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Marchionne, l’Italia e i no-global sovranisti

di Alessio Mannino - 29/07/2018

Marchionne, l’Italia e i no-global sovranisti

Fonte: L'intellettuale dissidente

Che c’entrano Marchionne (pace all’anima sua) e il governo grillo-leghista di Di Maio e Salvini? C’entrano, c’entrano. Il fil rouge si chiama globalizzazione. O meglio, l’alternativa globalismo/sovranismo. Un’alternativa, come vedremo, più sognata – anche e soprattutto in senso nobile – che reale, purtroppo. O forse no, chissà. Ma andiamo con ordine. Ha scritto Stefano Feltri sul Fatto Quotidiano del 26 luglio:

Marchionne ha salvato la Fiat, ma ha distrutto tutto quello che la Fiat rappresentava per questo Paese. Perché non rispondeva a logiche di politica industriale o di ricerca del consenso, ma strettamente finanziarie (…) Nei 14 anni in cui ha salvato più che la Fiat il valore del pacchetto azionario di controllo di Fiat, Marchionne ha costretto la classe dirigente di questo Paese ad ammettere il proprio declino.
Senza avventurarci in questa sede in una disamina puntuale del bilancio professionale dell’italo-canadese che ha de-italianizzato la Fiat cambiandole financo il nome, la chiave per capire il successo in vita e le celebrazioni in morte (in troppi casi di una piaggeria rivoltante, da parte delle grandi firme agiografe della stampa nostrana) è racchiusa in una parola: globalizzazione.

Il manager che lavorava sempre, ignorando confini di tempo e di spazio è stato il prototipo per eccellenza dell’uomo d’affari dell’era globale: per lui sovrana era solo l’azienda, il bene dell’impresa stava sopra tutto e tutti, la responsabilità sociale e l’appartenenza nazionale un cumulo di residui nostalgici che, coerentemente, sarebbe stato semplicemente illogico che intralciasse il passo dell’unica e sola bussola, il business. Punto. Di qui il coro d’esaltazione da parte di un pensiero stradominante, beninteso nell’élite politico-economico-giornalistica, che vede in lui il campione delle magnifiche sorti progressive del modello di sviluppo in cui siamo invischiati, dove a contare è il risultato di profitto, e solo dopo, e in subordine, il benessere vivo, qualitativo, esistenziale di quel popolo che secondo santa Costituzione dovrebbe essere depositario della sovranità e in diritto di reclamare una esistenza libera e dignitosa per ciascun cittadino.

Il governo gialloverde (o gialloblù) sorto dall’alleanza fra Movimento 5 Stelle e Lega – contrattuale, temporanea e di convenienza: basti leggere l’ultima polemica sulla famiglia omo – sta invece cercando, a tentoni e con inevitabili contraddizioni interne, di rovesciare l’assunto per cui uno Stato sovrano debba obbligatoriamente mantenersi ligio ai binari prestabiliti dell’ordine globale, che per immediatezza possiamo plasticamente rappresentare nella famosa trojka Ue-Bce-Fmi, o ancor meglio nel Patto Quadripartito Ue-Bce-Fmi-Nato (con salottini strategici annessi come il Bilderberg e Trilaterale). Lo sta facendo poco? Lo sta facendo male? Sì, anzitutto per l’oggettiva ragione che la classe dirigente delle due forze politiche è in media decisamente inadeguata al compito, mancando di uno spessore intellettuale e di una visione politica a lungo termine degna di questo nome. Ma l’indirizzo di fondo è inequivocabile: un tentativo di recupero dell’autodeterminazione. Lo si chiami pure sovranismo, ma questo è. Da un lato il Decreto Dignità nel campo sociale e lavorativo, e dall’altro il ridirezionamento sull’accoglienza dei migranti in contrasto con il solito, peloso immigrazionismo rinunciatario, sono due segnali, perfettibili e con punte rimarchevoli finché si vuole, ma di una benvenuta inversione di marcia.

Ma c’è uno scoglio che difficilmente, molto difficilmente sarà superabile. Perché strutturale, per usare una vecchia fraseologia. Ed è appunto il meccanismo stesso del sistema globale. Che, per quanto un singolo governo di un singolo Stato possa fissare strette sulle delocalizzazioni o contestare i paletti dei contabili liberal-liberisti di Bruxelles, oppure sfruttare gli spazi ancora liberi per le rivendicazioni nazionali sul limes o, che so, arrischiare salutari politiche autonome d’amicizia verso la Russia, resta pur sempre una gabbia di interconnessioni planetarie, fra geopolitica egemonizzata (sempre più a fatica) dagli Usa e dai suoi ancillari scagnozzi, e mercati finanziari con multinazionali con capitale legale qua e capitale fiscale là (come la Fca, giusto per fare un esempio a caso), tale per cui un governo democraticamente eletto che poniamo voglia far valere la volontà popolare, ha minor peso di uno spread coi titoli statali della nazione-guida dell’Unione Europea, o di un andamento di Borsa occultato come fatalità naturale di cui prendere atto e a cui rassegnatamente obbedire, o dell’equilibrio di forza militare e politica di un’Alleanza Atlantica che ha perduto la sua ragion d’essere originaria da un pezzo abbondante. Hai voglia tu a spingere verso la sovranità: istanza verace ma dai contorni confusi e priva di una teoria di lungo raggio (oè, stiamo sempre parlando, per grillini e leghisti, di gente che si muove nell’alveo liberale, per quanto venati di anti-liberalismo de facto), ti troverai a rassicurare contemporaneamente che né euro né Nato sono in discussione, accettando di buon grado le abituali condizioni di sempre. Vedasi l’acquisto degli F 35 confermato per non dispiacere a mister Trump, che dal canto suo fa anche bene a voler scrollarsi di dosso parte delle spese statunitensi nella Nato (peccato che in cambio non intenda cedere il comando del carrozzone, ‘sto yankee).

Diciamolo chiaro: il sovranismo all’italiana (da non confondere con il fascismo, imperialista a tutto tondo, né col nazionalismo otto-novecentesco, per il banale motivo che non siamo più da nessun punto di vista nell’Otto-Novecento) è una linea d’orizzonte giusta e sacrosanta, perché fa rima con libertà dei popoli, comunque si concepisca il significato della parola popolo – che al momento è inquadrato nei limiti statuali, poco da fare; ma è una battaglia persa in partenza, se lo si pensa come riconquista utopica e ritorno puro allo status quo ante globalizzazione. E tuttavia resta la lotta per cui vale la pena far politica oggi, più realisticamente intesa come agire al meglio per ottenere il possibile. Con una battuta: sempre meglio gli ambigui e insufficienti no-global sovranisti Di Maio e Salvini degli invotabili Renzi, Letta, Monti, Berlusconi e globalisti vari de noantri. Ciò che importa è non deflettere dal principio-guida: essere liberi di decidere il proprio destino. Idealismo di granito e realismo flessibile, Don Chisciotte e Sancho Panza fusi in uno, sarebbero Grande Politica, oggi. Come del resto era ieri, e come sarà domani.