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Il riscaldamento terrestre: un fenomeno naturale o un fatto imputabile all’uomo?

di Giuseppe Licandro - 12/06/2007

Fonte: bottegaeditoriale

Le notizie sulla progressiva crescita della temperatura del pianeta
hanno aperto il dibattito intorno alle cause e ai rimedi più efficaci
L’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) – il gruppo di oltre duemila scienziati che, per conto dell’Organizzazione delle Nazioni unite, studia da tempo il surriscaldamento del pianeta – ha recentemente pubblicato il suo quarto rapporto sulla situazione ambientale, nel quale ha drammaticamente previsto che la temperatura della Terra si accrescerà da 1,8 a 4 gradi centigradi entro il 2100 (per leggere il testo, clicca qui).
L’ipertermia sta già comportando l’inasprirsi di fenomeni naturali devastanti – come alluvioni, uragani, scioglimento dei ghiacciai, desertificazione, ecc. – e sta provocando anche un sensibile innalzamento del livello e della temperatura dei mari (con conseguenze che potrebbero divenire catastrofiche, tra cui l’inondazione di vaste aree del pianeta e la scomparsa di molte specie ittiche).
Gli esperti dell’Ipcc sono convinti che «l’aumento dei gas serra è dovuto principalmente alle emissioni derivanti dai combustibili fossili, dall’agricoltura e dai cambiamenti d’uso del terreno». Ma non tutti su questo punto – come vedremo – sono d’accordo.

I limiti dello sviluppo
La “questione ecologica” ebbe inizio verso la fine degli anni Quaranta dello scorso secolo, quando Aldo Leopold, uno dei padri dell’ambientalismo moderno, pubblicò l’Almanacco di un mondo semplice (Red edizioni), un saggio a carattere filosofico in cui tratteggiò un’«etica della terra», che, secondo un’interpretazione olistica della biosfera, metteva in guardia sui rischi insiti nello sviluppo industriale incontrollato.
I temi ecologici furono riproposti con forza a partire dal 1972, allorché il Club di Roma – un’associazione di studi internazionali fondata alcuni anni prima da Aurelio Peccei – affidò al Massachusetts Institute of Tecnology il compito di indagare, attraverso un modello di simulazione al computer, le conseguenze che la crescita demografica e l’incremento della produzione e dei consumi avrebbero potuto avere sull’habitat terrestre. Ne venne fuori un famoso resoconto, dal titolo Rapporto sullo stato dell’ambiente, nel quale si paventava che «l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i prossimi cento anni».
Secondo il Club di Roma, quindi, la crescita economica non poteva considerarsi illimitata, data l’insufficiente disponibilità di risorse naturali, anzi si dovevano preventivare, in caso di un continuo incremento delle attività produttive, gravi pericoli per la vita dell’intero pianeta, quantomeno nell’arco di un secolo.
Questo rapporto, come hanno rilevato gli storici Alberto De Bernardi e Scipione Guarracino, «evidenziò con chiarezza tali rischi, sottolineando l’eventualità che risorse naturali di primaria importanza potessero esaurirsi entro poche decine di anni e che il ritmo di crescita della popolazione potesse rendere tale situazione incontrollabile ed esplosiva» (La conoscenza storica. Manuale fonti storiografia. 3. Il Novecento, Bruno Mondadori).

Da Rio a Kyoto
Queste previsioni allarmarono a tal punto l’Onu, da indurla a convocare a Stoccolma – sempre nel 1972 – la Conferenza sull’ambiente umano, che approvò un piano di interventi per tutelare gli ecosistemi. Tuttavia, la susseguente crisi petrolifera e l’avvento del neoliberismo misero per oltre un ventennio in sordina le richieste ambientaliste, anche se nel frattempo sorsero numerose associazioni che iniziarono a battersi per la difesa della natura (tra esse ricordiamo in particolare World wildlife fund, Greenpeace e Legambiente).
Soltanto a partire dal 1992 l’Onu affrontò seriamente i problemi ecologici, organizzando la Conferenza su ambiente e sviluppo (Unced), che si svolse a Rio de Janeiro e che approvò una Dichiarazione in 27 punti (per leggerla, clicca qui) e stilò l’Agenda 21, un programma d’azione per garantire lo sviluppo sostenibile (tuttavia, non contenendo impegni precisi sul piano finanziario, né sanzioni per gli stati inadempienti, questo progetto ha finora inciso poco).
La nuova sensibilità ecologica ha successivamente portato, l’11 dicembre del 1997, all’approvazione del celebre Protocollo di Kyoto, un documento redatto durante la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, nel quale sono state indicate le misure più idonee per ridurre le emissioni di alcuni gas (anidride carbonica, metano, protossido di azoto, esafloruro di zolfo, idrofluorocarburi, ecc.), ritenuti da molti studiosi i principali responsabili dell’“effetto serra” (per leggere il testo integrale del Protocollo, clicca qui).
L’obiettivo fissato dal documento è una riduzione media del 5,2% dei livelli di emissione di “gas serra” nel periodo compreso fra il 2008 e il 2012, limitatamente ai paesi più industrializzati. Tuttavia, l’accordo di Kyoto non è stato ancora ratificato da alcune tra le nazioni più ricche (come gli Usa e l’Australia) e non è vincolante per i paesi in via di sviluppo.

Il dibattito sul surriscaldamento
Una parte della comunità scientifica sta cercando di rassicurare l’opinione pubblica sulle cause del riscaldamento globale. Antonino Zichichi, noto fisico italiano, ha recentemente messo in discussione il valore del Protocollo di Kyoto e le stesse conclusioni del rapporto dell’Ipcc, sostenendo nell’articolo Il clima non è matematico (pubblicato su italiachiamaitalia.com) che: «Un’analisi sulle variazioni climatiche dei periodi trascorsi, da milioni di anni fino a pochi secoli fa, dimostra che i raggi cosmici influiscono molto sul destino del clima, ma nessun modello matematico ha finora introdotto questa variabile» (per leggere tutto il testo, clicca qui).
Altri studi hanno dimostrato che esiste un oggettivo riscaldamento globale del sistema planetario, riconducibile alla maggiore energia emessa progressivamente dal Sole nel corso dell’ultimo secolo, per cui non andrebbe enfatizzata troppo la responsabilità degli esseri umani.
Il fronte ambientalista, invece, continua ad accollare all’uomo la maggiore responsabilità per l’“effetto serra”, attribuendolo all’inquinamento industriale e sostenendo, in sintonia con gli esperti dell’Ipcc, che bisogna intervenire urgentemente per ridurre in modo drastico le emissioni di gas nell’atmosfera. Greenpeace, a tal proposito, ha divulgato di recente il rapporto Energy [r]evolution: a sustainable world energy outlook, redatto insieme all’European renewable energy council, nel quale auspica l’avvento di una «rivoluzione energetica», che consenta di diminuire considerevolmente, in un quarantennio, l’inquinamento atmosferico (per leggere la sintesi del rapporto, clicca qui).
Su posizioni analoghe si colloca Paul Sandifer, uno dei più autorevoli studiosi degli habitat oceanici, che in una intervista rilasciata a Paolo Pontoniere (S.o.s. Oceani, pubblicata su l’Espresso, n. 11, 2007) ha espresso le seguenti considerazioni: «È l’insieme delle attività umane e industriali che crea questa situazione di grave squilibrio. [..] A causare la maggioranza dei problemi oceanici è l’effetto serra che innalza ovunque la temperatura delle acque».

Il petrolio e le fonti alternative
Oltre al riscaldamento globale, un altro grave problema incombe sul futuro dell’umanità: la questione energetica. Il petrolio, infatti, è destinato a esaurirsi entro un lasso di tempo relativamente breve, per cui sarà necessario attrezzarsi con fonti energetiche alternative.
Le soluzioni praticabili sono molteplici. Si può ritornare al consumo di carbone, che però è un minerale costoso e altamente inquinante. Oppure costruire nuove centrali nucleari, le quali – pericolo di incidenti a parte – lasciano comunque irrisolto il problema dello smaltimento delle scorie radioattive (che hanno tempi di decadimento lunghissimi e finiscono per essere spesso interrate o inabissate nei fondali marini). O, ancora, far ricorso alle cosiddette “fonti rinnovabili”, producendo energia e calore attraverso le centrali idroelettriche, eoliche e fotovoltaiche, i pannelli solari, le biomasse e le sorgenti geotermiche.
Tuttavia, in quest’ultimo caso, bisognerà aumentare gli investimenti nel settore delle “fonti rinnovabili” – ancora insufficienti per far fronte pienamente alla domanda energetica – e modificare le abitudini consolidate in gran parte della popolazione mondiale, soprattutto nei paesi più ricchi (basti pensare a quanto siano diffusi i condizionatori d’aria o gli impianti di riscaldamento a gas nelle case e negli uffici pubblici italiani).
Sarebbe importante, inoltre, riuscire a far circolare nelle città più automobili ecologiche (elettriche o a idrogeno), che, pur essendo già disponibili, stentano a diffondersi, sia per gli alti costi, sia per l’ostracismo delle lobby petrolifere.

Il risparmio energetico
Senza entrare nel merito delle discussioni scientifiche, riteniamo che la situazione ambientale sia veramente grave, indipendentemente dalle cause che hanno più o meno inciso sul surriscaldamento del pianeta.
È indubbio, infatti, che l’inquinamento prodotto dalla moderna società dei consumi ricade negativamente sulla qualità della vita e sulle sorti di miliardi di individui, come ha ricordato qualche tempo fa Giulietto Chiesa, nell’articolo La geopolitica fra i quattro giganti della terra, apparso su Megachip.info: «Se continuiamo a consumare tutto, energia e ogni tipo di risorse, ai ritmi attuali, noi altereremo irrimediabilmente i contorni dell’ambiente in cui viviamo. Cioè metteremo a repentaglio la esistenza di milioni, anzi di miliardi di persone» (per leggere il testo completo, clicca qui).
Da tempo, del resto, molti esperti ripetono che bisogna ridurre i consumi superflui, adottando forme semplici, quanto intelligenti, di risparmio energetico. Per esempio: utilizzare lampadine ed elettrodomestici a basso consumo, eliminare gli inutili stand by dai televisori e dai computer, servirsi maggiormente dei trasporti pubblici, praticare accuratamente la raccolta differenziata e il riciclaggio dei rifiuti solidi, evitare lo spreco inutile dell’acqua corrente, ecc.
Jeremy Rifkin, noto ambientalista statunitense, ritiene inoltre che bisognerebbe anche ridurre gli allevamenti intensivi di bovini e i relativi consumi di carne. Nell’articolo Rivoluzione vegetariana (pubblicato su l’Espresso, n. 3, 2007), egli ha così motivato le sue asserzioni: «La zootecnia in crescente espansione è divenuta un flagello mondiale di proporzioni epiche. I soli bovini stanno divorando interi ecosistemi. Molte foreste tropicali, come accade ad esempio in Amazzonia, vengono abbattute per far posto ai pascoli, che stanno erodendo ovunque le terre coltivabili». Senza dimenticare, tra l’altro, che gli allevamenti intensivi generano ben il 18% dei “gas serra” totali.

È possibile un “altro mondo”?
Forse bisognerebbe fare ancora di più e riappropriarsi di un tenore di vita sobrio ed equilibrato, valorizzando l’agricoltura biologica, il commercio equo-solidale, la finanza etica, la convivenza pacifica tra i popoli (come da tempo sostengono le associazioni ambientaliste e pacifiste le quali prendono parte periodicamente al Forum sociale mondiale, che quest’anno si è tenuto a Nairobi, in Kenya).
Ricordiamo, a tal proposito, le tesi del sociologo e antropologo francese Serge Latouche, il quale è convinto che, per evitare di strangolare definitivamente la vita sulla terra, si dovrebbe nell’immediato futuro passare dalla “crescita” alla “decrescita”, tornando, almeno in Occidente, ai livelli di consumo degli anni Sessanta del Novecento. Nel libro Altri mondi, altre menti, altrimenti (Rubbettino) egli ha altresì chiarito le ragioni etiche di tale opportuna inversione di tendenza: «La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare l’ambiente ma anche per ripristinare il minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è condannato all’esplosione».
Utopie? Forse. Può darsi che i “catastrofisti” si sbaglino, eppure non sembra esagerato sostenere che i «limiti dello sviluppo sostenibile» stiano ormai per essere raggiunti, anche perché la globalizzazione economica ha coinvolto nazioni fittamente popolate, come la Cina e l’India, le quali incidono sempre più sull’inquinamento complessivo del pianeta.
Qualcosa, comunque, inizia a muoversi: i ministri dell’Ambiente dei ventisette stati membri dell’Unione Europea, riunitisi nello scorso febbraio a Bruxelles, hanno infatti raggiunto un’intesa per superare i parametri stabiliti a Kyoto, impegnandosi entro il 2020 a ridurre le emissioni di gas serra del 20% (rispetto al 1990). L’accordo è stato successivamente ratificato dal Consiglio europeo, formato dai capi di Stato e di governo della Ue, che ha approvato un piano d’azione per arginare il cambiamento climatico in atto, promettendo di intensificare il ricorso alle fonti energetiche rinnovabili.
Riguardo all’Italia, l’attuale governo ha approvato un piano nazionale per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica tra il 2008 e il 2012, che ha subito tuttavia alcune integrazioni da parte della Commissione della Ue: quest’ultima, infatti, ha chiesto al nostro paese di diminuire ulteriormente le emissioni consentite dai 209 milioni di tonnellate previste a 195,8. Sono i primi passi – ancora insufficienti, ma comunque incoraggianti – che vanno nella direzione auspicata da più parti: si tratta adesso di rendere effettivamente operative le decisioni prese a Bruxelles e di convincere gli stati refrattari a rispettare i parametri stabiliti a suo tempo a Kyoto, estendendo il Protocollo anche alle potenze industriali emergenti.


(direfarescrivere, anno III, n. 16, giugno 2007)