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Non solo cattivi maestri, ma anche piccoli

di Francesco Lamendola - 09/03/2019

Non solo cattivi maestri, ma anche piccoli

Fonte: Accademia nuova Italia

Sarebbe lunghissimo l'elenco dei cattivi maestri che hanno diseducato le ultime tre o quattro generazioni di europei, e sarà motivo di stupore e d'incredulità per i posteri capire come mai costoro abbiano trovato non solo il favore del pubblico - ciò, fino a un certo punto, si può capire: piacciono sempre i maestri che rivendicano diritti e tacciono sui doveri, e che additano il Male sempre e solo in forze esterne, magari facilmente identificabili, dispensando le masse a farsi un esame di coscienza, cioè a riscoprire ciascuno la propria individualità di persona - ma abbiano trovato anche l'ammirazione dei poteri costituiti e abbiano avuto la carriera agevolata da quelle stesse istituzioni che avrebbero dovuto riconoscere in essi il virus pestifero che le avrebbe distrutte o svuotate di significato. Vi è una nemesi, nelle età di decadenza, che spinge le classi dirigenti a corteggiare e idolatrare quelli stessi che ne teorizzano la distruzione. Sta di fatto che oggi, se volessimo cercar di capire in che modo la nostra società sia giunta a un tal punto di abbrutimento, di smarrimento di significati, di disprezzo dei valori e di capovolgimento della morale, dovremmo passare in rassegna questa legione di cattivi maestri che, negli anni '60, 70 e '80, ha predicato cose folli e malvagie, o anche semplicemente stupide (la banalità del male…): per esempio, che la pazzia esiste perché esistono i manicomi, e che la delinquenza esiste perché esistono le istituzioni carcerarie, e che le bocciature esistono perché esiste una scuola di classe, brutta e cattiva, che si accanisce contro i figli dei poveri e privilegia i figli dei ricchi. Nella stragrande maggioranza dei casi non si trattava solo di cattivi maestri, ma anche di piccoli maestri: di pseudo intellettuali che non sapevano vedere una spanna più in là della punta del loro naso, anche se mietevano trionfi atteggiandosi a profeti del millennio prossimo venturo.

 Fra questi cattivi e piccoli maestri - ma la scelta è quasi imbarazzante, per quanto è vasta e pressoché inesauribile - un posto d'onore spetta senz'altro a Michel Foucault (1926-1984), acclamato maître à penser di una certa cultura ultra-progressista e libertaria che, dal Quartiere Latino di Parigi, irradiava i lumi della sua saggezza sulla Francia e sull'intera Europa, e anche, di riflesso, su una buona parte del mondo. Chi non ha letto la sua Storia della follia e chi non ha pensato, visto anche il coro quasi unanime di elogi che l'ha accolta e accompagnata, anche da parte del modo accademico, che si tratti di una pietra miliare nella storia del pensiero moderno? E in effetti è così: del pensiero moderno, cioè del non pensiero in cui, almeno a partire da Kant, il distruttore della metafisica, siamo sprofondati. La Storia della follia è uno di quei libri che piacciono ai contemporanei, perché dicono quel che la gente ha piacere di sentire; e che poi continuano a piacere, o almeno ad esser considerati dei classici, semplicemente per pigrizia intellettuale e forza d'inerzia. Altrimenti, qualcuno potrebbe sollevare la scomoda domanda: come mai un libro così banale è riuscito a passare per un classico? E ciò getterebbe una luce non troppo simpatica su tutta una classe intellettuale e su tutta una cultura ufficiale, oltre che sulla contro-cultura giovanile. Meglio, dunque, non sollevare questioni potenzialmente sgradevoli; meglio far finta di nulla: e accettare come geniali le opere di uno dei tanti cattivi e piccoli maestri di quella disgraziatissima stagione di distruzione del pensiero.

Osserva Anna Bianchi su questo aspetto della filosofia di Foucault (in: A.A.V.V., Il discorso filosofico, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2011, vol. 3b, p. 719):

 

Nella sua indagine [cioè, dopo "L'archeologia del sapere", con opere quali "Sorvegliare e punire" e "Microfisica del potere"], Foucault insiste sulla funzionalità reciproca di sapere e potere, presentandoli come "forme inscindibili che si riproducono a vicenda". Infatti, il sapere non solo è utile al potere, ma è anche condizione del suo esercizio; e come il sapere si traduce sempre in un potere, a sua volta l'esercizio del potere produce sapere, produce "giochi di verità" che utilizza per il controllo degli individui.

Secondo Foucault, inoltre, il nesso potere-sapere non si realizza solo nelle grandi istituzioni. Costituisce una pluralità di "microsistemi di potere": è, cioè, diffuso in ogni rapporto tra individui, tramite un sistema anonimo di regole. Non opera solo attraverso apparati come il carcere, ma anche attraverso le istituzioni educative e le comunicazioni sociali: per questo è capace di esercitare una forte pressione sui singoli, incidendo sui modi di pensare ed essere dei soggetti.

Foucault sostiene, allora, la necessità di una molteplicità di centri di resistenza contro i meccanismi che, nei diversi contesti, consentono la diffusione del potere-sapere in ogni aspetto della vita quotidiana. Ed è significativo che tali riflessioni si inseriscano nel periodo del suo attivo impegno a favore dei gruppi marginalizzati.

Dalla metà degli anni settanta, con la "Storia della sessualità" e con i corsi tenuti al Collège de France, Foucault affronta il problema dei rapporti tra sapere, potere e costituzione dei soggetti con un mutamento prospettico. Al riconoscimento della "possibilità di resistenza" nelle relazioni di potere corrisponde, infatti, lo spostamento dell'attenzione da un soggetto passivo - come il soggetto folle o delinquente che si costituisce come conseguenza di un sistema di coercizione - a un soggetto attivo. Così, tramite il confronto con l'etica degli antichi, Foucault giunge ad analizzare "le pratiche di sé" attraverso le quali "l'individuo si costituisce e si riconosce come soggetto".

La "possibilità di resistenza" di questo soggetto attivo si configura - in particolare - come resistenza ai meccanismi biopolitici, espressione della statalizzazione del governo della vita, divenuta nella modernità oggetto del potere. La biopolitica mira, infatti, a regolare la vita biologica della collettività (natalità, igiene, salute ecc.): non intende solo disciplinare il corpo dell'individuo, ma governare il corpo della popolazione, e, quindi, anche la sessualità che - per i suoi effetti di procreazione - è un punto di congiunzione tra dimensione biologica e politica. In risposta al bio-potere, secondo Foucault, occorre "difendere la società".

 

Che dire di questa impostazione del rapporto fra sapere e potere? A noi sembra che Foucault sia stato non solo un cattivo maestro, perché ha dato per presupposto che il potere sia sempre cattivo e la società sia sempre buona (riproducendo il dogma del bambino buono e della società cattiva di Rousseau), e tanto più buona quanto più formata da emarginati: carcerati, immigrati, dissidenti, rifugiati politici e omosessuali; ma che sia stato anche un piccolo maestro, benché a suo tempo venne salutato come un grande maestro, perché nel suo pensiero non fa che seguire le linee di tendenza della contestazione sessantottina e post-sessantottina, aderendo senza alcuna ombra di pensiero critico agli slogan della sinistra giovanile e prendendo a bersaglio della sua critica implacabile un potere, quello statale, che oggi sono in molti a rimpiangere, non avendo egli visto affatto il tramonto dello stato nazionale e l'avvento di un nuovo tipo di potere, finanziario e mediatico, molto più minaccioso e pervasivo, che all'epoca un filosofo avrebbe dovuto almeno intravedere, se fare filosofia è saper guardare lontano e cogliere la totalità e non solo analizzare il presente immediato. Le sue battaglie sono state, insomma, le più facili, le più scontate, le più banali, quelle che consentivano di raccogliere il massimo della popolarità fra i giovani di sinistra e l'élite dirigente progressista, e con il minimo del rischio, o addirittura nessun rischio, anzi, ricevendo onori e stipendi da quelle stesse istituzioni che venivano ferocemente attaccate, denigrate, additate al pubblico disprezzo come retrivi centri di potere. Appare a dir poco paradossale che un intellettuale che spara a zero contro lo Stato, la scuola, gli ospedali, le prigioni, faccia una brillantissima carriera in quello Stato, in quella scuola, in quella università; che se ne vada in Tunisia per stare insieme al suo giovane amante, fuggito nel Paese africano per sottrarsi ai suoi obblighi militari, senza alcun inconveniente per la sua carriera accademica; che vada a cercar di curarsi proprio in quel sistema sanitario, quando verrà colpito da una malattia legata all'AIDS, che lo porterà alla morte; è davvero troppo comodo sputare continuamente nel piatto ove si mangia, e accettare una vita comoda e una carriera ben retribuita da quelle forze che si identificano con la repressione, e alle quali si attribuiscono tutte le colpe possibili, compresa quella di aver creato la follia e la delinquenza. Va bene che si era negli anni della follia collettiva: gli anni di Basaglia, di don Milani, di Qualcuno volò sul nido del cuculo e di Porcile, della Lettera a una professoressa e di Viaggia ad Hanoi di Susan Sontag;  gli anni in cui Milos Forman e Pier Paolo Pasolini presentavano la borghesia come la sentina di tutti i vizi, e lo Stato come il concentrato di tutte le malvagità. Ed erano anche gli anni in cui certe suore lesbiche americane rivendicavano il loro diritto all'amore diverso, e in cui le Brigate Rosse ammazzavano carabinieri, giudici e sindacalisti considerati antipopolari; e in cui un don Giulio Girardi, per esempio, farneticava di cristiani per il socialismo, e i gesuiti sudamericani teorizzavano l'alleanza fra l'analisi marxista della lotta di classe e il Vangelo di Gesù Cristo. Del resto, se si vuol capire il presente; se si vuol cercare di spiegare in che modo la società odierna sia giunta alle presenti aberrazioni intellettuali, spirituali e morali, è da lì che bisogna partire, da quel clima, da quelle idee, da quelle mode, da quegli uomini: dal Concilio Vaticano II per capire la presente degenerazione del cattolicesimo, e dal 1968 per capire la degenerazione della scuola, della famiglia, della società laica. E da quei cattivi maestri: i Rahner, i Schillebeeckx, i Danneels nella Chiesa, i Cohn-Bendit nel mondo studentesco e i Foucault nel mondo accademico.

Ciò detto, resta il fatto che il pericolo di un potere che si alimenta del sapere, esiste, esisteva ed esisterà. Non è un falso problema; è falsa la prospettiva da cui Foucault lo guarda: immaginando, da buon nipotino di Rousseau, Marx e Freud, che il sapere sia cattivo solo se diventa potere, e il potere sia cattivo solo se esercitato dagli "altri", dallo Stato, a danno di una società buona, perché popolata da simpatici soggetti come i delinquenti, i matti, i ribelli, i parassiti, gli anormali. Già: forse il punto è proprio questo. I Foucault, come i Pasolini, come le Beauvoir, come i Ginsberg, vogliono sdoganare la propria anormalità e, per farlo, pretendono di rovesciare tutti i parametri di giudizio, in modo che il brutto diventi bello, il falso diventi vero, il male diventi bene. Non si accontentano di sbandierare la loro anormalità: vogliono estenderla al mondo intero e trasformare in anormali quelli che non ci stanno. Vogliono far passare il folle per genio, e il genio per folle; l'orrido deve diventare meraviglioso e il meraviglioso, orrido. Prendono a prestito la trasvalutazione di tutti i valori di Nietzsche per applicarla a modo loro: al modo cioè dei cattivi nani, mentre Nietzsche era un gigante: talmente grande che non ne hanno capito nulla, se non quella piccola e meschina parte che poteva prestarsi alle loro piccole e meschine aspirazioni. Del resto, Nietzsche aveva ammonito: se l'uomo non riuscirà ad oltrepassarsi, cadrà al di qua e al di sotto di se stesso, e diverrà qualcosa di molto meno di quel che attualmente è. Cosa puntualmente avvenuta - e, aggiungiamo noi, pressoché inevitabile, considerate le premesse.

E adesso, che fare davanti a un potere che si alimenta del sapere, ma non nel senso teorizzato da Foucault, bensì nel senso di una superdemocrazia sempre più intollerante e totalitaria, e sempre più eterodiretta da un superpotere finanziario mondiale, rispetto al quale il potere di cui disponevano gli Stati fino a qualche anno fa, appare come una ben misera cosa? E come reagire al potere di alcune minoranze aggressive – guarda caso, proprio quelle tanto amate da Foucault, e a difesa delle quali immaginava dei centri di resistenza, ben decise a imporre la loro ideologia aberrante all’intero corpo sociale? Questo, Foucault non l’aveva previsto, o forse sì: che gli emarginati di allora sarebbero divenuti i dittatori di oggi. Che immigrati, delinquenti, invertiti sessuali, minoranze e anormali d’ogni tipo avrebbero capovolto la tavola dei valori e imposto all’intera società il loro nuovo paradigma. E mentre i Foucault, negli anni ’60 e ’70 del Novecento, si sentivano gl’intrepidi difensori delle minorane “oppresse” (ma era vero?), e rivendicavano per sé spazi di “creatività” che erano, poi, semplicemente spazi dove esplicitare la loro inversione - non solo sessuale, ma intellettuale, estetica, morale -, senza dubbio il vero potere, quello finanziario, li aveva già individuati e già puntava su di loro per condurre la sua prossima battaglia, quella che si sta ora svolgendo sotto i nostri occhi: la battaglia per assestare alla società la spallata definitiva verso il caos sistematico e irreversibile, grazie al  quale tali minoranze si fanno utili strumenti della dittatura finanziaria e quest’ultima porta a termine il disegno strategico, perseguito da secoli, di assoggettare totalmente l’umanità. Del resto, qualche sospetto avrebbero dovuto averlo già allora, quei paladini delle minorane “indifese”: come mai tanti tappeti rossi svolti innanzi a loro, nei palazzi del potere?