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Munchhausen, il canto del cigno della nostra civiltà

di Francesco Lamendola - 25/05/2018

Munchhausen, il canto del cigno della nostra civiltà

Fonte: Accademia nuova Italia

 

Anno di grazia 1943: ombre sempre più scure si addensano sull’Europa, stretta nella morsa della Seconda guerra mondiale: i sovietici da oriente, gli angloamericani dal Nordafrica e, l’anno dopo, dall’Inghilterra, si preparano a sferrare il colpo decisivo contro le potenze dell’Asse e i loro alleati minori. Le due battaglie decisive, quella di El Alamein e quella di Stalingrado, si sono già consumate e sono terminate in due grandi vittorie della strana alleanza sovietico-anglosassone: decine di migliaia di soldati tedeschi e italiani sono presi prigionieri, alcuni torneranno a casa dopo quattro, cinque anni, sei anni, e perfino più tardi. La battaglia dell’Atlantico si mette male per i sommergibili tedeschi; le città italiane, e soprattutto quelle tedesche, sono avvolte nel fumo e nelle fiamme di bombardamenti aerei sempre più massicci e sempre più deliberatamente rivolti contro le popolazioni civili. Amburgo è trasformata in un inferno di fuoco dalle bombe al fosforo bianco: interi quartieri sono distrutti e le persone corrono per le vie avvolte dalle fiamme, cercando di buttarsi nell’acqua dei canali; qualche pietoso poliziotto le finisce a colpi di rivoltella. Il 19 luglio anche Roma riceve la sua razione di bombe, nonostante la presenza del Vaticano; in agosto Badoglio la dichiara “città aperta”, ma neppure questo le risparmia altri selvaggi bombardamenti: cinquantuno, per la precisione. A Casablanca, dal 14 al 23 gennaio, si tiene una importante conferenza interalleata, dalla quale esce una sola parola rivolta al Tripartito: resa senza condizioni. Quella che viene presentata come la “liberazione” dell’Europa (così come continua ad essere definita ancora oggi) assume sempre più l’aspetto di una lotta senza quartiere e di una conquista sanguinosa per imporre la supremazia del vincitore e per distruggere completamente i sistemi sociali, politici ed economici dei vinti, per cancellare anche il ricordo di tutto ciò che essi hanno rappresentato per i rispettivi popoli, cultura compresa. È veramente il crepuscolo dell’Europa, un crepuscolo molto più grave di quello del 1918, e dal quale è dubbio che si possa mai riprendere e tornare ad essere se stessa. Sta per divenire, infatti, per metà una colonia sovietica e per metà un satellite degli Stati Uniti, un facile mercato per i suoi prodotti e uno sbocco per i suoi capitali, sempre più avidi di preda. Il dominio sovietico durerà una quarantina d’anni; quello americano continua tuttora e fa sì che la divisione dell’Europa, nonostante la fine della Guerra Fredda, perduri e perfino si aggravi, nonostante la caduta del comunismo e la restaurazione di un governo russo che appare sempre più come il depositario della vera civiltà europea.

Questa è l’atmosfera in cui la cinematografia della vecchia Europa, in mezzo ai lutti e alle macerie, produce uno dei suoi ultimi capolavori di poesia e di bellezza: il film Il barone di Munchhausen (titolo originale: Munchhausen) del regista Josef von Báky, con la sceneggiatura di un bravissimo scrittore per l’infanzia, Erich Kastner (che si firma però con la pseudonimo di Berthold Bürger, dato che i suoi libri avevano avuto grossi problemi col regime nazista, che li aveva fatti bruciare pubblicamente). Tratto dal celebre romanzo di Rudolf Erich Raspe (o, per dir meglio, pubblicato in una edizione inglese, a Londra, da Raspe, nel 1785, sulla base di un manoscritto anonimo), il lungometraggio di 110 minuti viene girato interamente a colori, con pellicole Agfa, per celebrare i venticinque anni della Casa produttrice UFA, fondata nel 1917. L’interprete principale è il popolarissimo cantante e attore Albert Albers, praticamente scomparso dopo il 1945, quando gli americani imporranno quale nuova icona cinematografica la loro candidata, la tedesca “brava”, perché antinazista, Marlen Dietrich, che canterà al seguito dell’esercito di occupazione (anche se la Dietrich se n’era andata dalla Germania non solo e non tanto per ragioni politiche ma per poter praticare in santa pace la sua omosessualità). Accanto ad Albers, nel ruolo di Isabella d’Este, c’è la giovane e bella attrice Ilse Werner, divenuta celebre, tre anni prima, interpretando il film Concerto a richiesta, di Eduard von Borsody, che era stato presentato alla nona Mostra del Cinema di Venezia ed era stato uno dei maggiori successi del cinema tedesco.

C’è una sola maniera di definire il film Munchhausen: è un capolavoro, punto e basta. È un prodigio di bellezza, d’inventiva, di originalità, di fantasia, di finezza, di buon gusto, di sapienza narrativa, di equilibrio fra realtà e sogno, di leggera e sorridente ironia. In breve, è tutto il contrario di ciò che in genere si pensa del carattere tedesco: è il lato solare, fanciullesco, sorridente, quasi ingenuo di questo popolo per altri aspetti così severo con se stesso e con gli altri, e perciò così temuto; di questo popolo che, oggi, è solo l’ombra di quel che era, avendo subito una capillare e sistematica opera di decostruzione della propria identità, a vantaggio di mode e atteggiamenti tipicamente americani, e nel quale è stato coltivato, con perfida metodicità, il sentimento della colpa collettiva, in modo da inchiodarlo per sempre alle sue “responsabilità” nei confronti del passato nazista. Nel Munchhausen possiamo vedere, dalla sceneggiatura alla fotografia, dalla colonna sonora alla recitazione, il lato migliore dell’anima tedesca, ma anche, ci sia permesso dirlo, dell’anima europea: non dell’Europa di oggi, avvilita e imbastardita, ma della vecchia Europa, di quella Europa che nel 1943 stava già agonizzando e che oggi non esiste più, così come non esistono più Breslavia, Königsberg, Fiume, Zara; o meglio, esistono ancora, ma hanno perduto la loro anima. Né questo destino è capitato solo alle città e alle regioni che, al termine della guerra, sono passate di mano e hanno subito una radicale sostituzione etnica, ma a tutte le città e a tutte le regioni, investite, poco a poco, dalla marea dell’americanismo, che ha omologato e appiattito ogni cosa, dall’urbanistica al cinema, dalla moda alla musica leggera, dalla letteratura alla televisione, dal mangiare alla lingua. Siamo diventati tutti americani, chi più, chi meno; abbiamo perso le nostre radici, siamo ormai solo numeri, solo carne da macello sul mercato del lavoro, abbandonati allo strapotere di una finanza – americana – che dispone di noi come di bassa manovalanza, e decide il nostro futuro come se fossimo bestiame, né più, né meno. Che poi tra quei superfinanzieri, che sono i grandi usurai del mondo d’oggi, spicchino i cognomi ebraici, questo è un fatto e non è colpa nostra, non è un peccato il fatto di prenderne nota: a meno di voler dare la colpa del nazismo agli storici che studiano la Germania di Hitler, o dare la colpa dei terremoti ai sismologi che registrano le scosse coi loro strumenti.

Ma torniamo al film di Josef von Báky. Prendiamo una enciclopedia del cinema o una qualunque altra enciclopedia e andiamo a vedere chi era costui: si troveranno notizie avarissime e imprecise; si intuisce che un tacito ostracismo postumo, quasi una tacita damnatio memoriae ha colpito colui che osò girare un grande film nella Germania del 1943, invece di opporsi a Hitler e adoperarsi per la caduta del suo regime, come avrebbero dovuto fare, secondo l’opinione oggi universalmente diffusa, tutti i bravi tedeschi, Avrebbero dovuto prendere le armi contro i loro fratelli, pugnalare alle spalle i loro soldati impegnati al fronte, e questo per dare la mano ai “liberatori” che trasformavamo Amburgo, Dresda, Berlino in altrettanti cimiteri infuocati. Eppure, il suo film è, puramente e semplicemente, un capolavoro: un prodigio di bellezza, quale raramente capita di vedere, e quale ormai da moltissimi anni nessuno ha più visto, in questa cinematografia mondiale dominata da Hollywood (e quindi, direttamene o indirettamente, dagli stessi signori usurai dei quali parlavamo poc’anzi). Si farebbe fatica a scegliere una sequenza del Munchhausen, che è tutto un susseguirsi di sequenze magnifiche, una che spicchi sulle altre: pure vogliamo sbilanciarci, e consigliamo il lettore di gustare, in particolare, la sequenza della sfilata delle gondole lungo il Canal Grande, a Venezia, con la bellissima musica che è la vera protagonista, quei cori celestiali che hanno la leggerezza e la trasparenza di una favola. È un momento di straordinaria intensità poetica: si direbbe che il film prenda le ali e che trasporti lo spettatore in un regno meraviglioso, il regno dell’infanzia felice, che tutti noi, almeno una volta, abbiamo conosciuto, dove le miserie e le brutture della realtà quotidiana svaniscono per incanto, come nebbia al sole, e ciò che resta è solo un trionfo di stupore, ammirazione, gioia e fantasia. Ammirando le scene veneziane del film, con la folla in costume che si assiepa sulle rive del canale, sotto un cielo azzurro da fiaba e in una atmosfera quasi da Mille e una notte, vagamente orientale, sospirante e un po’ sensuale, si provano delle emozioni molto simili a quando, da bambini, al circo, allorché si spegnevano i riflettori e davanti a noi si parava lo spettacolo fantastico degli elefanti disposti a formare una scena fantastica, “impossibile”, ci sentivano trascinati per magia in un altrove fuori del tempo e dello spazio, ove tutto era possibile, ove nessun sogno sembrava troppo difficile da potersi realizzare.

Ecco: quello è stato il canto del cigno della nostra civiltà, della vera civiltà europea, prima che incominciasse a inaridirsi e a scomparire; prima che noi tutti incominciassimo a subire il lavaggio del cervello e a dimenticare ciò che siamo, a vergognarci di quel che siamo stati, a desiderare di non essere più noi stessi, ma di confonderci nel grande calderone promiscuo della modernità, dove qualsiasi cosa viene tanto più apprezzata, quanto più è lontana dalla tradizione e quanto più deride e denigra quest’ultima. Questa è la stupida ideologia per la quale solo ciò che è giovane ha valore: è la stessa ideologia che spinge gli urbanisti e gli architetti a buttar giù interi caseggiati per fare posto ai grattacieli, e le singole persone a disfarsi del televisore o del telefonino di penultima generazione per correre ad acquistare quelli dell’ultima; la stessa, infine, che spinge le donne (e molti uomini) a vergognarsi della vecchiaia, a voler nascondere le rughe e i segni dell’invecchiamento, a voler fare i giovani ad ogni costo, sottoponendosi a patetici interventi chirurgici o vestendosi come adolescenti in ritardo di mezzo secolo. Ed è anche la stessa ideologia per cui i neoteologi e i membri del neoclero disprezzano e ignorano deliberatamente tutto ciò che la Chiesa è stata fino al 1962, e sanno fare riferimento solo ed esclusivamente al Concilio Vaticano II; anzi, nemmeno al Concilio, ma al non meglio precisato “spirito del Concilio”, cioè, in pratica, a qualsiasi bizzarria, sproposito o vera e propria profanazione sia stata partorita nel corso degli ultimi cinquant’anni, purché abbia le stigmate del “moderno”. Per codesti teologi il peccato non è più peccato, l’inferno non esiste, il diavolo è un’invenzione, la Chiesa è Cristo stesso, e Cristo, alla fine, non è la Parola divina che si è incarnata, ma è una specie di Cristo immanente, un Cristo che è “figlio di Dio” come lo siamo noi, come lo sono tutti; insomma un Cristo che è Messia, ma non Dio, che è un profeta, un maestro di buonismo, un distributore di misericordia all’ingrosso, uno che perdona tutti, anche gl’impenitenti, uno che non esclude nessuno, che getta solamente ponti, che abbatte muri, che non ha nemici perché nessuno è suo nemico. Figuriamoci che razza di Cristo sarà mai un Cristo siffatto. E chi può nutrire e alimentare un’idea tanto balorda, come l’assenza di nemici di Cristo, se non il diavolo in persona, che si serve della stupidità, della presunzione e, appunto, del buonismo dei “cattolici” odierni, i quali poco o nulla hanno capito del Vangelo, a cominciare dal fatto di non aver capito che la vita è una lotta continua, un campo di battaglia del bene contro il male, e che non è possibile chiamarsi fuori, proclamare un disarmo unilaterale, perché ciò equivale a consegnare se stessi e la Chiesa nelle mani di chi odia Gesù Cristo e vuole vedere la Chiesa distrutta o, peggio ancora, totalmente sovvertita?

Questa è la situazione odierna della civiltà europea: ed è la conseguenza dell’aver voltato le spalle alla tradizione, aver disprezzato le radici spirituali, che sono rappresentate dal cristianesimo. Senza il cristianesimo, l’Europa non esisterebbe. Ma l’Europa, a un certo punto, ha voluto fare a meno non solo del cristianesimo, perfino del suo ricordo; nella costituzione dell’Unione Europea, difatti, è stato soppresso qualsiasi riferimento alle radici cristiane. È quindi un’Europa massonica, radicale, americanizzata, involgarita; un’Europa ove gli studenti sanno tutto dell’ultimo rapper da un milione di visualizzazioni su Youtube, ma ignorano chi ha dipinto la Cappella Sistina e chi ha innalzato la cupola della Basilica di San Pietro. Oggi, un film come Munchhausen lascerebbe fredda la critica e spopolato il botteghino: gli incassi non coprirebbero nemmeno i costi di produzione. Oggi, al cinema, spopolano i film più cialtroni e più volgari sfornati da Hollywood, a base di effetti speciali, supereroi dozzinali, sesso e violenza a un tanto il chilo; a nessuno importa più della bellezza, meno ancora dell’intelligenza. Si va verso un’umanità decerebrata, effeminata, incapace perfino di sentire l’istinto riproduttivo: e questo mentre accogliamo milioni di africani che si riproducono a un ritmo  quattro volte superiore al nostro. Non occorre essere Nostradamus per capire come andrà a finire. Intanto, gli europei sono traditi e abbandonati dai loro intellettuali, dai loro preti, dalle loro guide: tutti si sono fatti promotori di nichilismo, di scetticismo e di relativismo. Alla domanda: c’è ancora speranza, per la civiltà europea?, dobbiamo onestamente rispondere: quale civiltà europea? La civiltà europea è morta da un pezzo: uccisa da quelle stesse forze che l‘hanno aggredita più di settant’anni fa, e che hanno potuto giovarsi di una poderosa quinta colonna: quella degli scontenti, dei frustrati, dei falliti di professione, non sempre innocenti. Come cattolici, però, dobbiamo avere fede: se conserveremo la fede, la salvezza sarà ancora possibile, perché niente è impossibile a Dio...