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Breve scorcio sulla filosofia leopardiana

di Luca Gritti - 28/08/2018

Breve scorcio sulla filosofia leopardiana

Fonte: L'intellettuale dissidente

 

 

Se qualcuno cercasse di vedere cosa pensa chi raggiunge l’orlo dell’abisso, scrutando attentamente alla fine troverebbe Leopardi. Ci sono stati forse nella storia pensatori per certi versi più grandi di Leopardi, e persino poeti migliori forse, ma nessuno ha saputo concentrare in sé, con quella lucidità e quella forma tutta particolare di disperato coraggio, una visione così radicalmente pessimistica della vita e del mondo, delle cose e dell’uomo. Ci sono autori che in questo particolare percorso hanno preceduto Leopardi e l’hanno ispirato, ma nessuno ha saputo come lui teorizzare un sistema veramente senza consolazioni, senza vie d’uscita e senza speranza. Quello di Leopardi è l’ultimo stadio del pessimismo: ogni altro pensatore, per quanto cupo e negativo, è più ottimista di lui, si concede una speranza che lui si preclude; e dopo di lui, in fatto di pessimismo, non c’è più nulla. Pensavamo queste cose mentre leggevamo il bel piccolo libro La Filosofia di Leopardi di Adriano Tilgher, riedito meritoriamente dalla casa editrice Aragno lo scorso anno.

Nella bella introduzione di Raoul Bruni si dà conto del valore di quest’opera, che fu data alle stampe nel 1939, un anno prima della morte di Tilgher e che perciò, come sostenne Del Noce, può essere vista a ragion veduta come una sorta di testamento spirituale dell’autore. Adriano Tilgher è uno dei grandi nomi dimenticati o misconosciuti della cultura italiana del primo novecento: fu il gemello di un altro grande autore sconfessato, Giuseppe Rensi, condivise con lui l’odio per Gentile e l’ostracismo della cultura accademica e dell’università. Ultimamente è tuttavia in atto una meritoria riscoperta di Tilgher, e non nelle solite vesti di critico di Pirandello, che per anni sono state le uniche per cui era ricordato. Bruni mette in rilievo nell’introduzione il grande spessore di molte riflessioni di Tilgher, che precorsero molti temi ed autori del secondo novecento che però conobbero ben altra ricezione ed altra fama. Il libro di Tilgher su Leopardi è, come fa notare Bruni, uno dei primi testi che diede conto del valore filosofico di Leopardi, ed anzi che addirittura definì il recanatese espressamente filosofo, in un’epoca in cui farlo non era come ora un fatto riconosciuto o una moda ma quasi proibito. Conformemente alla sua indole scettica e relativista, Tilgher dà una versione di Leopardi certamente parziale, dà una sua prospettiva su Leopardi, in molti casi probabilmente operando, come concede lo stesso Bruni, un’eccessiva identificazione, attuando una simbiosi tra il pensiero di Leopardi ed il proprio. Ma è indubbio che l’opera sia veramente uno dei primi e, in assoluto, più riusciti tentativi di dare un sistema ed un ordine al magmatico universo leopardiano, in particolare di quell’opera sterminata ed apparentemente caotica che è lo Zibaldone. In questo libro il pensiero di Leopardi è espresso in modo sintetico ma fedele; Tilgher non si perde in troppe divagazioni ma restituisce lo spirito del leopardismo, il nocciolo duro che stava al fondo di questo cuore sensibile ed incupito.

La grande frattura, la ferita lacerante che insanguina il cuore e la testa di Leopardi è, com’è stato scritto altre volte, la grande contrapposizione che il poeta avverte tra natura e ragione, tra le cose fuori dall’uomo e la sua interiorità. Secondo Leopardi non esiste una sintesi possibile, una conciliazione praticabile tra questi due poli, che sono invece irrimediabilmente distanti, irriducibili. La ragione dell’uomo cerca un ordine, un senso, ha in sé un insaziabile sete d’infinito; al contrario, la realtà è composta solo di beni finiti, contingenti, effimeri, e nel suo complesso è completamente illogica, per quanto si sforzi la ragione non riesce ad inquadrarla secondo i suoi parametri. Questa frattura, questo divorzio tra ragione e realtà, tra ragione e natura, è quello che determina tutta la tragicità del pensiero di Leopardi, nonché la sua personale infelicità. Infatti, se ragione e natura sono inconciliabili, allora non si può tentare una coesistenza: occorre scegliere l’una o l’altra. Se si sceglie la natura, come riuscivano a fare i popoli primitivi, si vivrà una vita felice, fondata solo sul soddisfacimento dei propri bisogni; se si sceglie solo la ragione, questa condurrà a quel sentimento di disincanto e disillusione, che secondo Leopardi è il grande fardello dell’uomo moderno. Tra questi due stati esiste quello, cosiddetto da Leopardi, della civiltà mezzana, ovvero quella classica, greca e latina a cui egli guardava con tanto rimpianto. In questa civiltà la ragione operava, ma non era ancora la ragione positivista, la ragione attenta solo al dato di fatto e all’esattezza, non era la ragione che disilludeva ed inaridiva; era una ragione la cui facoltà principale era la fantasia, che consentiva di creare dei miti che promuovessero e giustificassero le azioni, quelle che Leopardi chiama illusioni. Le illusioni, ovvero l’onore, la fedeltà, l’amore per la donna e, soprattutto, l’amore per la patria, sono stati i moventi che hanno condotto alla grandezza della civiltà greca e di quella romana. Questa grandezza per Leopardi è stata corrotta prima dal cristianesimo e, in un secondo tempo, dal razionalismo moderno, che ha mostrato il carattere illusorio di quei valori, lasciando l’uomo in un orizzonte di aridità e senza qualcosa a cui votarsi. Nell’epoca di Leopardi quindi l’equilibrio tra natura e ragione è tutto spostato a favore della ragione, per questo Leopardi ha gioco facile a pronosticare un avvenire di uomini sempre meno corporei e sempre più mentali, sempre meno attivi e sempre più meditabondi, che con le loro capacità intellettive finiranno per voler soggiogare il mondo in un processo faustiano ed innaturale. Leopardi, nella parte dello Zibaldone che doveva intitolarsi Arte della Felicità, propone anche una serie di pratiche esistenziali che potrebbero riservare all’uomo la felicità, malgrado la propria sconfortante epoca. È impressionante notare che ci siano già tutti i temi di un certo esistenzialismo, ad esempio del Camus del Mito di Sisifo: la vita in epoca moderna è sopportabile solo cercando di riempirsi di occupazioni, vivendo una vita febbrile e distratta, che ricerchi l’assoluto non con un’ascesi qualitativa e verticale, ma in una ricerca quantitativa ed orizzontale di esperienze; oppure ancora una vita che disprezza se stessa, impavida ed avventurosa, o ancora che cerchi conforto nell’ottundimento della ragione e nell’ebbrezza.

Ma qual è, per Leopardi, il famoso arido vero; qual è la verità che la ragione avrebbe scoperto e che getterebbe l’uomo in quello stato di disillusione ed inazione (o, all’opposto, di azione convulsa e di ricerca di distrazioni e divertimenti) che è propria della modernità? L’arido vero è quello che Tilgher nel libro chiama “contingentismo assoluto”, che conduce a quello che definisce “relativismo universale”. La conclusione di Leopardi è questa: tutto nella vita è sorta del caso. L’esistenza dell’uomo sulla terra non ha niente di predestinato o necessario, ma è frutto del caso. L’uomo è solo uno dei tanti animali sulla terra, ed il suo maggior sviluppo rispetto agli altri esseri viventi è stato frutto del caso, non esiste una differenza qualitativa tra vita umana e vita animale o vegetale. Ma non solo: quello dell’uomo è solo uno dei tanti pianeti di uno dei tanti universi. L’ antropocentrismo dell’uomo, la sua pretesa di essere al centro dell’universo e collocato a fondamento di un senso superiore, per Leopardi è la grande illusione che è stata smascherata dalla ragione nella modernità. L’intera vicenda umana è stata un caso, uno dei tanti casi possibili, e tramonterà senza che l’universo se ne curi, come un battito di ciglia, come una combinazione senza importanza. Questa sconfortante visione ricorda un frammento postumo di Nietzsche, ma ricorda molto da vicino anche quello che per Tilgher è il vero successore di Leopardi in Italia, ovvero Pirandello, in particolare la celebre prefazione al Mattia Pascal, intitolata Maledetto Copernico, in cui lo scrittore siciliano scriveva che con la confutazione copernicana del geocentrismo si poteva immaginare che ci fossero altri universi ed altri mondi possibili e che pertanto le vicende umane assumevano un carattere veramente relativo, contingente, insignificante. È vero che, come dice Tilgher, questa prospettiva può, in un primo momento e superficialmente, assumere i tratti di una eterna ed inebriante possibilità; ma se la si penetra nel profondo non può che condurre ad un sentimento orribile di vanità e stanchezza.

Con quale forza si possono condurre anche le più piccole battaglie della quotidianità se si crede che tutto si esaurisca alla contingenza, che quello che facciamo non ha nessun riferimento e nessuna destinazione a qualcosa di più grande? La frattura tra ragione e natura alla fine lascia aperte due strade, entrambe amare e sconfortanti. La prima è il trionfo della ragione, l’inaridimento di tutto e la nascita di una civiltà di uomini che cercano forsennatamente distrazioni e divertimenti che li distolgano dal grande disincanto che li pervade. La seconda, quella più auspicata da Leopardi, è invece un ritorno, per quel che è possibile, alla natura, con un ottundimento della ragione che passa da un senso di comunione estatica, irrazionale e sensibile, quasi mistica con la natura stessa. È il sentimento di annullamento di sé che trova la sua più celebre testimonianza nell’Infinito, ma anche nella Vita Solitaria. Propendendo per questa via Leopardi svela quella che a nostro avviso è la sua più profonda essenza, correttamente individuata da Tilgher e forse troppo spesso incompresa e poco indagata dai suoi esegeti: ovvero quella buddistica. Leopardi costituisce davvero, come scrive Tilgher, la triade pessimista insieme a Buddha e Schopenhauer. Di fronte all’inconciliabile scarto che avverte tra ragione e natura, tra aspirazione all’infinito dell’uomo e finitudine delle cose, tra l’ordine della logica e disordine del mondo, Leopardi prescrive l’annullamento di sé, l’ottundimento della ragione, il superamento della propria individualità nell’unità, in un momento che è “numinoso”, ma non religioso, perché il tutto in cui Leopardi vuole naufragare è solo il mondo terrestre, non ha nulla di personale o trascendente né profonde amore o misericordia.

Ma siamo sicuri che ragione e natura siano davvero così inconciliabili? Tutta la modernità ha visto il rapporto tra ragione e natura, tra verità e felicità, in termini rigorosamente oppositivi, come una contrapposizione insanabile. Pensiamo a Leopardi ma anche ad un autore a lui profondamente diverso, come Dostoevskij, ed alla sua celebre frase: non so scegliere tra Cristo e la verità, ma se devo scegliere, scelgo Cristo-sentenza che fu stigmatizzata da Simone Weil che la definì “la più atroce bestemmia”. Ma se invece guardiamo al periodo storico più bistrattato da Leopardi nella sua storia dell’umanità, ovvero il Medioevo, notiamo come i presupposti di quella civiltà fossero completamente differenti. Il pensiero cristiano, che aveva avuto la sua più compiuta formulazione ad opera di San Tommaso, aveva trovato che in realtà l’ordine del mondo e l’ordine presente nell’uomo fossero della stessa natura e che proprio in virtù di questa identità (e quindi non del caso) l’uomo fosse riuscito a scoprire tanti meccanismi della natura e tante verità sul mondo. E d’altra parte non occorre essere cristiani per riconoscere, come Aristotele, che se l’uomo ha potuto comprendere tante cose del mondo è perché ci sono delle forti assonanze tra la sua intelligenza e l’Intelligenza che ha creato il mondo in cui viviamo. Ed anche tutte le innovazioni e le scoperte della modernità non ci pare inficino in modo decisivo questa verità, checché se ne dica. Anche la rivoluzione copernicana ha dimostrato che la terra non è al centro dell’universo, ma non ha smentito il fatto che sia l’unico pianeta del nostro sistema solare in cui esista la vita né ha dimostrato che possano esistere altri universi abitati. Insomma, nessuna scoperta moderna ha veramente relativizzato l’ordine del mondo che vedeva l’uomo come fatto “ad immagine e somiglianza di Dio” che a Dio aspira ed a Dio è destinato. Il pensiero medievale era il luogo d’incontro tra ordine dell’uomo ed ordine del mondo, tra ragione e realtà, tra felicità e verità. Ma d’altra parte, la robustezza e la forza dell’ordine tomista e medievale che a Leopardi pare irrimediabilmente andato in frantumi si basava sulla ragione ma anche sulla rivelazione: il grande fatto che Leopardi non accetta né prende mai in reale considerazione. Leopardi può relativizzare così il ruolo dell’uomo nell’universo solo perché non considera mai che il Dio creatore del mondo abbia tenuto in tal conto gli uomini da assumere forma umana per parlare da uomo agli uomini. Questa suggestione non sfiora mai il poeta recanatese: in questo ha ragione Tilgher ad affermare che non ci fu mai spirito così radicalmente anticristiano di Leopardi. All’inizio abbiamo scritto che Leopardi si trova all’ultimo grado del pessimismo che abbia raggiunto il pensiero umano: ecco, ai suoi esatti antipodi sta il Cristo. Ci sono vari gradi di complessità e varie sfumature e gradazioni tra un polo e l’altro, ma alla fine la scelta radicale da fare per ciascuno è tra questi due estremi: o si crede ad un ordine grande in cui l’uomo ha una parte decisiva, che egli debba tornare a Dio, ovvero alla sua completa beatitudine, e che pertanto vale la pena di vivere la vita su questa terra perché è parte di questo ritorno e riserva tanti momenti di felicità, tanti indizi di Dio; oppure si crede che tutto sia originato dal caso, che il nostro desiderio sarà sempre inappagato e perciò tanto vale ottunderlo, smorzarlo ed estinguerlo, per raggiungere la pace dei sensi che in sostanza è la pace dell’apatia, dell’anestesia, della morte-che non a caso a Leopardi appare sempre una cosa profondamente desiderabile.

Leggiamo il Tilgher di Leopardi e pensiamo ad un piccolo libro che condensa davvero, in poche densissime pagine, tutto lo spirito di quest’uomo, che prese tutte le premesse infauste della modernità ed ebbe quella particolare specie di coraggio e quella straordinaria intelligenza che serviva per portarle alle conseguenze più radicali di glaciale e lucida disperazione. Se oggi Leopardi è così popolare forse è perché la sua visione del mondo è diventata egemone e si è massificata e d’altronde il profilo che tratteggiò di una società dove tutti si affannano in mille distrazioni, occupazioni e divertimenti per distogliere l’attenzione da un senso che sembra andato in frantumi è sinistramente simile a molte realtà contemporanee. Di fronte a questa consapevolezza, promuovere una battaglia culturale che si faccia carico di un modo diverso di vedere le cose, la storia e la vita è un’esigenza sempre più urgente, perché presto o tardi le distrazioni finiranno e molti di noi rischieranno di trovarsi come Leopardi, soli sull’orlo dell’abisso.