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Il Sovranismo ed il Momento Polanyi

di Roberto Pecchioli - 16/11/2018

Il Sovranismo ed il Momento Polanyi

Fonte: Ereticamente

Secondo Aristotele, “il maestro di color che sanno “, l’uomo è un animale politico, un essere ragionevole portato dalla sua natura a vivere in una dimensione comunitaria, creare delle società, rintracciare principi generali a cui conformare le sue azioni. E’ quindi anche un essere morale. L’Occidente moderno ha ripudiato il gigante di Stagira, inventando l’homo oeconomicus, l’uomo a una dimensione teso unicamente all’utile immediato, che vive l’esistenza come scambio di beni e servizi regolati dall’interesse e da un motivatore universale chiamato denaro. Ciò dissolve la comunità, che si forma e sviluppa al di fuori e spesso contro i rapporti economici, ma disgrega altresì la società, ossia il contratto iniziale per cui l’uomo vive con i suoi simili all’interno di un sistema di principi, valori, limiti, regole. L’homo oeconomicus non conosce alcuna morale diversa dall’utilità e dal tornaconto espresso in denaro. Suoi maestri furono Bernard de Mandeville, l’anglo olandese di inizio XVIII secolo autore della Favola delle Api, bizzarro apologo di una società in cui i vizi sono accolti come pubbliche virtù se consentono guadagno e arricchimento e Jeremy Bentham, l’inglese contemporaneo di Smith e Ricardo per il quale l’utile è il solo movente umano, inventore del Panopticon, il sistema di sorveglianza centralizzato alla base della disciplina nelle nascenti fabbriche-carceri manchesteriane. La naturale socialità dell’uomo viene ristretta allo scambio mercantile. L’universo morale di Adam Smith si riduce alla celebre frase “non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse.” Il sistema che questi uomini hanno teorizzato è divenuto sinistra realtà. Si chiama società di mercato, in cui l’intera esperienza umana è incorporata, incatenata nella distopia dell’homo oeconomicus. Un modello matematico assai popolare presso gli economisti spiega il sistema meglio di interi libri, le equazioni di Lotka- Volterrache descrivono la dinamica di un sistema in cui interagiscono soltanto due specie: i predatori- mercati, e la prede, tutti noi.
C’è bisogno di una insorgenza contro tale modello disumano per ricostruire un’antropologia di segno opposto. Da circa dieci anni, in concomitanza con i fallimenti epocali del modello liberista finanziario innescati dalla crisi del 2007/2008, si tenta di alimentare un contromovimento. La resistenza manca di una rivolta ideale complessiva, di un nucleo morale e di una ideologia pratica da opporre all’onda liberal globalista. Si stanno tuttavia espandendo idee, valori, principi a cui viene attribuito il nome di populismo e di sovranismo con connotazioni dispregiative, poiché il potere sui significati è in mano all’avversario. Il sovranismo muove da un nucleo di pensiero semplice ma dirompente: la rivendicazione della superiorità della dimensione politica su quella economica, dell’interesse pubblico su quello privato. Individua in una specifica istituzione, lo Stato nazionale, lo strumento più adatto per reagire alla disgregazione sociale, alla disumanizzazione, al comando impersonale della ragione economica e finanziaria. Sovranismo e populismo sono dunque strutturalmente avversi al liberismo. Li possiamo considerare come l’espressione contemporanea di un fenomeno ciclico definito da alcuni “momento Polanyi”, la reazione della società, delle comunità, dei popoli e degli Stati al predominio asfissiante del mercato cosiddetto “autoregolato”, diretto in realtà da immensi oligopoli capitalistici transnazionali. Karl Polanyi è l’autore di uno dei saggi più importanti della prima metà del secolo, La grande trasformazione (1944), la cui influenza ha attraversato più aree culturali e politiche. Ungherese di nascita, ebreo formatosi nell’atmosfera ribollente della Vienna di fine impero e degli anni Venti, fu il fondatore di una disciplina, l’antropologia economica, che, da posizioni non marxiste, lo pose in totale conflitto con il liberalismo, di cui era profondo conoscitore per le dispute viennesi con Von Mises e Von Hajek.
La base del pensiero di Polanyi è che la grande trasformazione, il nuovo portato dal capitalismo, l’“utopia liberale” è la tendenza irresistibile alla mercificazione di ogni relazione, ed il mercato, autoregolato in ossequio alle idee di Smith e di David Ricardo, i classici ed i neoclassici suoi contemporanei, è il fine e insieme il mezzo per subordinare l’intera vita sociale alla logica dell’accumulazione.Una gigantesca operazione di ingegneria, di riconfigurazione del pensiero umano al servizio di un’oligarchia orientata al dominio. L’ipotesi, o momento Polanyi è che ciclicamente la società si rivolti, reagisca contro l’utopia liberale fattasi distopia realizzata, incubo, in nome delle enormi ferite sociali – noi aggiungiamo morali- inferte a popoli, persone, generazioni. Oggi è entrata in crisi la globalizzazione nella forma della privatizzazione del mondo, della decostruzione degli Stati, dello smantellamento delle protezioni sociali, ma anche dell’attacco contro ogni principio etico, spirituale, civile dei popoli frutto della concezione aristotelica ereditata dal pensiero cristiano, dell’uomo come essere socievole governato dalla legge naturale. Dalla fine del Settecento, l’introduzione di nuove tecnologie capaci di accrescere enormemente la produttività delle economie permise l’abbandono dei controlli statali propri della precedente epoca mercantilista, dando vita all’ideologia del mercato autoregolato. Per Polanyi, lo strumento di tale operazione fu la trasformazione in merce del denaro, della natura e del lavoro umano. Questo portò alla costruzione di un mercato comprendente lavoro, terra, moneta, un esperimento unico nella storia umana, dai costi sociali enormi. Le conseguenze costrinsero i governi a iniziare la marcia indietro verso mercati regolati attorno alla metà del XIX secolo (primo momento), culminati con l’avvento del welfare statea seguito della grande crisi del 1929 (secondo momento).

La tesi di Polanyi era che le economie preindustriali si basavano sull’interazione tra l’uomo, la natura, la sua cultura. L’economia era una parte del tutto, inclusa, incorporata nell’esperienza complessiva della civiltà. La grande trasformazione è l’esito del rovesciamento di quell’equilibrio, con la conseguente egemonia della ragione economica. Polanyi chiama utopia il mercato autoregolato (in termini ricardiani “perfetto”, unico, grande quanto il pianeta) in quanto il suo esito è l’annullamento dell’essenza stessa della società. La marcia non si è arrestata, la violenza del sistema si è abbattuta su Stati, nazioni, esseri umani senza alcun riguardo o freno.  La crisi del 2008 dischiude l’opportunità di animare la reazione di un’umanità espropriata e ridotta a merce nelle mani di una cupola criminale negli intenti, negli atti, negli obiettivi. Si impone un terzo “momento Polanyi”, in cui il sovranismo e il populismo diventino soggetti attivi per lo sviluppo di grandi movimenti sociali. I rischi sono grandi, giacché, come insegnava Antonio Gramsci, la crisi consiste nel fatto che il vecchio muore, ma il nuovo non si afferma e in questo interregno si verificano i più svariati fenomeni morbosi. Morboso per il marxista Gramsci è qualsiasi movimento che non abbia il suo sbocco in una società collettivista. Al contrario, noi oggi assistiamo al desiderio dei popoli di riavere un’identità. Non è solo il dissenso economico a gonfiare le vele populiste. Parte della comunità si sente ferita per motivi più profondi dell’esclusione economica. Il mercato misura di tutto è per vocazione cosmopolita, indifferente ai principi spirituali. Nega ogni appartenenza, spezza qualunque legame comunitario, disprezza ogni relazione non basata sullo scambio misurabile in denaro, riconosce il prezzo ma ignora il valore. Il “momento Polanyi” del XXI secolo monopolista e tecnocratico dovrà tendere ad una riumanizzazione integrale. Il principio unificante di un vasto fronte d’opinione è il rifiuto del mercato sovrano e della privatizzazione del mondo. A nulla valgono le idee timide di chi si limita a deplorare le conseguenze senza combattere le cause.