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L’Afghanistan nel baratro: quale ruolo per l’Italia?

di Gian Micalessin - 28/11/2018

L’Afghanistan nel baratro:  quale ruolo per l’Italia?

Fonte: Gli occhi della guerra

A far notizia sui siti e sui giornali d’oltreoceano è la morte di  un contractor e di  tre militari americani massacrati da un ordigno dei talebani mentre si spostavano su un mezzo blindato nella provincia di Ghazni.
 
L’agguato rappresenta uno dei colpi più duri subiti dal contingente Usa sul fronte afghano dopo il massacro di sei militari statunitensi uccisi nel dicembre 2015 da un singolo motociclista suicida. In termini strategici il vero  problema dell’Afghanistan non è però il numero dei caduti americani, quanto quello delle perdite afghane.

Stando ai dati, trapelati nonostante il segreto imposto da Washington e da Kabul, le perdite dell’esercito afghano superano  ultimamente i trenta-quaranta uomini al giorno oltrepassando così la soglia degli oltre mille morti al mese. Un ritmo insostenibile per una forza militare scarsamente motivata e falcidiata, oltre che dalle incursioni dei talebani, anche dalle diserzioni.

Queste ultime, secondo le statistiche della  scorsa primavera, avrebbero assottigliato del dieci per cento le truppe governative spingendo il numero degli effettivi sotto la soglia delle 300mila unità. Il numero crescente  di caduti negli scontri con i talebani rende ancor più difficile la sostituzione di morti e disertori.  

Al centro di reclutamento della provincia di Helmand, cuore  dell’insurrezione talebana, il flusso medio delle reclute non supera ormai le due o tre unità giornaliere. E per lunghi periodi va anche peggio. “A volte – rivelava a settembre Abdul Qudous – responsabile del centro – non vediamo nuovi volontari per settimane. Il numero dei caduti è troppo alto, i giovani ormai hanno il terrore di arruolarsi”.  

Così le zone sotto il controllo del governo si restringono costantemente  mentre si allargano quelle dove i talebani dettano legge. Stando all’ultimo rapporto diffuso dall’Ispettore generale per la ricostruzione  dell’Afghanistan (Sigar), un organismo di controllo gestito dal Congresso Usa, Kabul controlla o “influenza” soltanto il  55 per cento dei distretti del Paese. Sempre secondo i dati Sigar, almeno un terzo dell’Afghanistan è invece zona “contesa”.  I talebani, o i gruppi legati all’Isis,    esercitano “influenza” o controllano appieno, invece,  il 12,5 per cento dei distretti. Si tratta di dati  inquietanti visto che nel novembre 2015, quando il Sigars iniziò i rilevamenti, il governo contava sulla fedeltà di almeno il 72 per cento dei distretti e le bandiere talebane sventolavano su appena il sette per cento del territorio.

A tratteggiare un quadro ancor più fosco contribuiscono i dati sulle incursioni aeree e sul numero di ordigni impiegati in Afghanistan dall’aviazione statunitense.

Tra il gennaio e la fine di settembre 2018, stando ai dati del Comando Centrale dell’Aviazione Usa aerei e droni statunitensi hanno impiegato 5213 ordigni, superando il record di 5101 bombe e missili lanciati nel 2010. Con una piccola,  ma decisiva differenza.

Nel 2010 le forze statunitensi e della Nato erano all’offensiva, mentre oggi i 14mila soldati Usa sono una forza di contenimento il cui obbiettivo principale è – assieme  alle unità della Nato –  l’addestramento e e la guida tattico-strategica delle unità afghane.

La pioggia di bombe disseminate dagli Usa non risponde dunque ad un piano strategico, ma semplicemente al cambiamento di regole d’ingaggio che – su ordine del  segretario alla difesa  Jim Mattis –    non limitano più i bombardamenti alle aree dove sono in corso scontri con gli insorti.

A questo dato corrisponde un significativo aumento delle perdite civili. In base ai dati Onu, queste ultime superano nei primi nove mesi di quest’anno i 2790 morti, 649 dei quali causati dalle incursioni aeree. Bilanci devastanti che rischiano di regalare ulteriori consensi ai talebani nonostante i metodi sanguinari usati per imporre la loro legge.

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Nelle zone governative emerge però la sconcertante assenza di strategia  di un’America e di una Nato sempre più incapaci di coordinare obiettivi politici e militari. Un’incapacità con cui dovrà  far i conti, presto o tardi, anche l’Italia. I quasi novecento soldati presenti in Afghanistan rappresentano il secondo contingente della Nato dopo quello americano. Il loro compito, inquadrato nell’ambito della missione di addestramento “Resolute Support” della Nato, si limita all’addestramento dell’esercito afghano. C’è però da chiedersi che  senso abbia mantenere una presenza militare così consistente, così rischiosa e così economicamente costosa  in un area estranea alle nostre finalità strategiche e nella prospettiva di un fallimento quasi scontato. Per non parlare di un contesto internazionale in cui Libia, Africa settentrionale e Mediterraneo centrale sembrano richiedere una presenza sempre più capillare delle nostre Forze Armate per garantire la difesa dei nostri interessi nazionali.