pulizia trasparente di suoni cristallini, rompendo gli schemi della temporalità e consegnando pezzi di questo genere non a questa o a quell’epoca, ma all’eternità.
Si può dire, in ogni caso, che Respighi, anche quando compone brani di più difficile e articolata struttura (come ad esempio il controverso ma potente Metamorphoseon, serie di variazioni orchestrali composta nel 1930, che sanziona una volta per tutte l’eccellenza di Respighi in campo sinfonico), non fu un archeologo o un antiquario – come scioccamente a volte è stato dipinto, tacciandolo di romantico in ritardo, di “intedescato” fermo alla replica di Strauss – ma fu un geniale e modernissimo autore che, al contrario dei modernisti coatti, forzati a smarrirsi nelle astrattezze dello sperimentale e quindi a scomparire presto o tardi dietro le quinte della storia, ha saputo riprendere in mano la ricchezza passata, trasformandola in luce, colore, impeto, energia di vita moderne ed attualissime, tali da risvegliare nell’uomo di oggi ancora sensibile una voglia eterna di sublime. C’è in Respighi tutta l’anima rivoluzionaria e insieme conservatrice del secolo XX. I suoi quadri sonori sono del livello di un’inquadratura di potenze geometriche alla maniera di Sironi, di una prospettiva architettonica di luce/ombra alla De Chirico, impregnano il nostro immaginario di una potente sintesi di arcaico e di futurista, additano il grandioso, richiamano in vita gli dèi indigeti della vocazione, della sacrale ispirazione del musico archegeta. Dall’eredità di autori di questo rango, come da un D’Annunzio del suono che applichi la magia dell’evocazione, l’uomo europeo oggi derubato della sua identità, si attende la rinascita di uno stile, di una forma, che sappiano riaprire le dimenticate pagine di quel gran libro che è la nostra civiltà.