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Il significato politico del Partenone: il tempio di Athena Parthenos come visione europea

di Giovanni Pucci - 03/01/2019

Il significato politico del Partenone: il tempio di Athena Parthenos come visione europea

Fonte: Ereticamente


Vi è una struttura che da quasi 2500 anni è l’emblema stesso della grecità: passata attraverso innumerevoli epoche ed adattata agli usi più disparati, da chiesa a moschea fino ad arsenale, è ancora in piedi a testimoniare il suo significato immortale. Stiamo parlando del Partenone, il tempio di Athena Parthenos. Costruito dal 445 al 438 A.C. dagli architetti Ictino e Callicrate, supervisionati dal genio di Fidia, sulle rovine di un edificio incompiuto e devastato dalla furia di Serse nel 480, il tempio dedicato alla vergine Atena fu fortemente voluto dalla personalità più illustre dell’Atene di quel tempo, alla cui volontà si deve non solo il Partenone ma tutta l’Acropoli ateniese, ovvero Pericle. Uscita materialmente a pezzi ma moralmente intatta dalla comunque vinta seconda guerra persiana, la comunità ateniese era in quel momento saldamente egemone all’interno di quella Lega delio-attica che aveva definitivamente ricacciato i Persiani in Asia e sentiva di essere il ramo più consapevole e sviluppato dell’albero greco, e intendeva quindi eternare nel marmo il significato stesso del suo stare al mondo. Attraverso gli edifici raccolti nell’Acropoli, e con il non plus ultra del suo tempio principale, questo intento sarà pienamente realizzato.

Il Partenone, summa assoluta delle conoscenze architettoniche del suo tempo fu costruito in stile ionico in pianta octastile (con un perimetro di 69,5 m per 29,8 m e con una proporzione di 4:9 che ritorna più volte), ma con il peristilio in forma dorica che conta 8 colonne sul lato corto e 17 su quello lungo, custodiva nella cella interna la colossale statua crisoelefantina di Atena, opera di Fidia, alta 12,7 m. I quattro lati esterni, il fregio interno e i due frontoni erano effigiati con sculture ornamentali raffiguranti miti e storie ancestrali dell’immaginario greco. Le 92 metope esterne raffiguravano la Gigantomachia sul lato ovest, l’Amazzonomachia su quello est, la guerra di Troia su quello nord e la Centauromachia su quello sud. Purtroppo moltissime sono andate distrutte nella guerra tra Veneziani e i Turchi nel 1687 e ben 15 sono state predate dall’inglese Lord Elgin nel 1802. Il fregio interno invece era totalmente dedicato alle Panatenee: lungo 160 m si snodavano divinità, eroi, cavalieri, giovani uomini e donne, musicisti e carri a rappresentare la processione che si teneva durante la più importante festività ateniese. Infine nei due frontoni erano scolpite la nascita di Atena in quello orientale e la disputa tra Atena stessa e Poseidone per il possesso dell’Attica in quello occidentale.

Vista l’importanza esiziale del Partenone di per sé e nel contesto in cui venne eretto e la precisa scelta di ogni particolare che lo riguardasse è impossibile pensare che ognuna di queste ‘pietre parlanti’ non avesse una ben determinata funzione ed un esatto significato. Gli Ateniesi ragionarono sul senso della loro storia comune e trassero dall’intreccio mitico del loro passato le ragioni della loro specificità presente e selezionarono così una visione da immortalare per il futuro. La Grecia, Europa in nuce, prese coscienza di sé dallo scontro con l’Altro irriducibile a sé, quell’impero persiano, bizzarro coacervo di genti tenute insieme dal dispotismo teocratico di un solo individuo, i cui appartenenti erano semplicemente identificati come bárbaros, ovvero balbuzienti, poiché non erano in grado di esprimersi in greco e per questo considerati al limite del consorzio umano. Con le guerre persiane i Greci erano entrati in contatto con un universo profondamente alieno, con quell’Asia dalla sensibilità magico-religiosa dove la potenza era data dalla quantità e dove infinite schiere di schiavi vedevano annullata la propria individualità per esaltare l’esistenza del Re dei Re. A tutto ciò la piccola Grecia, divisa in tante città-stato gelose della propria indipendenza ma etnicamente e culturalmente affini, contrapponeva una visione razionale che coniugava la libertà e la responsabilità, dove un uomo libero era artefice delle sue fortune e delle sue sconfitte. Pur consce e fiere delle proprie differenze, le molteplici entità politiche della penisola greca non esitarono ad unirsi quando compresero il comune pericolo che minacciava di ridurle tutte ad una mera satrapia dell’immenso impero persiano.

Che significato hanno quindi i bassorilievi scolpiti sulla parte esterna del Partenone? Come detto, il tempio costituì anche una formula di valenza apotropaica, che intendeva esorcizzare e sistematizzare lo shock subito a causa dell’invasione persiana e fissare le specificità dell’identità ateniese e quindi greca e europea. Partendo dal lato orientale troviamo scene raffiguranti l’Amazzonomachia, ovvero la lotta tra i Greci e le Amazzoni. Quello delle Amazzoni era un popolo mitico composto da sole donne dedite al combattimento che vari autori collocavano variabilmente in Scizia, in Tracia, in Persia o addirittura in India; tutti territori al di fuori di quella che era considerata Grecia. Rappresentando una società di sole donne guerriere, l’amazzonismo era la quintessenza del principio matrilineare e femminile, appena un gradino sopra all’eterismo. Si trattava quindi di un’evoluzione rispetto allo stadio ferino dei primi uomini, che vivevano, s’accoppiavano e riproducevano al modo degli animali, ad un livello pienamente tellurico, ignorando chi fossero i propri genitori. Tale stato caratterizzato dall’assenza di ogni diritto ed organizzazione sociale è perfettamente rappresentato dal mito di Edipo: nella tragedia che porta il suo nome il protagonista uccide il padre sconosciuto e giace con la madre ignorandone l’identità, proprio come poteva accadere nell’orda animalesca primordiale. Rispetto a tali abomini, il matriarcato delle tribù amazzoni, con la predominanza del principio femminile appariva come una luce lunare che offre un lucore utile a superare le tenebre più scure, ma non era ancora sufficiente. Il sistema matrilineare era ancora troppo materiale, ed alcuni uomini sentirono il bisogno di affrancarsi da esso per approdare ad appartenenze più spirituali, svincolate dai concetti terreni e oscuri ai quali il grembo della madre immancabilmente rimanda. I Greci si sentivano infatti affermatori del puro patriarcato comune a tutte le stirpi indoeuropee, di quel principio maschile che lega invisibilmente un padre ad un figlio e che aveva come protettore Apollo, dio solare per eccellenza, e come campioni umani gli eroi Bellerofonte, Teseo, Perseo, Achille e Eracle, i quali tutti si batterono, vincendo, contro le Amazzoni. Vale la pena ricordare come un altro esponente dell’idea patrilineare, quell’Oreste che per vendicare il padre ucciso dalla madre si era reso matricida e per questo era perseguitato dalle Erinni, sarà salvato dal voto decisivo della Pallade Atena, che nel consesso divino chiamato a giudicare Oreste pareggerà i conti tra accusatori e assolutori. Una divinità femminile salva dunque Oreste, una divinità rappresentante assoluta del pensiero patrilineare, poiché nata armata di tutto punto dalla testa di Zeus, che la definirà “figlia soltanto mia”, a dimostrazione di come in questi ragionamenti non ci riferisca mai a patetiche superiorità di ‘uomini sulle donne’ o viceversa. Il principio solare maschile non attecchirà mai in Asia ma resterà confinato alla Grecia ed ecco perché la raffigurazione dell’Amazzonomachia valse la lotta contro le schiere persiane.

Sul lato sud del Partenone stava immortalatala una Centauromachia, ovvero la lotta tra i Centauri e i Lapiti, una popolazione primordiale greca. I Centauri erano esseri mostruosi, metà uomini e metà cavalli. Il primo di loro, Centauro appunto, fu il frutto dell’unione violenta tra Issione e Nefele, una sosia di Era mandata da Zeus. Issione era un personaggio particolarmente spregevole, essendosi in precedenza già macchiato di un tradimento dei patti ai danni del suocero, al quale non aveva consegnato la dote concordata il giorno delle nozze e anzi lo aveva ucciso. Figli di tale padre quando i Centauri furono invitati alle nozze di Ippodamia dai Lapiti non ressero il vino e diedero sfogo alla loro natura ibrida tentando di stuprare la sposa e tutte le fanciulle presenti al banchetto: i Lapiti presero le armi contro di essi e con l’aiuto di Teseo li sconfissero. I Centauri quindi sono una genia bestiale che non conosce il controllo di sé, figlia di un traditore dei patti che incarna perfettamente il disprezzo del diritto. Identificandosi con chi li combatté, i Greci assunsero il ruolo dell’uomo che ha preso coscienza di sé e che supera la sua immagine ancora ferina. Si tratta dell’uomo che si è fatto uomo ed ha abbandonato il dominio animale, quel ‘secondo uomo’ che supera il ‘primo uomo’ secondo quella visione storica perfettamente chiarificata ed illustrata da Giorgio Locchi. L’affermazione contro i barbari Persiani per i Greci era stata anche una vittoria sul proprio passato belluino/matriarcale.

Seguendo questa linea di lettura si può facilmente capire la scelta della Gigantomachia e della guerra di Troia, disposte rispettivamente sui lati est e nord: la rivolta dei Giganti, figli di Gea dea della Terra, contro il dodekatheon olimpico è un’allegoria delle battaglie che ci furono tra le popolazioni pre-elleniche che abitavano la penisola greca e gli Achei di stirpe indoeuropea che vi si insediarono nel II millennio A.C. Ancora una volta gli Ateniesi individuano così i passaggi mitico-storici che li hanno portati ad essere quello che sono. Stesso discorso per la guerra di Troia, combattuta intorno al 1250 A.C. tra Achei e Troiani e figurazione dell’ancestrale contrapposizione tra Occidente e Oriente. Anche se i Greci e i Troiani erano popolazioni sorelle ed avevano molto più in comune tra di loro che non i Greci con i Persiani, la città di Troia posta al di là dell’Egeo sulle rive dell’Asia Minore e il decennale conflitto che ne porta il nome per il controllo dell’Ellesponto, indicò sempre per l’immaginario greco una potenza straniera naturalmente contrapposta alla civiltà greca.

Tutto intorno alla cella del tempio, lungo 160 m, era posto il fregio delle Panatenee. Dato che tutto il Partenone è una conseguenza della vittoria dei Greci sugli Achemenidi, più di uno studioso ha riscontrato in questa processione una risposta all’Apadana di Persepoli, eretta verso il 513 A.C. durante il regno di Dario. Su tale edificio reale si possono trovare i bassorilievi della cosiddetta Processione dei Tributari: i legati delle ventitré nazione dell’impero persiano sfilano in parata davanti al Gran Re offrendo doni caratteristici a testimonianza della loro sottomissione. I dignitari di Susa, gli Armeni, i Babilonesi, gli Ioni, i Frigi, i Sakas, gli Abissini, i Somali, gli Arabi, i Traci, i Medi, i Battriani, gli Egizi, i Sogdiani, i Parti, gli Elamiti, gli Sciiti, gli Assiri, i Cilici, gli Indiani, gli Aracosiani, i Lidi, i Cappadoci e i Fenici si dispiegano tutti ai piedi del sovrano. In questa impressionante dimostrazione di potenza, l’ordine ed il rigore sono i metri di messa in opera. Traspare un ‘centralismo statale’ che controlla tutto, che sottomette le molteplici differenze alla figura unitaria del Dio-Re. Di tutt’altro segno sono le Panatenee ateniesi. Qui il senso dell’opera è quello del movimento, che si contrappone alla fissità delle figure persiane, qui si vedono i cavalieri chi si accingono a montare in sella, pecore e buoi che vanno verso l’altare, portatori di vasi, musici, fanciulle vergini che recano incensieri e gli eroi mitici che sono alla testa del gruppo delle 12 divinità. Al centro Atena riceve il sacro peplo. Uomini, semidei e dei sono uniti in un unico grande affresco che celebra, apparentemente in modo disordinato, la grandezza di Atene e la libertà dei suoi cittadini. Dal punto vista numerico i bassorilievi di Persepoli sono disposti su 3 fasce alte 0,9 m e che riunite danno una lunghezza complessiva di 125 m. Il fregio di Atene invece misura 1,06 m di altezza per un’estensione di 160 m. Qualunque dimensione si confronti, il capolavoro di Fidia surclassa la creazione dei Persiani.

Rimangono da analizzare i due frontoni e la statua che era costudita nella cella del Partenone. Entrambi i frontoni sono dedicati alla dea eponima di Atene: quello orientale raffigura la sua nascita, avvenuta direttamente dalla testa del suo unico genitore, Zeus, e quello occidentale la disputa tra Atene e Poseidone per il possesso dell’Attica. Sfida chiaramente vinta dalla Pallade. Gelosamente custodita all’interno del Partenone, nel sancta sanctorum a lei dedicato stava la colossale statua di Athena Parthenos, scolpita dall’ingegno di Fidia e che gli diede fama in tutto il mondo ellenico già tra i suoi contemporanei. Alta più di 12 m e mezzo, capolavoro della tecnica crisoelefantina, sparì durante le alterni vicende che coinvolsero il tempio; ne resta testimonianza nelle varie copie costruite a sua immagine. Atena, ritratta in piedi, indossava il peplo e aveva il petto protetto dall’egida con il gorgoneion. Il cimiero dell’elmo era decorato con riproduzioni di cavalli alati, cervi e caprioli, mentre sui paraguance erano visibili grifoni. La mano destra, appoggiata ad una colonnetta per motivi di stabilità complessiva, reggeva una statuetta della Nike, la dea della Vittoria. La mano sinistra teneva invece uno scudo dal quale spuntava un serpente, simbolo di Erittonio, mitico re di Atene dalle gambe serpiformi che aveva istituito le Panatenee. Sui lati dei sandali della dea erano raffigurati Centauri in combattimento, la parte interna dello scudo illustrava scene tratte dalla Gigantomachia e quella esterna era riservata alla lotta tra le Amazzoni e i Greci. La statua si configurava quindi come una suprema sintesi del tempio che la proteggeva.

Eccoci quindi alla fine dell’esegesi del Partenone; un’opera straordinaria dagli immensi e profondissimi significati da qualsiasi punto la si osservi: architettonico, matematico, scultoreo, filosofico, storico e mitico. Dei significati esatti e discriminanti e sì di ampio respiro ma non universali bensì destinati per essere riattualizzati ai diretti discendenti di una comunità di popolo ben precisa che seppe farsi e mantenersi tale. Un messaggio di portata eterna dunque, eterno come il marmo di cui è fatto, che come tutti i messaggi può essere accolto o ignorato ma che cionondimeno resta lì, a esigere comunque una scelta.