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Depurare mente e cuore dagli inganni del moderno

di Francesco Lamendola - 09/05/2018

Depurare mente e cuore dagli inganni del moderno

Fonte: Accademia nuova Italia

La civiltà moderna ha immerso la nostra mente e il nostro cuore in un labirinto d’inganni, di menzogne, di false apparenze di bene; ci ha persuasi, con una propaganda martellante, che il progresso è la chiave di tutto, non si può tornare indietro ma si deve andare sempre avanti; che il nostro futuro, il nostro destino, la nostra salvezza, dipendono dalla nostra disponibilità ad essere assolutamente moderni (come diceva l’ossesso Rimbaud, che terminò la sua vita vendendo armi e, forse, schiavi in terra d’Africa), e insomma che non vi è alcun Dio fuori del progresso, e nessun orizzonte al di là – o al di qua – del moderno.

La prima cosa da cui dobbiamo liberarci è il condizionamento mentale, anzi, il riflesso condizionato per cui, non appena sentiamo pronunciare, o leggiamo, la parola moderno, subito ci si forma l’acquolina in bocca, perché “sentiamo” di essere in presenza di qualcosa di altamente positivo, di qualcosa che è buono in se stesso. In realtà, l’aggettivo moderno ha almeno due significati: uno storico e uno ideologico. Storicamente, è moderna una cosa rispetto a una cosa che la precede nel tempo: dunque indica, semplicemente, una scansione temporale, una successione dal prima al dopo. In questo senso, anche Virgilio è moderno rispetto a Omero, e Dante è moderno rispetto a Virgilio, e Ariosto è moderno rispetto a Dante. Insomma, quella del moderno non è una categoria dal valore assoluto, ma relativo: si è moderni fino a che si viene superati da qualcuno o da qualcosa che sono più moderni di noi, perché sono venuti dopo di noi. Questo, naturalmente, non significa affatto che i moderni siano migliori, ma semplicemente che sono più recenti. I giovani non sono migliori dei vecchi; hanno meno anni, meno esperienza, anche meno acciacchi, se si vuole: ecco tutto. I giudizi morali, le valutazioni di merito, non hanno niente a che fare con il fatto di essere giovane o di essere vecchio: bisogna vedere, caso per caso, che tipo di persona si ha davanti, indipendentemente dalla sua età. E per il moderno, inteso in senso storico, è la stessa cosa: un edificio, uno scritto, un evento politico, non sono migliori perché più recenti: anche perché, come si è visto, se sono più recenti rispetto a quel che è venuto prima, saranno più vecchio rispetto a quel che verrà. Niente è moderno in assoluto, come nessuno è giovane per sempre. Ideologicamente, la parola moderno ha un secondo significato: esprime, sia pure tacitamente, un giudizio di merito, e più precisamente un giudizio di segno positivo. Così, quando Arthur Rimbaud affermava che si deve essere assolutamente moderni, intendeva fare l’elogio dell’essere moderni, e suggeriva che se non si è moderni, allora si vale di meno, si è incapaci di capire il presente, non si dà un valido contribuito al bene della società (o della cultura, o della poesia, in quel caso specifico).

Di fatto, però, il secondo significato è divenuto assolutamente prevalente, per non dire esclusivo, inglobando in sé e annullando il primo. A causa di ciò, nessuno si sognerebbe di aprire una riflessione sulla legittimità di quel segno “più” che, mentalmente, ciascuno tende a porre accanto alla parola moderno; nessuno si chiede quale sia l’origine dei quel senso di compiacimento e di approvazione che si prova quando si sente dire che una certa cosa è moderna, rispetto a un’altra che non lo è: e questo accade perché, vivendo all’interno della modernità e avendone accettato, acriticamente, sia le premesse e la prospettiva, sia i valori (o disvalori) essenziali, noi tendiamo a identificarci completamente con il suo paradigma culturale e a fare tutt’uno con i suoi elementi costitutivi. Non arriviamo neppure a immaginare che si possa pensare o sentire altrimenti, che si possa vedere la realtà con altri occhi, o, se pure ci si arriva, è solo per sminuire, denigrare, ridicolizzare o criminalizzare gli altri paradigmi culturali, quelli esistiti prima di quello attuale, e grazie ai quali i nostri avi hanno visto il reale con altri occhi, e sentito le cose con un altro cuore, e riflettuto su di esse con un altro modo di usare l’intelligenza. Siamo talmente condizionati e manipolati che non riusciamo neanche a vedere i meccanismi, talvolta sottili, altre volte assai vistosi e grossolani, che ci tengono schiavi e legati al paradigma moderno.

In pratica si verifica una situazione curiosa, paradossale. La civiltà moderna nasce, almeno a parole, come rivendicazione della libertà di pensiero contro l’autoritarismo della tradizione (e ancora continuano a rintronarci gli orecchi, dopo quasi cinque secoli, con la lacrimevole storia del processo di Galilei, una storia largamente taroccata e manipolata); tuttavia, di fatto essa si configura come una vera e propria dittatura del pensiero unico moderno, cioè come una forma particolarmente efficace e capillare di totalitarismo. Per nascondere il trucco ed evitare che le persone si sveglino dall’ipnosi e si facciano qualche domanda scomoda, pertanto, è necessario che alcuni dogmi fondativi della modernità, assurti al livello di una spiegazione mitologica delle origini, siano custoditi e ribaditi nella mente delle persone, fino ad ottenere l’effetto di un riflesso condizionato, come nel caso del cane di Pavlov. Si tratta, cioè, di trasformare gli esseri umani in altrettanti cani di Pavlov, ai quali viene l’acquolina in bocca ogni qualvolta odono squillare il campanello, cioè, fuori di metafora, ogni qualvolta odono pronunciare le parole-mantra, corrispondenti ai miti e ai dogmi della cultura moderna. Per ottenere questo risultato, non basta che il potere intervenga direttamente a reprimere le rarissime voci di dissenso, le quali si permettono di mettere in dubbio la giustezza dei miti delle origini e osano insinuare dei dubbi circa la veridicità e l’inconfutabilità dei dogmi fondativi. Certo, questo è un aspetto necessario, anzi, essenziale, ma non è sufficiente: perché, anche se quelle rarissime voci di dissenso possono essere colpite con sanzioni amministrative (fino al licenziamento) e penali (fino al pagamento di multe e alla prigione) nei confronti dei sovversivi che si macchiano di così orrendi misfatti, l’ideale, per il potere, sarebbe che tali voci non arrivassero nemmeno ad essere udibili, che non si levassero proprio. L’ideale sarebbe il controllo totale delle menti, in modo che nessuno osi nemmeno formulare un pensiero divergente dai dogmi del politicamente corretto, affinché l’ideologia moderna  non venga scalfita neppure in minima misura. Infatti, trattandosi di un misero castello di carte (truccate), il pericolo che il sistema corre quando qualcuno denuncia apertamente l’inganno è veramente troppo grave: l’intero castello potrebbe andare a catafascio. Perciò bisogna evitare di poter giungere a tanto, non basta reprimere dopo che il guaio è già stato fatto; e per prevenire, esiste la disponibilità di una manovalanza quanto mai numerosa, in pratica quasi tutti i cittadini possono e devono essere trasformati in cani da guardia del sistema totalitario. Bisogna che chiunque se ne va per la strada, magari munito di un telefonino, possa, all’occorrenza, registrare quei comportamenti e quei discorsi che criticano e mettono in dubbio i dogmi e i miti della cultura dominante; inutile dire che bisogna fare in modo che quei passanti e quei telefonini lavorino solo a senso unico, cioè che non siano neppure sfiorati dalla tentazione di documentare delle cose che, pur essendo conformi al sistema e perciò gradite al potere, non sono, in se stesse, né vere, né etiche, e pertanto, se venissero diffuse sulla rete, o sui media, potrebbero gettare un’ombra sull’intero castello di carte. Come si può ottenere un risultato del genere? Agendo soprattutto su una classe di persone ambiziose e arroganti, ma pigre, nullafacenti, sostanzialmente parassitarie: basta dar loro la qualifica (che non costa nulla) di “intellettuali” e arruolarli come giornalisti, opinionisti, tuttologi, e porli a capo dei programmi televisivi, delle redazioni dei giornali, invitarli quotidianamente nei salotti televisivi, piazzarli nelle cattedre universitarie, in tutte le posizioni strategiche dalle quali si controlla e si domina la vita associata; senza trascurare, ovviamente, la politica, la pubblica amministrazione, l’economia, la finanza. Ma attenzione: nulla deve sfuggire al sistema, pena la possibilità di un crollo; ed ecco che anche lo spettacolo, la musica, leggera, lo sport, insomma tutto, assolutamente tutto, deve essere presidiato: in ogni luogo devono esserci i fedeli, gli zelanti cani da guardia, incaricati di sorvegliare notte e giorno tutto quel che accade, quel che si dice, quel che si bisbiglia, quel che si scrive, anche e soprattutto in rete; e pronti, soprattutto, a lanciare l’allarme, a far partire la reazione, a criminalizzare chiunque osi anche solo dare l’impressione di poter criticare seriamente il sistema, specialmente se con le armi dell’intelligenza e della verità. E bisogna che questa massa di solerti spioni non si rendano conto, o non più di tanto, di ciò che realmente sono, altrimenti proverebbero schifo di se stessi e, forse, non sarebbero più utilizzabili dal sistema, perché potrebbero essere presi da qualche crisi di coscienza. Ma è un pericolo abbastanza remoto, in verità: perché nella civiltà moderna, che è sostanzialmente una costruzione dell’usura, tutto ha un prezzo, e quindi anche ogni uomo può essere comprato con il denaro. Gli si offre un avanzamento di carriera, un posto più prestigioso; lo si lusinga, lo si invita, lo si applaude, gli si fa credere di essere un grand’uomo, si ascolta con reverente compunzione le perle di saggezza che gli escono continuamente di bocca, et voilà, il gioco è fatto. Aggiungeteci un buon stipendio, specie in questi tempi di crisi del lavoro, e l’opera sarà completa.

Ma per non procedere in maniera teorica, facciamo pure un esempio concreto. Nel caso dell’Italia (ma un discorso simile si potrebbe fare per molti altri Paesi), un esempio potrebbe essere quello della ricorrenza del 25 aprile, la Liberazione. Una festività civile che svolge la funzione di tenere in piedi la mitologia resistenziale e democratica, sulla quale si fonda lo stato di cose attuale, sia in ambito politico che in ambito sociale e culturale. Ebbene, festa della Liberazione (con la maiuscola): ma liberazione da che cosa, e ad opera di chi? Liberazione dal fascismo, si dice: e qui si tira in ballo l’altro piatto forte della mitologia democratica, la Resistenza (sempre con la maiuscola). Insomma, un dogma spiega e sorregge l’altro; peccato che entrambi poggino sul vuoto. La Resistenza, che cos’è? Ma sì: ci hanno spiegato, fin dai banchi di scuola, che si è trattato del momento più glorioso della nostra storia recente: un secondo Risorgimento. Contro chi? Contro il tedesco invasore, e secondariamente contro i suoi manutengoli, i fascisti. Sarà. Tuttavia, a parte le pagine oscure – le foibe, gli eccidi a guerra ormai finita, i “triangoli della morte”, non solo in Emilia – è evidente, lo capirebbe anche un bambino, che si è trattato di una guerra civile: i fratelli hanno ucciso i fratelli, questa orrenda novella vi do, dice Manzoni nel Conte di Carmagnola. Infatti, per sessant’anni è stato impossibile chiamare la cosa con il loro nome: guerra civile; gli italiani si sono autocensurati, gli storici hanno consentito a questo stravolgimento lessicale e concettuale: dicendo “Resistenza”, si evitava di far capire quel che realmente era accaduto. Comunque, entrando nel merito, è stata la Resistenza a “liberare” l’Italia dal fascismo e dal tedesco invasore? Ma quando mai. I partigiani, stragi a parte, stavano all’esercito tedesco, e alle forze armate della Repubblica Sociale, come la zanzare sta all’elefante: solo negli ultimi giorni di guerra, quando il loro numero (guarda caso) si è decuplicato, si son fatti sentire per davvero, cioè mentre gli uni erano in ritirata e gli altri, gli angloamericani, non erano ancora giunti. Già, gli angloamericani; i veri vincitori del conflitto, quelli che realmente hanno sconfitto il “nemico”. Sono stati loro i liberatori, dunque? Dipende. Certo, hanno “liberato” l’Italia a suon di bombe, questo è innegabile, e compiendo ogni sorta di atrocità. Gli aviatori britannici si erano specializzati nel bombardare i centri storici delle città, abitati dalla popolazione inerme; quelli americani, nel mitragliare a bassa quota le colonne di profughi e quanti si facevano sorprendere su terreno scoperto. Poi c’erano le truppe coloniali francesi, specializzate negli stupri di massa. Ma a parte questi dettagli poco edificanti, resta il fatto che gli alleati non possono essere considerati, tecnicamente parlando, dei “liberatori”, per la semplice ragione che non hanno fatto la guerra per abbattere solo il fascismo, ma proprio per abbattere l’Italia come grande potenza e per metterla a terra, in modo tale che non si risollevasse mai più. La prova? Non se ne sono mai andati. L’Italia di oggi  è piena di navi, aerei, testate nucleari americani e N.A.T.O: e che razza di liberatore è uno che non se ne va più dalla casa di colui che dice di aver “liberato”? Naturalmente, solo un bambino potrebbe bersi la favoletta che un esercito straniero venga a fare la guerra per regalare la libertà a un altro popolo (e Manzoni, di nuovo, lo dice: nel coro dell’atto terzo dell’Adelchi). Ma questa favola così improbabile è stata spacciata per moneta buona e sostenuta, senza batter ciglio, da tre generazioni di giornalisti, professori, politici, amministratori pubblici, sindacalisti, intellettuali di vario ordine e grado: ed è stata, se non creduta, per lo meno mandata giù da tre generazioni di italiani, a cominciare dagli studenti, indottrinati fin dalla più tenera età (per esempio, dalla maestra comunista che utilizzava l’ora di musica per far cantare ai bambini Bella ciao). Questa è la prova che, se il totalitarismo culturale viene imposto in maniera efficace, esso riesce a far passare qualsiasi verità di comodo, senza che nessuno ci trovi nulla di strano. E quel che abbiamo detto per il duplice mito della Liberazione e della Resistenza, vale per cento, mille altri casi: non solo in ambito storico, ma anche scientifico, artistico, filosofico, religioso, e perfino sportivo. Se la menzogna è sistematica e se si regge sul sistema di controllo di cui si è detto, con un folto esercito di cani da guardia pronti a farla rispettare, è difficile che qualcuno la veda, la denunci, la metta in discussione. La conclusione è che, per tornare ad essere persone, e non restare al livello, infimo, di “gente”, nel quale siamo sprofondati, cioè individui anonimi, inconsapevoli e insignificanti, dobbiamo riscuoterci dal condizionamento e tornare a pensare con la nostra testa e sentire con il nostro cuore. Hanno falsificato tutto, sotto i nostri occhi; hanno manipolato la realtà come nel film The Truman show: e la maggior parte di noi non lo sa, non se rende conto, non lo immagina neppure e continua a vivere nella più beata inconsapevolezza.

Il capolavoro finale, si fa per dire, della modernità, è la manipolazione e la falsificazione della religione cristiana, e lo stravolgimento della Chiesa cattolica, divenuta strumento di una apostasia generalizzata, così abilmente condotta (sempre si fa per dire) che la maggioranza dei credenti non sembra neppure essersene accorta. Incredibile, ma vero. E così un papa, che non agisce a papa; dei vescovi, che non parlano da vescovi; dei preti, che non si comportano affatto come preti, stanno trascinando il popolo cristiano lontano da Dio: stanno capovolgendo la dottrina, liberalizzando il peccato, promuovendo ogni sorta di eresia, il tutto come se fosse cosa buona e giusta e come se Dio in Persona ne fosse contento. Questa è la bestemmia contro lo Spirito Santo, della quale parlava Gesù Cristo, dicendo che è l’unico peccato che non verrà perdonato. Perché è un peccato veramente diabolico, e chi lo commettere non può sperare alcun perdono: troppo grande, troppo esiziale è il danno che sta recando alle anime dei fedeli.