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La morte di Alfie e la nostra coscienza

di David Nieri - 02/05/2018

La morte di Alfie e la nostra coscienza

Fonte: Franco Cardini

 

Alla fine non ce l’ha fatta, il povero Alfie. Si è spento la notte di sabato 28 aprile, a pochi giorni dal suo secondo compleanno. Personalmente, ci ho sperato fino alla fine. Ho sperato che il piccolo continuasse a respirare, quindi a vivere, dopo che la “spina” dei supporti vitali era stata staccata qualche giorno prima. Ho sperato che almeno la Corte europea si pronunciasse a favore del trasferimento al “Bambino Gesù”, dopo che il governo italiano aveva concesso ad Alfie la cittadinanza italiana per consentirgli l’espatrio. Ho sperato infine nel miracolo – noi cattolici, sapete, ci crediamo – che annichilisse giudici e scienziati d’Oltremanica che intendono sentenziare sulla “vita degna di essere vissuta” stabilendone il confine come una questione di diritto, magari ponendosi pure contro il volere dei genitori – per un bambino di meno di due anni, l’unico possibile. Ma in terra d’Albione – quella del dio degli inglesi in cui non credere mai, e infatti io non ci credo – funziona così: se non c’è accordo tra medici e famiglia, la legge prevede l’intervento di un giudice. Nel caso in questione, i medici dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool avevano già dichiarato, lo scorso dicembre, di aver esaurito tutte le opzioni a disposizione per salvare il piccolo, decidendo quindi di sospendere la ventilazione artificiale che lo teneva in vita. Decisione alla quale ovviamente Tom e Kate Evans, i due giovanissimi genitori, si erano opposti, indicando tra le eventualità di cura anche il trasferimento al “Bambino Gesù”. Niente di tutto questo è accaduto. Come nel triste caso di Charlie Gard, la fine della vita di un bambino è stata sentenziata per legge, e a niente sono serviti i ripetuti appelli – anche da parte della Santa Sede – per tentare di salvare il bambino.

Questi sono i fatti. Di opinioni, in verità, ne ho lette tante, forse troppe. E non è questa la sede – non ne avrei i mezzi adeguati – per addentrarsi dentro la selva ormai oscura dei temi etici fondamentali – in questo caso, la vita –, a proposito dei quali la mia, di opinione, procede naturalmente in un’unica direzione. Ci sono però moltissime zone d’ombra, sfumature di grigio che rendono necessari alcuni approfondimenti. La condizione di Alfie, per esempio. Una malattia neurodegenerativa rarissima, definita addirittura “misteriosa”, il cui nome incute timore solo a pronunciarlo: “epilessia mioclonica progressiva”. Non esistono cure per questa patologia, generalmente a esordio infantile, che provoca crisi convulsive in progressivo peggioramento e mioclono, ovvero brevi e involontarie contrazioni di un muscolo o di un gruppo di muscoli. La giustizia inglese, dunque, ha giudicato che la morte del bambino fosse l’unica soluzione possibile, “per il suo bene”. Tante sono le obiezioni a questa decisione, tantissime quelle ovvie, con la scienza che sta compiendo passi da gigante e quindi potrebbe consentire la scoperta di una cura, o quantomeno un rimedio, nell’arco di qualche anno. Perché, dunque, non mantenere “attaccata” la spina nella speranza di una svolta nella ricerca medica? Di malattie neurodegenerative attualmente prive di cura – per le quali esistono solo rimedi per affievolirne e limitarne gli effetti – ce ne sono molte: la sclerosi multipla ne è un esempio, una patologia progressivamente invalidante e imprevedibile nelle sue conseguenze. Applicando il criterio di giudizio “inglese”, fino a che punto e fino a quale grado di gravità, per una persona affetta da sclerosi, si può parlare di “vita degna di essere vissuta”? Chi decide?

Ci stiamo addentrando nella selva, ed è il caso di uscirne subito. Sono temi che toccano le coscienze di ognuno in modo diverso, com’è diverso il metodo con il quale si affrontano, anche nell’ambito di un’opinione condivisa.

Vorrei partire da un dato di fatto. I genitori di Charlie Gard, colpiti da questa nuova “tragedia”, hanno invocato una nuova legge in materia. Ed è qui che si pone la questione più profonda e delicata, riassumibile in un discorso alle Cortes di Juan Donoso Cortés nel lontano 1849: “La causa di tutti i vostri errori, signori, sta nel fatto che voi ignorate la direzione della civiltà e del mondo. Voi credete che la civiltà e il mondo progrediscano, invece sono in regresso. Il mondo cammina a passi rapidissimi verso il dispotismo più totale e assoluto che si sia mai visto”. Una profezia? Certo, il Novecento ha visto l’avvicendarsi del nazismo e del comunismo: ma siamo sicuri di aver visto il peggio?

Il fatto è che il nostro Occidente ha subìto, da vari secoli a questa parte, una scristianizzazione progressiva e inarrestabile. E anche la giurisprudenza – lasciando da parte i totalitarismi del secolo scorso con i loro orrori – si sta assuefacendo alla continua laicizzazione dominante. Noi cristiani, ormai, rappresentiamo un’esigua minoranza, ed è sempre più difficile partecipare attivamente alle questioni che la modernità ci pone innanzi. Tanto che il vivere secondo il principio illuminista etsi Deus non daretur – come se Dio non ci fosse, assioma che il buon Benedetto XVI ha tentato di capovolgere – pare ammaliare anche molti di noi: spesso preferiamo scendere a patti con la modernità per un tornaconto personale, salvo svegliarci per proclamarci tali – cattolici, intendo – quando la risonanza mediatica lo consiglia o addirittura lo impone. Ho pensato questo, durante il fracasso scatenatosi per la vicenda di Alfie. Sia chiaro, ho sempre ritenuto che la battaglia fosse giusta e sacrosanta, con vari “però”. E vi spiego quali.

Durante le giornate frenetiche che hanno segnato le vicende del bambino inglese, sui vari social ho letto tante opinioni, tante illazioni, tante ipotesi – pure di “complotti” –, addirittura sensazionalismo, che non avrei voluto leggere. Un cortocircuito mediatico proveniente dal cosiddetto “mondo cattolico”. Non ho apprezzato, per esempio, le critiche feroci rivolte a papa Francesco per “non essersi esposto abbastanza”, quando pochi giorni prima ha incontrato in Vaticano il papà di Alfie, manifestando assoluta vicinanza e incoraggiandolo a proseguire nella “battaglia”. Non vedo, sinceramente, di quale grave peccato di mancata chiarezza o presa di posizione si sia macchiato Bergoglio, pontefice che di critiche ne sta ricevendo in abbondanza, anche “dall’interno”. E non mi è piaciuta la morbosità, non mi sono piaciute le fiaccolate che considero troppo spesso semplici esibizioni – è un mio peccato: le manifestazioni “pubbliche” mi hanno sempre provocato l’orticaria –, per mostrare unita una “comunità” che ormai si è sfaldata da decenni. Una comunità che di frequente non ha alcun interesse per le ingiustizie che si perpetuano quotidianamente e preferisce rifugiarsi nel quieto vivere, imborghesita e appesantita. Infine, anche all’interno di questa comunità, non mi piacciono gli integralismi del bianco e del nero, che spesso trascendono il necessario e reciproco rispetto.

Mi chiedo spesso dove si trovino indignazione e fiaccolate per altre cause di ingiustizia e disumanità. Mi sono posto la domanda, per esempio, qualche giorno fa, il 24 aprile – tra le altre cose, giornata della memoria del genocidio degli Armeni – quando si è tristemente celebrato l’orribile quinto anniversario del crollo del Rana Plaza a Savar, in Bangladesh, tragedia “annunciata” per la scarsa sicurezza dell’edificio nel quale persero la vita oltre mille persone, compresi alcuni bambini che si trovavano lì insieme alle loro madri lavoratrici. Nessun cenno, nessuna lacrima. Anche quei bambini avevano diritto alla vita: sono stati uccisi nel nome dell’interesse (anche) delle nostre multinazionali che sfruttano la manodopera a poco prezzo per “vestirci” in modo poco expensive, per esempio Benetton o Piazza Italia. Giustizia, nel caso in questione, non è ancora stata fatta. E sono molti, da quelle parti, a lavorare senza alcuna garanzia di sicurezza, accettando loro malgrado di farlo con il rischio, altrimenti, di perdere anche il poco che hanno.

Mi chiedo dove siano indignazione e fiaccolate quando 150 milioni di bambini in tutto il mondo – soprattutto in Asia, nell’Africa Subsahariana, in America Latina, ai Caraibi – vengono sfruttati come manodopera minorile. Sono in molti a perdere la vita in tenera età per gli sforzi disumani cui sono costretti. Anche loro hanno diritto a una “degna” esistenza, a un’istruzione, a godere naturalmente dell’età più bella che la vita possa regalarci.

Mi chiedo altresì dove siano quando 155 milioni di bambini soffrono di malnutrizione cronica (un minore su quattro sotto i 5 anni nel mondo): più della metà si trova in Asia, in particolare in Asia Meridionale (oltre 61 milioni), e il 30 per cento in Africa. Nel terzo millennio, dunque, si muore ancora di fame.

L’elenco sarebbe lunghissimo. Ci preoccupiamo spesso – quasi sempre – dei non nati, e personalmente non ho obiezioni, anzi. Le perplessità sopraggiungono quando si ignorano i nati da poco e i loro diritti. Per molti di essi non esistono megafoni mediatici, social, movimenti o parole. E troppo forte risuona il frastuono del silenzio e dell’indifferenza.

Per noi “cattolici in minoranza” l’unica, possibile missione è contribuire a rendere centro la periferia esistenziale – tutta, senza esclusione alcuna –, accogliendo l’invito di papa Francesco, che queste zone dimenticate le conosce bene. Sempre, non quando il circo mediatico lo impone. Sale della terra, questo ci invita a essere, non una diaspora di integralismi o correnti spesso non comunicanti. Nella consapevolezza che è fin troppo facile – e comodo – essere cattolici della domenica. Lo sapeva bene il vescovo Oscar Romero, che in un’omelia del dicembre 1977 ci ammoniva: “Una religione di messe domenicali, ma di settimane ingiuste, non piace al Signore. Una religione piena di preghiere, ma senza denunciare le ingiustizie, non è cristiana”.