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Elezioni europee: vietato disturbare i (soliti) manovratori

di Stefano De Rosa - 12/11/2018

Elezioni europee: vietato disturbare i (soliti) manovratori

Fonte: Italicum

 

L’alleanza tra Socialisti, Popolari e Liberali potrebbe depotenziare la temuta avanzata sovranista e continuare a relegare l’euroscetticismo ai margini del Parlamento di Strasburgo. Col favore, in Italia, di una legge elettorale compiacente e di una Corte costituzionale simpatizzante

 Mai come stavolta, ad animare paure e speranze dei soggetti politici appartenenti agli Stati dell’Unione europea è la competizione elettorale, di fatto già iniziata, che interesserà il prossimo 23-26 maggio 2019 il rinnovo del Parlamento europeo. Sarà quella, infatti, la prima occasione in quarant’anni – da quel lontano 10 giugno 1979, data delle prime elezioni europee a suffragio universale – nella quale le maggiori famiglie politiche continentali – socialisti e popolari – con ogni probabilità usciranno sensibilmente ridimensionate nei numeri e nelle rappresentanze istituzionali.

 Sebbene con impianto proporzionale e senza previsione di coalizioni, nel sistema che regola l’elezione dei rappresentanti italiani al Parlamento di Strasburgo è possibile ravvisare una criticità. In esso è presente uno sbarramento che ammette all’assegnazione dei 76 seggi spettanti all’Italia (erano 73 ante Brexit) soltanto le liste che conseguano, a livello nazionale, almeno il 4% dei voti validamente espressi. Questa soglia fu introdotta dalla legge n. 10 del 20 febbraio 2009 con l’intento di limitare la frammentazione della rappresentanza politica.

 La principale ragione addotta da ogni sistema legislativo per giustificare l’adozione di un barrage percentuale alla ripartizione di seggi è costituita dall’esigenza di semplificare la composizione delle delegazioni prestando attenzione alle ragioni della governabilità a scapito della rappresentatività. In occasione delle elezioni europee ci permettiamo di confutare la ratio di questa norma con due argomentazioni: una di carattere istituzionale, l’altra di natura politica.

 In questa fattispecie la previsione di uno sbarramento non può essere giustificato da ragioni di governabilità. La Commissione europea infatti, oltre ad essere l’organismo esecutivo dell’Unione europea, annovera tra le sue funzioni anche il diritto di iniziativa nel processo legislativo, un compito che a livello nazionale spetta invece, seppure non in regime di monopolio, alle assemblee parlamentari.

Il fatto che il Parlamento europeo eserciti un potere di emendamento sul contenuto degli atti normativi comunitari, esprima la sua approvazione sul Presidente della Commissione (designato, al pari degli altri commissari, dai governi degli Stati membri) ed abbia la possibilità di votare mozioni di censura nei confronti dei membri della Commissione non autorizza, tuttavia, ad assimilare il rapporto Commissione-Parlamento ad una tipizzata forma di governo parlamentare, dove, cioè, esecutivo ed assemblee elettive sono legati dall’istituto della fiducia e dove, quindi, la stabilità delle maggioranze è rapportata alla stabilità del consenso di segmenti parlamentari omogenei posti al riparo da ricatti e pressioni delle piccole formazioni. Tale argomentazione trova ulteriore fondamento se valutata alla luce della seconda considerazione di natura politica.

 Prevedere una soglia di sbarramento al 4% non solo evidenzia dubbi di costituzionalità (pensiamo – benché riferito all’elezione delle Camere nazionali – al principio di uguaglianza del voto sancito dal secondo comma dell’art. 48 della Costituzione italiana), ma presenta una incredibile contraddizione funzionale finora non rilevata, per quanto ci consta, da politologi o costituzionalisti. Ci riferiamo alla assurda regola in forza della quale per una consultazione europea viene preso in considerazione il solo risultato nazionale e non quello complessivo su base continentale.

 Se di sbarramento si deve proprio parlare, sarebbe più corretto che le modalità di accesso dei partiti nazionali agli scranni di Strasburgo siano commisurate ai risultati complessivamente raggiunti dalle grandi famiglie politiche continentali alle quali ciascuno di essi si richiama. In altre parole è assurdo impedire, ad esempio, ad un 2% di elettori italiani socialisti o verdi di avere una loro rappresentanza in Europa poiché al di sotto della tagliola del 4% e, al contempo, vedere centinaia di deputati socialisti o verdi di altri paesi formare alcuni tra i più numerosi gruppi parlamentari europei.

 Comparare il suffragio ricevuto da un partito in un singolo paese alla soglia di sbarramento nazionale non solo discrimina – poniamo – ecologisti, nazionalisti, liberali, euroscettici italiani rispetto agli omologhi elettori tedeschi, spagnoli o fiamminghi, ma presenta un grave vulnus ontologico (da nessuno ancora rilevato), stante la disparità operata su base nazionale in occasione dell’elezione di un’assemblea con composizione e competenze dichiaratamente sovranazionali.

 La constatazione, inoltre, che la Commissione europea (Presidente e commissari) sia espressione dei governi dei rispettivi Stati membri e che, dunque, in essa non sia geneticamente presente alcun elemento di opposizione (benché, come detto, eserciti la funzione legislativa) rende non soltanto opportuno, ma essenziale che la composizione del Parlamento europeo recepisca e tuteli le variegate articolazioni socio-politiche e sensibilità ideologico-culturali dei diversi popoli continentali, la cui ricchezza e rappresentanza nell’emiciclo di Strasburgo possono fattivamente contribuire a quell’azione di emendamento e controllo dell’attività di una Commissione a vocazione maggioritaria e governativa.

 Lo scorso 25 ottobre 2018 la nostra Corte costituzionale ha confermato la soglia di sbarramento al 4% alle elezioni europee, giudicando non fondate le questioni di legittimità sollevate dal Consiglio di Stato con riferimento al principio democratico, a quello di ragionevolezza e a quello di uguaglianza del voto sanciti dalla Costituzione.

 I giudici amministrativi, rifacendosi ad una sentenza del febbraio 2014 del tribunale costituzionale tedesco che giudicò illegittimo un analogo sbarramento al 3% introdotto in Germania, sostenevano che la soglia prevista dalla citata legge del 2009 sarebbe stata irragionevole poiché lo scopo sotteso – evitare cioè la frammentazione della rappresentanza politica – sarebbe privo di giustificazione in ambito europeo, con una Commissione (organo esecutivo) non legato al Parlamento da alcun vincolo fiduciario. La Consulta ha ritenuto invece che la previsione dello sbarramento al 4% non sia manifestamente irragionevole, dunque insindacabile, demandando eventuali modifiche normative alla discrezionalità del legislatore.

 La Corte costituzionale, dunque, se con argomentazioni rigorosamente giuridiche ha confermato la legittimità dello sbarramento al 4%, ha altresì ribadito il pieno diritto del Parlamento di intervenire legislativamente. Questo è il punto sul quale soffermarsi. Per quanto ci riguarda, continuiamo ad esprimere la nostra preferenza in ogni tipologia di consultazione popolare per sistemi elettorali proporzionali senza sbarramenti; una convinzione maggiormente motivata per le elezioni europee non soltanto per quanto sopra esposto, ma anche alla luce di un ulteriore elemento. Con una relazione approvata il 7 febbraio 2018, gli eurodeputati hanno confermato l’adozione di un cosiddetto sistema dei candidati (“Spitzenkandidaten”) in base al quale i partiti politici sono tenuti ad indicare prima delle elezioni europee il proprio candidato alla presidenza della Commissione.

 Alla luce di ciò risulta ancor più evidente la discriminazione che colpirebbe – in vigenza di sbarramento – le formazioni politiche italiane, i loro candidati ed i relativi elettori che vedessero il proprio voto vanificato – con tanto di bollino costituzionale – da un’artificiale e politicamente ingiustificata soglia di accesso.

La legge elettorale attualmente in vigore in Italia per le elezioni legislative (il cosiddetto “Rosatellum”) contempla uno sbarramento al 3% per poter partecipare alla ripartizione dei seggi parlamentari. Qualora il legislatore nazionale intendesse mantenere il sistema delle soglie per eleggere i parlamentari italiani a Strasburgo, sarebbe almeno auspicabile che lo stesso limite venisse abbassato allo stesso livello previsto per le elezioni legislative. Ciò non solo per perseguire uniformità di trattamento e razionalità normativa, ma soprattutto per un’altra ragione di contenuto politico.

 Per la prima volta in quarant’anni si sta assistendo ad una progressiva, ma veloce convergenza tra temi di politica interna e di politica europea. La reciproca compenetrazione di questioni di sicurezza, politiche finanziarie e monetarie, livelli di welfare o geopolitica sta avvicinando l’agenda nazionale a quella europea, ormai sovrapponibili e pressoché indistinguibili.

 L’esito dirompente delle urne dello scorso 4 marzo, i primi provvedimenti dell’esecutivo gialloverde, i persistenti sondaggi in crescita dal 50 al 60% per i due alleati di governo non rappresentano che la conferma dell’irruzione dei temi esterni nel dibattito nazionale e, specularmente, il ribaltamento di criticità ed attriti interni sul palcoscenico politico-diplomatico europeo ed internazionale. Pretendere, dunque, di mantenere sistemi di tecnica elettorale distinti per affrontare problemi politici analoghi rischierebbe di risultare oltre che ingiustificato, anche politicamente viziato. Al sovrano parlamento, allora, la scelta tra abbassare (ed uniformare) la soglia al 3%, oppure – come auspichiamo – eliminarla e tentare di disturbare i (soliti) manovratori contribuendo, seppure marginalmente, a modificare la composizione dell’assise di Strasburgo.