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Nuovo cinema paraculo: l’estetismo del degrado

di Christian Raimo - 22/11/2006

 

Nel cinema italiano, dalla fine degli anni ’90 è cominciata a riapparire la bruttezza. I corpi sfatti, le città oscene, la lingua sporca. Nei film di Alessandro Piva, Roberta Torre, Daniele Vicari, Matteo Garrone, Ciprì e Maresco… si riscoprivano luoghi e facce che sembravano essere spariti: macilenti, nani, grassi, sdentati, sessualmente deformi che vivevano tra Villaggio Coppola, Iapigia, l’hinterland milanese, le neo-baracche romane. Consapevole o istintiva, era una scelta visiva chiara e spiazzante, che si opponeva con radicalità alle due estetiche che hanno dominato il cinema italiano degli ultimi quindici anni: i begli arredi delle micro-tragedie famigliari della borghesia in crisi d’identità sociale e politica (da Moretti a Muccino, da Calopresti alla Comencini) e la deriva iper-televisiva, a tinte pastello, natalizia o balneare, dei film dei comici (a chi tra Pieraccioni, Panariello, Ceccherini, i Fichi d’India… non ne è stato concesso almeno un paio?).
Mentre i luoghi reali dell’Italia subivano un’operazione di comodo saccheggio, mentre i patrimoni artistici venivano dati in pasto alle cartolarizzazioni, e mentre la maggior parte degli italiani si confrontavano invece, tra attrazione e snobismo, con gli standard nazional-palestrati del Grande Fratello, il brutto semplicemente spariva dalla rappresentazione o veniva relegato alla sua versione più innocua e scontata: la macchietta, lo sgorbio, il secchione.
La sfida della nuova generazione di registi italiani è stata al contrario quella di dar visibilità a questa sconcezza, ostentare una “malattia” italiana, corporea, fisica ancora prima che sociale. Esporre e denunciare così una trasformazione antropologica avvenuta non a causa di una rovina civile, ma di un disfacimento innanzitutto estetico. Questa prassi artistica ha funzionato fino a ieri, finché, pare, – caduto Berlusconi, l’icona della caricatura al potere – questo sguardo da illuminazione del mostro è diventato estetismo del degrado. Dopo gli ultimi film della Torre, di Crialese, di Garrone, la conferma viene dall’ultimo di Paolo Sorrentino. L’amico di famiglia è purtroppo questo: un film di maniera sul disastro, un racconto che non è più empatico e satirico, ma sconfina con la leziosità.
Chi è il protagonista dell’Amico di famiglia? Un orrido figuro, gobbo, con un braccio rotto, che vive in una casa miseranda con una madre balena opprimente e allettata, si nutre solo di dolciumi, parla citando Selezione del Reader’s Digest, e presta denaro a strozzo a una congerie di questuanti: vecchine che si fingono malate terminali per poter ottenere ancora soldi per giocare a bingo, genitori che vorrebbero riscattare una vita di umiliazioni organizzando per la figlia un matrimonio che riceva l’elogio dei parenti, giovani coppie che si lasciano umiliare pur di preservarsi nel mito della felicità Ikea… Tutto questo a Latina, nella provincia del declino industriale, dell’assenza di possibilità di riscatto sociale, tra le costruzioni dell’architettura fascista, monumenti a un tempo che già era parodia della classicità.
Senza dircelo, Sorrentino ce lo esibisce: che cos’è questo panorama se non l’Italia? Un paese di indebitati, di analfabeti di ritorno, di gente che vive beatamente nella merda se può sfoggiare una facciata di sedicente benessere. E, come già nell’Uomo in più e nelle Conseguenze dell’amore , si dimostra un regista che sa portare alla luce il tessuto carsico delle attuali relazioni umane, il declino ridicolo e forse commovente di una civiltà già non particolarmente progressiva, tra desideri di esibizionismo e forme di sopravvivenza immoralissime. Capace, straordinariamente capace di fotografare con un’altissima definizione lo sfacelo di un comunità corrotta nelle viscere e deflagrata, che idolatra il culto del denaro senza aver sviluppato il minimo senso di coesione sociale né di dignità individuale.
Ma poi, ecco ciò che lascia delusi. Quando sceglie di sviluppare questo ritratto (tagliente, dolorosamente politico) calcando sui colori saturi, sulla distorsione dei tempi e degli spazi, sull’innaturalezza di questo scenario. E lo allontana da noi in definitiva, ne fa un racconto marziano, consolatorio in quanto eccessivo, sempre sospeso in un pulviscolo onirico, surreale. Accontentandosi di aver girato un film schiettamente d’autore, con musiche esaltanti (Teho Tehardo e Anthony and the Johnson), un montaggio da trailer, fatto di scene troppo autonome (Giogiò Franchini) e una fotografia troppo esposta (Luca Bigazzi). Quel che ne viene fuori è un prodotto grottesco, un esperimento stilistico condotto sulla realtà di serie b, un’occasione apparentemente mancata. Quella di pensare che l’emersione dell’osceno va cercata soprattutto in noi, nel tumore inconfessato di un’avidità diffusa, di un darwinismo sociale davvero bestiale. In una società (la nostra Italietta contemporanea) che si è scoperta mai così povera di speranze, e di reale credulità.