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La Cina è lontana ma troppo inquinata

di Carlo Petrini - 30/01/2007

Fonte: slowfood

Se si cercano notizie sulla Cina agricola si vengono a sapere cose allucinanti. Per esempio che lungo il fiume Zhangweixin, nel Shandong settentrionale, i contadini irrigano i campi con acqua fetida, nera come inchiostro e coperta di schiuma. Acqua che bevono pure, sempre che non riescano a scavare pozzi ad almeno 25 metri sottoterra. Nel villaggio di Sinusi, il fiume nero puzza da strozzare il respiro e Yin Yugui, capo locale del Partito dichiara: “L’acqua ha un sapore amaro e acido, ma non ne abbiamo altra”. Mentre un inquietante Zhang Dexin, capo del dipartimento economico dell’Università di Dezhou, gli fa da pazzesco contraltare: “Il 75% della popolazione lavora in agricoltura, ma contribuisce solo per il 4,4% al Pil. Abbiamo bisogno di grandi impianti chimici ed energetici per far crescere l’economia e assorbire i lavoratori rurali. Un certo grado di inquinamento può essere tollerato”.

Sì, peccato che i dati ormai ci parlino di una Cina con il 90% dei suoi fiumi e laghi molto inquinati, di 320 milioni di contadini che non hanno accesso a fonti di acqua potabile, di 190 milioni che attingono acqua inquinata oltre i limiti consentiti. Il tutto in un Paese gigantesco, che però ha soltanto l’8% delle risorse idriche mondiali per mantenere quella che rappresenta il 22% della popolazione del pianeta. A fine 2006 il governo cinese ha reso noto che nel 2005 ci sono state 87.000 proteste pubbliche dei contadini contro le grandi imprese che inquinano i loro territori, molte delle quali sfociate in scontri violenti con la polizia.

In Cina lo sviluppo rurale è stato posto in secondo piano negli ultimi anni rispetto alla fenomenale crescita della produzione industriale, privilegiata tanto da indurre un noto economista cinese, Wen Tiejun, a dire che è stato “lo sfruttamento brutale degli abitanti delle campagne a rendere possibile il processo di accumulazione del capitale che ha permesso l’industrializzazione accelerata, ed è ora che i contadini comincino a ricevere qualcosa in cambio. Si può dire che il processo di colonizzazione che ha consentito alle grande potenze mondiali di arricchirsi e dominare è stato condotto dalla Cina sulla sua stessa pelle, in una sorta di auto-colonizzazione”.

Una tesi dura e sorprendente, per molti di noi che viviamo avulsi da quella realtà, e continuiamo a guardare al mondo agricolo non pensando a ciò che accade in Cina: un qualcosa che moltiplica in maniera esponenziale ogni problema che possiamo cercare di fronteggiare qui da noi. Ci arrabattiamo, cominciamo a capire che il nostro stile di vita, produzione e consumo, va cambiato e studiamo alternative: intanto la Cina va per conto suo, pare, verso un destino peggiore delle nostre più cupe previsioni. Cercare di occuparsene, pur tra le difficoltà che si incontreranno, deve diventare un’assoluta priorità.

Tratto da Agricoltura - La Stampa, del 28/01/2007