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Indovina chi viene a cena?

di Francesco Lamendola - 23/08/2018

Indovina chi viene a cena?

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

Forse a molti italiani la cosa è sfuggita, perché non si è trattato di un film ma di un duo musicale e quindi non è durato 108 minuti, ma sette anni, e quando una cosa dura sette anni non è più un evento, ci si fa l’abitudine e la si considera parte normale dell’arredamento di casa: però anche noi abbiamo avuto il nostro Indovina chi viene a cena?, con la formula Wess & Dori Ghezzi. E come si addice a una provincia dell’impero, il nostro modello è arrivato con qualche anno di ritardo, neanche tanti in questo caso: perché mentre Katharine Houghton, la figlia di Spencer Tracy e Katharine Hepburn, suona al campanello di casa in compagnia del fidanzato Sidney Poitier nel 1967, Wess & Dori Ghezzi sono entrati nelle nostre case dal piccolo schermo e dalla musica dei 45 giri nel 1972. Non vogliamo qui discutere la qualità musicale del duo, sulla quale ciascuno avrà le sue opinioni, oltre che i suoi ricordi; e i ricordi, quando si parla di musica leggera, sono tutt’uno con le emozioni. Ci interessa solo l’aspetto sociologico, come versione nostrana di Guess Who’s Coming to Dinner e come operazione musicale, ma ovviamente anche commerciale, discretamente riuscita; ma anche come prova generale, forse inconsapevole, o forse no, di altre situazioni e altre problematiche che l’Italia si sarebbe trovata davanti, quasi all’improvviso, a partire da poco più di venti anni fa, cioè dagli anni ’90 del Novecento. Nessuno si offenda per la parola commerciale: anche il film i Stanley Kramer è stato una operazione commerciale (alquanto furbesca), come è provato dal fatto che Stanely Kramer è stato sia il regista che il produttore; ed è stato un grande successo di botteghino. E questo discorso vale anche per la musica leggera, vale per tutti i Festival di Sanremo e per le principali manifestazioni canore, oltre che per il cinema. Wess era stato membro del complesso degli Airdales di Rock Roberts, e questi era venuto in Italia nel 1965, dopo essere stato notato da Renzo Arbore e da Gianni Boncompagni, che gli affidarono la sigla del programma radiofonico Bandiera Gialla, e poi aveva sfondato al Festivalbar del 1967 con il tormentone di Stasera mi butto. Wess, nato nel 1945 a Winston, Carolina del Nord, da qualche anno era in un periodo di “stanca”; Dori Ghezzi, un anno più giovane, di Lentate sul Seveso (Monza), aveva avuto un fulmineo ma isolato successo grazie a Castatshock, rifacimento di Katjuša alquanto pacchiano: ed entrambi, all’inizio degli anni ’70, benché giovani di appena venticinque o ventisei anni, erano già in cerca di un rilancio. L’idea buona venne a Wess, il quale nel 1972 volle incidere, a due voci, la cover di un  brano dei Brotherood of Man, una specie di Ricchi e Poveri britannici, che intitolò Voglio stare con te, e scelse come partner una cantante della sua stessa casa discografica, la Durium, che era appunto Dori Ghezzi. L’operazione si rivelò indovinata: la voce bassa e calda di lui ben si armonizzava con quella nitida e squillante di lei, e anche l’immagine faceva la sua parte: lui era alto, robusto, dall’aria molto simpatica e sempre sorridente; lei era minuta, snella, biondissima e allegramente sensuale. Seguirono alcuni anni di successi clamorosi, fra i quali Un corpo e un’anima, Tu nella mia vita, Era, Amore bellissimo, anche se l’ultima zampata si era spenta già nel 1977. Poi si divisero: continuarono entrambi la loro carriera da solisti, ma senza tornare al successo di prima; lei divenne la compagna di Fabrizio De André e andò a vivere in Sardegna (e con il cantautore genovese visse anche la drammatica esperienza del rapimento a scopo di riscatto). Come duo, erano stati in cima alla classifica delle vendite  ed erano giunti terzi all’Eurofestival di Stoccolma nel 1975 e secondi a Sanremo nel 1976.

Abbiamo detto che una componente non secondaria del loro successo artistico è stata l’immagine di coppia che essi davano e sulla quale giocavano, tanto che invariabilmente, al termine delle loro esibizioni, qualche giornalista chiedeva loro se fossero una coppia anche nella vita; ed essi invariabilmente rispondevano di essere solo una coppia musicale, al che gli altri ci restavano quasi male. Avrebbero voluto replicare: Ma perché? State così bene l’uno accanto all’altra: sareste una coppia perfetta! Wess, infatti, era sposato e appariva molto controllato e professionale, anche se in parecchi programmi musicali e copertine di dischi entrambi giocavano sull’equivoco e si mostravano in atteggiamenti teneri, lui disteso sull’erba di un prato, con la camicia aperta, e lei che gli sta sopra e gli sorride con il viso vicinissimo al suo; per non parlare del fatto di tenersi mano nella mano o di scoccarsi sguardi tenerissimi durante le loro esibizioni musicali. La più estroversa e calorosa, per la verità, sembrava lei, anche se mantenendo sempre un certo stile; lui appariva più tranquillo, blando, bonario, quasi una figura paterna e rassicurante; senza dubbio temeva le ire della consorte, una entità invisibile come la moglie del tenente Colombo ma che tuttavia, da casa, poteva seguire e giudicare le loro performances. È pur vero che la natura stessa delle canzoni che cantavano, basate sulla relazione fra uomo e donna in forma dialogata, rendeva quasi inevitabile puntare sulla strategia della complicità di coppia. Una volta, per esempio (il video è in rete dal programma In due sul palcoscenico, del 1975, su Raiuno) hanno eseguito Un corpo e un’anima, lui in completo scuro, lei in completo bianco, pantaloni a zampa di elefante e giacchino di tela aperto, senza indossare nulla sotto, tranne il minuscolo reggiseno nero a vista, e con l’ombelico civettuolo a far capolino da sopra i calzoni indossati senza cintura (una moda sparata sul piccolo schermo da Raffaella Carrà in Canzonissima del 1970); per tutto il tempo lei gli tiene entrambe le braccia dolcemente posate sul petto o sulla spalla - la differenza di statura rende la cosa scenograficamente perfetta -, ogni tanto rovescia il capo all’indietro spargendo in modo sensuale la biondissima chioma, che però rimane impeccabile (e fa venire in mente la réclame della lacca Cadonett, che fissa morbido, morbido, uno dei più noti Caroselli di qualche anno prima); dal principio alla fine i due non smettono di lanciarsi sguardi tenerissimi, come dei veri innamorati. Una perfetta strategia di marketing: difficile non aver voglia di comprare un prodotto così ben confezionato, così allettante. Data l’assenza di microfoni, è chiaro che cantano in playback, cosa allora assolutamente normale; l’aspetto scenico prevale nettamente su quello artistico, è quasi uno spot pubblicitario, o, se si vuole, un minuscolo musicarello, quei filmetti di terz’ordine cuciti addosso a qualche giovane cantante della nuova generazione, come  Nino D’Angelo, Gianni Morandi, Little Tony, Rita Pavone o Caterina Caselli, per sfruttare sino in fondo la scia di qualche disco di successo. Insomma, anche se non erano una coppia dal punto di vista sentimentale, Wess & Dori Ghezzi funzionavano benissimo come coppia ideale: e sono stati una coppia agli occhi dell’immaginario collettivo, anche perché quell’immaginario lo hanno voluto sollecitare in ogni modo, senza andar troppo per il sottile (in senso artistico, s’intende). Erano giovani, frizzanti, carini e fotogenici: bello lui, se non come Sidney Poitier, però altrettanto simpatico, e forse di più; bionda e spumeggiante lei, ma anche romantica, come Katharine Houghton.

Ricordiamo benissimo l’affetto, la simpatia con le quali erano seguite le loro esibizioni, e che non andavano solo alla loro bravura artistica. Si dirà che lo stesso discorso si potrebbe fare per moltissimi altri cantanti e gruppi musicali dell’epoca, e anche di oggi; il che è vero, dato che la musica leggera è un’industria, e la sua pubblicità consiste nello spettacolo della musica stessa: fenomeno che si è accentuato anno dopo anno, fino a diventare assolutamente prevalente rispetto alla dimensione propriamente musicale. Loro, però, hanno puntato su un elemento di novità: la differenza di razza. Si sono autoinvitati a cena nelle nostre case, senza chiedere il consenso di mamma e papà, in quel lontano 1972, e ci si sono insediati a meraviglia, perché destavano tenerezza e simpatia, avevano delle facce pulite, e poi… diciamo la verità, sembravano così innamorati… Non che abbiamo ingannato il pubblico: non hanno mai dato a intendere di essere una vera coppia, al di fuori del palcoscenico; però hanno giocato costantemente sul filo dell’equivoco, e hanno assunto tutti gli atteggiamento che potevano suggerire il contrario. Non c’è nulla di male a saper amministrare il proprio successo, con gli espedienti del caso, quando si fa dello spettacolo e si è gente di spettacolo; certo. Non è su questo aspetto che intendiamo soffermarci, infatti, ma sulla coppia Wess & Dori Ghezzi come preambolo e prefigurazione di altre situazioni che hanno conquistato, o stanno tentando di conquistare, l’immaginario collettivo degli italiani, e che forse qualcuno sta adoperando per modificare la nostra percezione della realtà. Pensiamo alla pubblicità di ClearBlue, ad esempio, nella quale un baldo giovanotto italiano, ovviamente superdotato fisicamente, in mezzo al ristorante si inginocchia davanti a lei e le offre, senza parole, l’astuccio del prodotto per favorire la fertilità e l’ovulazione, mandando la sua compagna al settimo cielo per la felicità: e lei è di colore, naturalmente bellissima. Solo che le cose sono cambiate. Wess & Dori Ghezzi piacevano e suscitavano tenerezza proprio perché erano una coppia anomala; oggi si vorrebbero imporre le coppie anomale per decreto del politically correct (e non solo quelle di diversa razza, ma anche tutte le altre coppie “strane” che oggi dilagano e ottengono pure il riconoscimento del legislatore, grazie tante signora Cirinnà e grazie signori del Pd per la vostra meravigliosa battaglia di civiltà, ve ne saremo eternamente grati e debitori). Insomma la differenza, non certo lieve, fra l’originale e i derivati è che Wess & Dori Ghezzi piacevano perché erano l’eccezione alla regola, mentre spot come quello della ClearBlue cominciano a non piacere a qualcuno perché hanno tutta l’aria di voler imporre all’immaginario degli italiani le eccezioni al posto della regola, le minoranze sopra la maggioranza. Con il tasso atrofizzato di natalità che ci ritroviamo, sarebbe stato proprio così impensabile che la ragazza destinataria della proposta di fare un figlio da un ragazzo italiano, fosse una italiana? Ci ha pensato e ci ha provato la Chicco, però si è scatenato un putiferio: ma questo è razzismo, è intollerabile! Solo che siamo scivolati nel più becero razzismo all’incontrario, e nessun batte ciglio. È diventato normale, o piuttosto si vorrebbe che fosse normale, che ci si indigni se una pubblicità invita il pubblico a fare figli per il bene dell’Italia, e viceversa che si debba provare simpatia se un’altra pubblicità suggerisce agli italiani di fare figli con le donne straniere, possibilmente africane. Siamo arrivati all’assurdo, al totalitarismo del politically correct; e gli italiani stanno incominciando a reagire. Altri popoli avrebbero reagito prima; noi siamo stati estremamente pazienti. Abbiamo lasciato che Boldrini, Grasso, Renzi, Bassetti, Galantino & Bergoglio invitassero non solo a cena, ma a pranzo, a colazione e per la notte, anzi, a trasferirsi da noi addirittura in pianta stabile, sistemandoli in albergo, con telefonini e wi-fi, e libera uscita per andare a spacciar droga ai giardinetti, centinaia di migliaia, poi milioni di stranieri di tutte le provenienze, senza minimamente consultarci in proposito. Nessuno ci ha chiesto se eravamo d’accordo; ci è stato detto che il fenomeno era mondiale e inarrestabile, che bisogna adattarsi e, tutt’al più, cercare di governarlo; si è parlato di flussi, come di qualcosa di fatale e di naturale, cui nessuno potrebbe opporsi, anche volendo: ma perché si dovrebbe volerlo, se non per ignobili ragioni di xenofobia e di razzismo? Mentre egli italiani, lo sano tutti, sono un popolo accogliente e generoso. E così, ci hanno ricattato senza nemmeno che ce ne rendessimo conto, e ci hanno messi davanti al fatto compiuto. In altre parole, ci hanno fregato; anche perché noi abbiamo avuto la madornale ingenuità di credere, di fidarci di tutto quel che dicevano loro, specialmente nel caso della Chiesa cattolica. Come potrebbero dei vescovi ingannarci, come potrebbe un papa mentire, e proprio a danno di un popolo cattolico? Chi è padrone dei mezzi di comunicazione, e specialmente della pubblicità, è padrone sia dell’immaginario collettivo, sia del linguaggio; e chi è padrone dell’immaginario e del linguaggio, è padrone del discorso. Oggi perfino la parola anomalo viene contestata, perché l’anomalia, si dice, non  esiste, è solo un pregiudizio dei benpensanti: che cosa significa una coppia anomala? Che vuol dire una famiglia normale? Non ci si può esprimere in questo modo: è un linguaggio che tradisce un pensiero discriminatorio. Il bello è che il politically correct si ritorce inevitabilmente contro se stesso. Prendiamo lo spot che vediamo ogni giorno in questo periodo, non occorre fare nomi, lo conosciamo tutti: chiede denaro per la ricerca su una certa malattia infantile, e parla una mamma, con la lacrima sul ciglio della palpebra, dicendo che considerava suo figlio malato, finché non le hanno fatto capire che suo figlio è un bambino proprio come tutti gli altri. Ma se è come tutti gli altri, perché entrare nelle case attraverso il piccolo schermo, e chiedere offerte in denaro? Si nega che ci sia una anomalia, però si chiede qualcosa in ragione di quella anomalia. Un altro esempio sono le coppie gay: negano di aver qualcosa di strano, però sono talmente fiere della loro diversità, da pretendere una legislazione apposita, con tanto di pene raddoppiate per chi incorre nell’atroce reato di omofobia. Oppure la cultura femminista: la donna è pari all’uomo, benissimo; però pretende le quote rosa, per legge, in modo da piazzare in parlamento un contingente fisso del gentil sesso, anche se gli elettori non hanno voglia di votare donne, perché, mettiamo, non ne trovano alcuna che meriti il voto. È un pregiudizio sessista anche quello? Evidentemente, sì. Ed ecco che si pretende di rifare i cervelli, come diceva il buon Galilei...