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Incantati dalle sirene perché sono come noi (recensione)

di Ugo Leonzio - 10/04/2007




MITI. Un libro di Maurizio Bettini e Luigi Spina indaga sui mostruosi esseri, metà donna e metà uccello (o pesce), il cui canto d’amore si risolve in morte. Il fascino per un essere fantastico frutto di una «combinazione» genetica come i viventi

Vi piacerebbe andare a letto con un pollo? Un pollo antropomorfo, con viso e occhi bellissimi, sorriso inquietante, busto e inguini perfetti come una scultura di Prassitele, un pollo con il fascino del «satiro danzante» miracolosamente ripescato nelle fredde acque di Sciacca? Un pollo dotato di una qualità enigmatica e terribilmente seduttiva? Non dovete sentirvi un porco, se la cosa vi può tentare.
A cuccia sotto piumini e coperte, avvolti dal calduccio della vostra camera da letto o cullati da un fresco zefiro primaverile, allungate un piede verso la compagna che vi dorme accanto, ne sfiorate la pelle rasposa, lo sperone adunco, le ali spiumate e vi riaddormentate felici, come tutte le prede. Prima che la notte tramonti sarete divorati, incassando così la parte del mito delle Sirene che avete cercato e vi siete meritati. Perché quell’essere ibrido, metà sesso e metà pollo è una Sirena, la Sirena che è arrivata fino a noi dal mito di Odisseo e di Giasone. È lei che vi addormenta con una ninna nanna, il canto più pericoloso che un umano possa ascoltare. Il canto che non si può dimenticare come la voce, la bocca, le labbra amorose che ce l’hanno sussurrato. Ci inizia alla nascita, ci accompagna dentro la morte. È il canto, tutto quello che sentiremo dopo sarà solo una variazione o un mirabile lamento.
Così, nessuno potrà mai convincervi che quella creatura adorabile per cui avete dato la vita e che vi ha offerto il tenue nepente del suo seno è un mostro. Quel canto inerme che non significa nulla è il segreto delle Sirene, la malìa che attira gli uomini nella loro alcova irta di ossa e papaveri e li fa naufragare nell’Ade.
Per aver scritto uno dei libri più affascinanti sulle Sirene che oggi possiate leggere (Il mito delle Sirene. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, pagine 268, euro 17,60) Maurizio Bettini e Luigi Spina, addentrandosi in una storia che porta diritti a uno dei recessi più nascosti della nostra mente, devono aver conosciuto il profumo dell’assenzio caprigno che emana dal loro sesso inviolato, l’odore dell’Ade da cui provengono. Questi polli umiliati e offesi, dal canto però prodigioso, tenero, sospeso come i morsi e il sangue o l’inedia con cui d’improvviso svaniva. L’estasi violenta del mare rubava gli ultimi istanti a quella nenia mortale.
Di tutti i miti, quello delle Sirene è il più tenace, il più misterioso, il vero cuore del mondo mitico (se in quel mondo qualcuno avesse un cuore) perché unisce due enigmi, il canto e la seduzione, con il laccio inesplicabile della morte. Quale incantesimo indossa questa storia cucita nell’abito della paura, della sconfitta, del suicidio per piacerci al punto di trasformarla in un mito di seduzione e pericolosa armonia?
Le Sirene non nascono da una passione fuori misura, come il Minotauro, guardiano dei misteri d’amore ma da una punizione e come tutte le punizioni, sul divino Olimpo come tra noi, era di certo immeritata. Il dono del canto, dannazione delle Sirene, deriva da Melpomene, una Musa che già nel nome esibisce il destino musicale della stirpe. Il padre è incerto, come sempre nei labirinti romanzeschi del mito che contiene tutte le trame, le ambiguità e le possibili variazioni degli accoppiamenti. Affascinante, come possibile padre, è il dio fiume Acheloo, che scorre tra l’Acarnania e l’Etolia, che ha il potere di trasformarsi, prendendo infinite forme. Per le Sirene, interpretò il ruolo del toro che non era uno dei suoi più riusciti. Perse una lotta con Eracle, che gli strappò una delle corna. Da quel sangue, raccolto da Chthon, la dea Terra, linea di confine tra la superficie dei mortali e il mondo infero, avrebbero preso vita le Sirene. Quel confine, però non esisteva per loro e l’autorità di Sofocle e di Platone ci svela un’altra angosciante paternità, cioè Forco, figlio del mare, Ponto, e di Chthon, la terra. Questa paternità è il primo indizio a rivelare la nostra passione per le Sirene, una predilezione che si appaga mescolando l’armonia con il mostruoso.
Forco genera mostri con Chton e noi abbiamo alle nostre spalle una scimmia cannibale che ha imparato a pregare gli dei e a riconoscerne la violenta bellezza. Accoppiandosi con la sorella Ceto, Forco mette al mondo le due Graie, vecchie signorine canute fin dalla nascita, le tre Gorgoni, Echidna, la fanciulla serpente che genera a sua volta Cerbero, Chimera, la Sfinge. Forco (e Ceto) creano anche il serpente innamorato dei pomi delle Esperidi.. Nel frattempo, il fratello di Forco, il delicato zio Taumante, ugualmente versato nell’immaginazione teratologica, fa partorire ad Elettra le Arpie più veloci del vento, in un sogno. Che contiene anche Scilla, generata da Forco, Ecate ed altri pargoli e pargoletti.
Ma di questi loro parenti, le Sirene, quando per la prima volta videro la luce nel triangolo delle Muse, tra la Pieria, l’Olimpo e l’Elicona, ben poco potevano immaginare. Erano signorine alate, gelose della loro verginità e fornite di strumenti musicali come il flauto libico, la cetra, la zampogna di Pan con cui celebravano gli eroi defunti, quando Persefone le ingaggiava. Il loro disprezzo verginale per l’amore aveva attirato l’odio di Afrodite. La punizione era solo una questione di tempo.
Quando Ade sbucò dagli inferi come un’orca buia per rapire Proserpina, le Sirene se la diedero a gambe. Persefone le inseguì fino a Cuma, terra di Apollo, e fece penetrare in loro le zampe sgraziate, i rostri e le penne ruvide delle galline. Preservò il volto, il resto del corpo e il canto che non avrebbe più celebrato gli eroi ma sedotto e ucciso i naviganti. Poi, tra inganni e delusioni l’instancabile vendetta di Afrodite le avrebbe spinte a una disastrosa gara di canto con le Muse, che per disprezzo si incoronarono con le loro penne. Ma questo ormai aveva poca importanza, avevano incontrato la loro divina infelicità. Non restava che aspettare l’ultima sconfitta come assassine e seduttrici, per mano di Odisseo, e gettarsi nel mare.
Cosa resta delle Sirene? La seduzione di un canto che uccide e che nessuno ha mai sentito? Scogli biancheggianti nell’instancabile spuma? Immagini raccapriccianti e malinconiche uscite dall’immaginazione di Tod Browning e Diane Arbus che si sarebbero volentieri lasciati morire, con un’oliva e un Martini, tra cumuli d’ossa sulla spiaggia di Anthemoessa, l’isola delle Sirene elusiva e inafferrabile come il loro profumo?
La singolarità, l’elemento affascinante di questo mito è che un canto più silenzioso del silenzio abbia attraversato il tempo senza che nessuno sia mai riuscito ad ascoltarlo. Non solo, ma che abbia potuto legarsi indissolubilmente a Eros attraverso l’orrore.
Il mito delle Sirene rovescia qualsiasi idea, profonda, raffinata spirituale ci siamo mai potuti fare della bellezza, che nulla ha da spartire con l’enfasi obesa e scorreggiona dei musei.
Perché, osservandole con i loro corpi e il loro canto in azione su vasi, crateri, stamnos o lekythos siamo sospinti in una zona della mente che stentiamo a riconoscere, dove ci attrae qualcosa che abbiamo sempre riconosciuto come brutto, disarmonico, mortuario? Non si tratta di sogni dove il bello e il brutto si inseguono esclusivamente tra l’ordito e la sintassi delle nostre paure. In questa zona della mente, che di rado visitiamo perché sfugge anche a Mnemosine, la memoria, non incontriamo volti, parole o suoni, ma pulsioni che di gran lunga le precedono. Qui, Eros e Thanatos travestiti da donna come Dioniso e il suo corteo, giocano a sbranare, distruggere, sfondare, penetrare senza fine ispirati dall’energia del cosmo.
Se volessimo usare la ragione per capire il mito delle Sirene dovremmo chiederci non perché cantano, ma perché uccidono e perché questa mortale seduzione dell’armonia è diventato un mito.
A cosa serve un canto che uccide? Di quale piacere, di quale gioia o di quale dolore si nutrono queste assassine? Forse hanno imparato ad amare la loro punizione. La loro naturalezza, la loro sapienza, il loro orgoglio nel saper sedurre non con l’arte del canto ma con quella della morte, ci farebbe credere di sì, soprattutto perché non hanno alcuno scopo per farlo, escluso quello vertiginoso di sperimentare il potere inspiegabile del loro canto funesto.
Forse è questo potere a incantare gli incauti viaggiatori. Anche il più miope dei marinai vedrebbe subito, dalla nave, i mucchi di ossa, i teschi che marciscono al sole e gli uccelli golosi che beccano gli avanzi. Tuttavia, preferisce levarsi gli occhiali, girare il timone verso l’isola e gettarsi in acqua verso quelle impassibili ebbrezze d’estate. Sa di dover morire questo stupido viandante ma la paura dell’Ade diventa per lui un invito a condividere per sempre la mostruosità delle Sirene, dimenticando l’intensa felicità del sole. Quello che credeva bello, ora appare vecchio e maleodorante e le fanciulle alate non più polli spennati ma forme senza più regole o peccati.
Approdare sull’isola delle Sirene, qualunque essa sia, significa scoprire una legge fondamentale non del mito ma del cuore. Molte combinazioni immaginarie, sfingi, sirene, chimere centauri, demoni angeli, licantropi che uniscono parti diverse di animali per creare esseri fantastici, hanno sempre nutrito la mitologia e le religioni emergendo dalle parti più intime della nostra memoria. La biologia ha scoperto che questa intuizione corrisponde a una possibilità statistica e che noi, insieme a tutti gli esseri viventi costituiti di cellule nucleate, siamo con ogni probabilità creature composite nate dalla fusione di creature diverse. Le cellule del cervello umano che hanno concepito queste creature sono esse stesse sirene, chimere, fusioni di differenti tipi di procarioti un tempo indipendenti e poi evolutisi insieme.
Noi, dunque, siamo Sirene. Chi l’avrebbe mai detto?