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Il caso degli studenti a Lucca

di Franco Cardini - 23/04/2018

Il caso degli studenti a Lucca

Fonte: Franco Cardini

 

Quel ch’è accaduto il 19 scorso in una scuola di Lucca è d’una gravità straordinaria, ma purtroppo non è ormai più eccezionale. E’ uno degli esiti di una strada sconsideratamente intrapresa ormai quasi mezzo secolo fa e che costituisce uno degli aspetti più gravi e drammatici della degenerazione del “nostro Occidente democratico”.

  Un ragazzino che reagisce a un’insufficienza aggredendo e minacciando il docente: prima per obbligarlo a cambiare il giudizio registrato, quindi puntandogli il dito contro e intimandogli: “In ginocchio!”. Un comando che esprimeva la volontà di umiliare un insegnante che per età avrebbe potuto essere suo padre e di fargli simbolicamente riconoscere che la sua autorità in classe non esisteva, ch’egli era inferiore ai suoi studenti.

  Non è una bravata. E’ l’inquietante punta di un immenso iceberg: quello della crisi dei fondamenti stessi sui quali la nostra società si regge. Oggi la comunicazione intergenerazionale e le sue regole sembrano interrotte. Molte ne sono le ragioni, e sono state ampiamente discusse. Ma dal canto mio vorrei sottolinearne un solo aspetto: responsabile del quale è la mia generazione e quella che gli ha tenuto dietro – vale a dire quella dell’ampia fascia che comprende gli oggi ottantenni-quarantenni –, la quale ha fallito nell’educazione di quelle che erano state loro affidate adottando nei loro confronti un permissivismo impastato di pseudovalori individualistici e d’ipocrita egoismo.

  Allevare e soprattutto educare dei figli è difficile. Non basta dar loro il necessario: bisogna offrir loro con grande equilibrio e con costante responsabilità il superfluo, insegnando loro a gestirlo correttamente. La società dei profitti e dei costumi, tutta diritti e niente doveri, è venuta meno a tale còmpito: e lo ha fatto non tanto e non solo per “debolezza”, bensì cinicamente, con un calcolo fondato sul più vergognoso delgi egoismi.

  C’era un tempo nel quale gli adulti insegnavano ai bambini le fiabe. E una fiaba è un mythos, un racconto simbolico: il quale, per essere bene inteso, dev’essere spiegato e chiarito da un kerygma, la spiegazione del suo significato etico e metafisico.

  La fiabe sono spesso terribili e paurose: il loro kerygma ne svela il senso e aiuta il bambino a uscire dall’angoscia ch’esse gli hanno procurato, esattamente come la catarsi nella tragedia ellenica.

  Ma da circa mezzo secolo i nostri figli e i nostri nipoti, nell’età più tenera e più bisognosa di appoggio, vengono abbandonati: quando in loro comincia ad albeggiare quel che di lì a poco diverrà il loro “uso della ragione”, sono lasciati soli, parcheggiati magari per lunghe ore – di solito con scarso o senza alcun controllo – davanti alla televisione e, ora, ai vari giochi informatici. I messaggi ch’essi ricevono in quelle sedi sono troppo spesso orribili, svianti, osceni, talvolta demoniaci (in un senso non di rado vicino a quello letterale di tale termine). E non c’è nessun adulto a difendere il bambino da quelle radiazioni malvage, dal fascino nefasto ch’esse irradiano. In tal modo quel che dovrebb’esser visto per venire esorcizzato s’impadronisce invece dell’immaginario, delle coscienze, delle anime dei piccoli.

  Il ragazzo che nel video girato il 19 scorso impone al suo educatore d’inginocchiarsi sceglie coscientemente, per quanto irresponsabilmente, il rovesciamento delle regole e l’inversione dei valori etici ad esse sotteso. E’ preda di un delirio di onnipotenza. Abbiamo guardato lo spettacolo ch’egli ci ha offerto con sgomento, con allarme, con indignazione. Sentimenti legittimi e necessari. Ma, purtroppo, non sufficienti.

  Sono mancate la vergogna e la pietà. Quel ragazzino che ci auguriamo tutti sconterà (anche, anzi soprattutto, nel suo stesso interesse) il crimine commesso – perché di crimine si è trattato – deve insegnarci a vergognarci del nostro fallimento: è stato il nostro egoismo permissivistico a  indurlo ad agire come ha agito; avrebbe avuto diritto a venir immediatamente e rigorosamente guarito dalla sua hybris (che purtroppo non è bestiale, bensì “umana-troppo-umana”), ma nessuno di chi avrebbe avuto il dovere di farlo lo ha fatto. Quel giovanissimo criminale è a sua volta una vittima: di se stesso e di quanti hanno mancato nei suoi confronti. Per fortuna, in questo caso, egli non ha incontrato nessuno che abbia osato difenderlo, magari attaccando con accuse e recriminazioni gli insegnanti: in passato, in molte scuole è successo. Ora, egli, i suoi compagni-complici e le loro famiglie dovranno affrontare le conseguenze disciplinari e quindi quelle penali dell’accaduto. Né mancheranno conseguenze economiche, sia pure indirette. Auguriamoci che almeno lo spauracchio delle spese cui si può andar incontro in casi come questo funzioni da deterrenti per famiglie inclini a giustificare sistematicamente le mancanze dei loro figli a scuola.

  “In ginocchio!”. L’imposizione melodrammatica ha un suo modello e una sua estetica: è una pretesa sadica inconsciamente carica di un potenziale contenuto masochistico d’inaudita efficacia. Abbiamo tutti letto abbastanza Freud per sapere quali abissi di abiezioni, quali voragini d’infamia si nascondano dietro a quel comando. Il modello immediato è evidente e lo conosciamo. Si tratta di una sequenza di Gomorra, nel solco aperto dalle suggestioni archetipiche di Arancia meccanica. Noi “vecchi”, inseriti in una millenaria tradizione, abbiamo imparato a sostenere e a gestire questo richiamo etico-estetico al Male propostoci da Maestri che da Euripide giungono a Shakespeare e a Goethe. Ma quelle difese, quelle chiavi interpretative, non siamo stati capaci di tramandarle. Chiamatela “secolarizzazione”, chiamatela “democrazia”, chiamatela “permissivismo”, chiamatela un po’ come vi pare.

  Ebbene: ormai siamo al paradosso: ma forse – dopo averlo punito come egli merita –  dovremmo davvero inginocchiarci dinanzi a quel ragazzino lucchese. E chiedergli scusa del male che gli abbiamo fatto derubandolo di quanto era suo diritto ricevere e nostro dovere offrirgli.

  Piena giustizia non è stata fatta, quindi. Forse non lo sarà mai. Ascoltiamo la preziosa testimonianza diretta dell’amico e collega Alessandro Bedini, a sua volta insegnante di quel ragazzo. Bedini è uno che, quasi sempre isolato, ha provato a fare sino in fondo il suo dovere. Può giudicare e condannare a testa alta: i suoi colleghi, i suoi ragazzi, i genitori dei suoi ragazzi, lo sanno. Per questo può riferirci serenamente il molto che già è stato fatto, sul piano disciplinare, per cominciar da qui, da ora, da subito a ristabilire un equilibrio perduto e a rimediare ad errori ormai cronicizzati. Che Dio lo e ci aiuti a fare il moltissimo che a questo punto resta da fare. Ammesso – e quanto concesso? – che non sia già troppo tardi. Diciamoglielo tutti insieme, al futuro governo: la crisi della scuola è peggiore di quella politica, di quella economica, di quella diplomatica, di quella della sanità, di quella delle comunicazioni e dei trasporti. E’ la crisi del nostro futuro, che mette in pericolo perfino la nostra stessa sopravvivenza in quanto società civile. Altro che “scuola-impresa”, altro che “presidi-manager”!…