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Donne celebri del mondo antico: Galla Placidia

di Francesco Lamendola - 21/09/2007

 

 

 

     Il titolo di questa trattazione può generare un dubbio preliminare. Infatti, con Galla Placidia - nata verso il 389 e morta nel 450 d. C. - siamo ormai alla fine del mondo antico e alle soglie del Medioevo. Sono pochi gli studiosi che mantengono ancora la data del 476 (ossia la deposizione di Romolo Augusto da parte di Odoacre) come cerniera fra le due grandi età della storia occidentale - ché l'Oriente, a cominciare dall'India, esula da tali ripartizioni cronologiche. Alcuni, sulla scorta del Brown, hanno coniato il termine tardo antico che, estenso alla storia dell'arte e a quella letteraria, abbraccia i cinque secoli che vanno dalla grande crisi romana dopo gli Antonini alla folgorante comparsa degli Arabi sulla scena dell'Occidente.(1) Per quanto riguarda la storia, più limitata, dell'Italia, si può ragionevolmente porre la fine dell'Antichità e l'inizio del Medioevo al tempo dell'invasione longobarda, nel 568; infatti il regno ostrogoto ha sostanzialmente conservato le strutture sociali e politiche della tarda antichità, a cominciare dal Senato e dai consoli, mentre saranno Alboino e i suoi successori a introdurre una brusca frattura nel tessuto politico-sociale italiano - essi che non sentivano affatto, o solo in minima parte, quel rispetto e quell'ammirazione per la civiltà romana che aveva ispirato, invece, l'azione di governo di Odoacre e, poi, dello stesso Teodorico. Considerate le cose in questa prospettiva, l'ultima figura notevole - e tragica - di donna del mondo antico è probabilmente quella della gota Amalasunta, la nobile e intelligente figlia di Teoderico che invano si sforzò di conservare, in circostanze personali e politiche sempre più avverse, la parte migliore dell'erdità politica di suo padre: quella civile e ordinata convivenza fra Goti e Italiani che avrebbe portuto, nel tempo, avviare una progressiva integrazione fra i due popoli e le due tradizioni.(2) Se ciò non avvenne, fu una sciagura che il nostro paese ha pagato a carissimo prezzo, con una storia di divisioni interne e di facile ricorso all'intervento straniero cui non basteranno secoli e secoli di sventure nazionali per porre rimedio.

     La vita di Galla Placidia è particolarmente interessante non solo sul piano personale, ma perché lo studio di essa offre uno spaccato quanto mai suggestivo di quella difficile epoca di trapasso che va dalla fine dell'unità politica del mondo mediterraneo alle grandi invasioni barbariche (ecco ancora un problema metodologico: gli storici tedeschi preferiscono chiamarle Wolkerwanderung, ossia "migrazioni di popoli") da cui nascerà, sulle ceneri dell'Impero Romano d'Occidente, l'Europa moderna, cristiana e romano-germanica. Figlia dell'imperatore Teodosio I, sposa di Ataulfo, re dei Visigoti, e poi del generale Costanzo, alla morte di Onorio fu reggente per il figlio di Valentiniano III, ultimo sovrano della dinastia teodosiana in Occidente. Il grande pubblico, tuttavia, generalmente la conosce non per il suo ruolo storico, ma per il mausoleo di Ravenna che porta il suo nome e nel quale, ironia della sorte, probabilmente non fu mai sepolta. Esso costituisce una delle meraviglie dell'arte paleocristiana del V secolo, un capolavoro assoluto che qualunque Italiano di media cultura dovrebbe aver visitato almeno una volta, in quell'incredibile forziere di gioielli inestimabili che è la città in riva all'alto Adriatico, che per una breve stagione fu la capitale dell'Impero Romano d'Occidente e, poi, residenza di Teodosio e degli esarchi bizantini.

      Teodosio, il padre di Galla Placidia, era assurto all'Impero in circostanze gravissime per lo Stato romano. (3) Nel 378 l'imperatore d'Oriente, Valente, non aveva voluto attendere i rinforzi di suo nipote Graziano (succeduto a Valentiniano I, nel 475, sul trono d'Occidente) e aveva attaccato battaglia da solo contro i Visigoti ed altri popoli germanici che avevano attraversato il corso inferiore del Danubio sotto la spinta irresistibile messa in moto dagli Unni, che avevano travolto e cacciato innanzi a sé Alani, Ostrogoti e, infine, gli stessi Visigoti. L'esito era stato catastrofico: l'esercito romano era stato praticamente annientato nella pianura di Adrianopoli, in Tracia, e lo stesso Valente aveva trovato la morte in battaglia. (4) Era la prima volta che i Romani subivano una disfatta di tali proporzioni senza essere in grado di vendicarla prontamente. Dalla Tracia i Visgotoi erano dilagati per tutta la Penisola Balcanica; Costantinopoli si era salvata grazie alle sue poderose mura di cinta, ma i barbari erano giunti fino in vista del Bosforo. Graziano, che non poteva sguarnire l'Occidente a causa della minaccia portata sul limes renano da altri popoli germanici, fra i quali gli Alamanni, aveva deciso di richiamare in servizio e nominare magister equitum e poi (nel gennaio 379) suo collega per l'Oriente Flavio Teodosio, un militare in congedo oriundo di Cauca, in Spagna, che in passato aveva dato buona prova di sé. Teodosio non aveva ritenuto opportuno tentare di nuovo la sorte delle armi in campo aperto e aveva stabilito un foedus con il re dei Visigoti, Alarico, nel 382, consentendo loro di stabilirsi entro l'Impero e arruolandone molti come alleati; quindi si era rivolto contro le bande isolate che non volevano venire a patti, e aveva rastrellato l'intera regione, restaurandovi una parvenza di sovranità romana. (5)

      Teodosio aveva regnato per quindici anni, e per due volte era riuscito a riunificare tutto l'Impero nelle sue mani. La prima volta ciò era accaduto nel 388, quando aveva sconfitto a Poetovio e, poi, ad Aquileia l'usurpatore dell'Occidente, Massimo, che nel 383 aveva fatto uccidere Graziano e si era proclamato imperatore per la Gallia e la Spagna e, quindi, aveva tentato l'invasione dell'Italia: ma a quel punto Teodosio era intervenuto in difesa dei diritti del fratellastro di Graziano, Valentiniano II. Questo primo intervento era stato suggellato dalle nozze di Teodosio - rimasto vedovo della prima moglie, Flaccilla, nel 386 - con Galla, sorella dello stesso Valentiniano II (e perciò sorellastra del defunto Graziano, il suo benefattore). Da tale matrimonio era nata Galla Placidia, nel 388 o al principio del 389. (6) Teodosio aveva già, comunque, due figli maschi di primo letto, Arcadio e Onorio, nati rispettivamente nel 377 e nel 384. La seconda volta in cui Teodosio aveva riunificato l'Impero - ma solo per pochi mesi - era stata nel 394, quando aveva sconfitto presso il fiume Frigiudus (odierno Vipacco, sul Carso) un nuovo usurpatore, Eugenio, uomo di paglia del generale franco Arbogaste che, nel 392, aveva fatto assassinare Valentiniano. Galla, naturalmente, non aveva avuto pace sino a quando Teodosio non aveva raccolto un altro esercito e non aveva marciato sull'Italia per vendicare suo fratello: e così era stato. Ma Galla non aveva fatto in tempo ad assaporare il piacere della vendetta: era morta di parto nella primavera del 394, mentre la battaglia del Frigidus si era svolta il 5-6 settembre, nell'infuriare della bora. (7) Il terribile vento carsico aveva determinato l'esito della lotta, rovesciando le statue di Zeus ed Ercole dell'ultimo esercito pagano; ma il cristinanissimo Teodosio vi aveva probabilmente contratto quella malattia che lo portò poco dopo alla morte, nel gennaio del 395, a Milano. (8)

    Prima di spirare, egli aveva fatto chiamare presso di sé il figlio minore Onorio, erede designato dell'Impero d'Occidente (già proclamato Augusto nel 393), mentre Arcadio lo era per l'Oriente; e, con Onorio, era stata condotta anche la sua sorellastra Galla Placidia. Entrambi i bambini erano presenti al suo funerale, celebrato dall'arcivescovo Ambrogio, e accompagnati da Stilicone, il generale vandalo fedelissimo di Teodosio, e dalla di lui moglie Serena che, essendo la nipote prediletta di Teodosio, era la loro zia. Onorio, che aveva solo dieci anni, piangeva; Galla Placidia doveva averne sei o sette e difficilmente avrà potuto trattenere anch'essa le lacrime.(9) Lontani da Costantinopoli, dov'erano cresciuti, avevano perduti entrambi la mamma e, ora, anche il padre; intorno a loro, a parte gli zii paterni, solo estranei malfidati. Ambrogio, durante la precedente permanenza di Teodosio in Italia, nel 388-391, aveva inflitto a quest'ultimo due gravi umiliazioni: lo aveva costretto a rimangiarsi l'ordine di ricostruire la sinagoga di Callinico, in Siria (incendiata da fanatici cristiani) a spese del vescovo di quella città, e lo aveva escluso dalle sacre funzioni, scomunicandolo di fatto, in seguito alla strage di Tessalonica, da lui ordinata per punire in grave incidente verificatosi nell'ippodromo della città greca. (10) In quella triste vigilia di Canossa - come è stata definita dallo storico Corrado Barbagallo - la Chiesa cattolica aveva mostrato tutta la sua forza sul declinante Impero Romano; e Teodosio non aveva potuto fare altro che imboccare la via dell'aperta persecuzione del morente paganesimo, emanando una serie di editti che riconoscevano il simbolo di Nicea, condannavano l'arianesimo e comminavano pene severissime per quanti celebrassero ancora il culto degli antichi dèi, anche solo nelle case private.(11) Ambrogio, del resto, aveva intrapreso la via dell'aperta intolleranza verso il paganesimo già durante i regni di Graziano e di Valentiniano II, in particolare durante la disputa per la restaurazione dell'altare della Vittoria nel Senato romano: richiesta perorata dal retore pagano Simmaco ma duramente respinta dal vescovo di Milano, che non aveva esitato a minacciare i fulmini della Chiesa contro lo stesso imperatore, se questi avesse acconsentito. (12)

      Tornando a dividere l'Impero e, ancor più, abbandonando il sistema elettivo per tornare a quello dinastico, Teodosio aveva distrutto la sua stessa opera. Fra le due partes di Oriente e Occidente si era subito verificata una rottura irreparabile, aizzata da Rufino, ministro di Arcadio, che non riconosceva a Stilicone la tutela di entrambi i figli del defunto imperatore.(13) Le relazioni fra le due corti erano ulteriormente peggiorate a causa dei Visigoti, che erano tornati a farsi irrequieti e che il governo di Costantinopoli cercava di deviare contro quello di Milano. Stilicome aveva dapprima fatto assassinare Rufino, senza però riuscire a sostituirlo con un suo uomo di fiducia; poi aveva marciato contro Alarico in Grecia ed era riuscito ad accerchiarlo sui monti del Peoloponneso, dove però lo aveva raggiunto la dichiarazione di hostis publicus da parte di Arcadio (396). Allora si era ritirato in Occidente, dove aveva dovuto fronteggiare una ribellione del governatore dell'Africa Proconsularis (Tunisia), Gildone, che aveva tagliato i rifornimenti granari a Roma; poi, sedatala, una grave invasione della Pianura Padana da parte dello stesso Alarico, sempre sobillato dai ministri di Arcadio. Lo aveva sconfitto due volte, a Pollenzo sul Taro nel 401 (14) e a Verona nel 402, ma entrambe le volte lo aveva lasciato andare, contando di servirsene in un secondo tempo per recuperare alla pars occidentale l'Illirico e, forse, per trasformare la forza guerriera dei Visigoti in un puntello per l'ormai esausto esercito romano. (15)

     Questa complessa politica nei confronti dell'elemento barbarico non era stata capita dai senatori romani e dai consiglieri di Onorio (che, dal 402, aveva trasferito la sua capitale nella più sicura Ravenna), tanto più che le sue stesse origini germaniche lo rendevano sospetto di tradimento. Si sussurrava che Stilicone ambisse al trono, se non per sé, almeno per il figlio Eucherio, tanto più che le sue due figlie, Maria e Termanzia, avevano sposato Onorio, ma entrambe senza avergli dato un successore. Così, benché Stilicone  avesse nuovamente salvato Roma da un'invasione di Ostrogoti e altri gruppi germanici guidati da Radagaiso, distruggendoli a Fiesole (nel 405), il partito nazionalista romano non gli aveva perdonato di aver sguarnito il limes occidentale, consentendo la grande invasione di Franchi, Svevi, Burgundi, Alamanni e Vandali attraverso il Reno ghiacciato, nell'inverno del 406-407, che aveva sommerso le Gallie ed era dilagata oltre i Pirenei, fino in Spagna. Né gli aveva perdonato di aver preparato una vera e propria spedizione militare contro l'Impero d'Oriente per recuperare le province dell'Illirico, arruolando a questo scopo proprio i Visigoti.(16) Così, quando Alarico era tornato a farsi vivo sui confini italiani, nel 408, reclamando lo stipendio dovutogli quale magister militum e un indennizzo per l'inutile permanenza nell'Illirico in attesa di ordini, e Stilicone aveva fatto pesanti pressioni sul Senato per indurlo ad acconsentire, il suo destino era stato segnato. A Ticinum (Pavia), dove Onorio si era recato per ispezionare l'esercito in partenza per le Gallie, ove era sorto un ennesimo usurpatore di nome Costantino, le truppe si erano sollevate e avevano fatto strage di tutti i funzionari e gli ufficiali germanici o amici di Stilicone. Pare che Onorio fosse estraneo alla congiura, organizzata dal prefetto Olimpio; ma non poté resistere alle pressioni e fece dichiarare il suocero nemico pubblico. Stilicone, benché sollecitato dai suoi amici a mettersi alla testa delle truppe a lui fedeli, non volle scatenare una guerra civile e offrì il collo alla scure del carnefice, in Ravenna. (17)

      La reazione di Alarico non si era fatta attendere. Per tre volte aveva marciato su Roma, esigendo un grosso riscatto e una cessione di terre, secondo il regime della hospitalitas, fra il Norico e la Venetia, nonché il titolo di magister utriuusque militiae che, di fatto, gli avrebbe dato il comando dell'esercito romano. Olimpio non era stato in grado di organizzare alcuna contromisura militare e aveva perso il potere a vantaggio di Giovio, che in un primo tempo aveva consigliato l'imperatore di trattare ma poi, spaventato dal diniego di questi e timoroso di fare la fine del suo predecessore, le aveva interrotte, impegnandosi a essere irremovibile verso Alarico con un giuramento sulla sua stessa vita. (18).  Alla fine, Onorio si era irrigidito in un rifiuto che gli storici hanno variamente commentato, riconoscendogli però la coerenza di non aver voluto accettare un'ipoteca mortale sul destino dell'Italia e dell'Impero. Alcuni hanno ironizzato sul sovrano che, al sicuro dietro le mura e le paludi dell'imprendibile Ravenna, non si curava del terribile destino incombente su Roma; tuttavia non è chiaro che cosa avrebbe potuto fare di diverso, ora che il partito nazionalista lo aveva messo con le spalle al muro e che non aveva più uno Stilicone per fronteggiare il pericolo. Alarico aveva perfino innalzato alla maestà imperiale un sovrano fantoccio, Attalo, per poi spogliarlo della porpora, sempre in attesa di un segnale di disponibilità da Ravenna (19); ma proprio a quel punto un capo barbaro al servizio dei Romani, Saro, aveva attaccato e fatto a pezzi una schiera di Visigoti. Sdegnato, Alarico aveva rotto gli indugi ed era entrato a forza nell'Urbe, saccheggiandola per tre giorni, nell'agosto del 410. (20)

      Il fatto aveva destato in tutto il mondo romano un'eco immensa; Sant'Agostino, nel De Civitate Dei, vi aveva visto il segno di una svolta epocale. Al tempo stesso, però, non aveva esitato a sottolineare come la dura "pedagogia del disastro" nulla avesse insegnato ai cittadini dell'Urbe, ancora e sempre desiderosi di spettacoli, e si era piuttosto preoccupato di controbattere l'accusa che il sacco di Roma fosse stato provocato dall'abbandono degli antichi déi a favore del cristianesimo: "O mentes amentes, quis est hic tantus furor, ut, plangentibus orientalibus populis exitium vestrum, vos theatra quaereretis, intraretis, impleretis, et multo insaniora, quam antea, faceretis? Hanc honestatis eversionem vobis Scipio ille metuebat, quando construi theatra prohibebat (quando rebus prosperis vos facile corrumpi atque everti posse cernebat), quando vos ab hostili terrore securos esse nolebat. Neque enim censebat ille felicem esse republicam, stantibus moenibus, ruentibus moribus. Sed in vobis plus valuit quod daemones  impii sedeuxerunt, quam quod homines providi praecaverunt. Hinc est quod mala, quae facitis, vobis imputari non vultis; mala vero quae patimini, Christianis temporibus imputatis." (21) E Paolo Orosio, sulla scia di Agostino, aveva minimizzato i danni materiali subiti dalla città, affermando che gli dèi del paganesimo altra volta non l'avevano protetta da disastri assai peggiori: "È la volta di Alarico, che assedia, sconvolge, irrompe in Roma trepidante, ma dopo aver dato ordine alle truppe, in primo luogo, di lasciar illesi e tranquilli quanti si fossero rifugiati in luoghi sacri, specialmente nelle basiliche dei santi apostoli Pietro e Paolo,  e, in secondo luogo, di astenersi quanto possibile, nella caccia alla preda, dal sangue.(…) Il terzo giorno dal loro ingresso nell'Urbe i barbari spontaneamente se ne andarono, dopo aver incendiato, è vero, un certo numero di case, ma neppurtante quante ne aveva distrutte il caso nel settecentesimo anno dalla sua fondazione [cioè al tempo di Nerone]".(22)

      A Roma, più preziosa di ogni altro bottino, Alarico aveva preso prigioniera Galla Placidia, giovane di ventiquattro anni. Non sappiamo bene se la principessa avesse svolto un ruolo attivo nel dramma finale di Serena che, dopo aver perduto il marito, era stata accusata di aver chiamato Alarico per vendicarlo e perciò condannata a morte; ma è certo che fu interpellata dal Senato e diede il suo avallo formale. Forse non aveva potuto fare altrimenti, forse credette alle accuse in buona fede. È  un momento oscuro della sua biografia: pare che Stilicone e Serena avessero pensato di farle sposare il loro figlio Eucherio, anch'egli ucciso dopo la caduta di suo padre; ma non sappiamo che cosa ella  pensasse di un tale fidanzamento, se mai ebbe luogo, né che cosa pensasse della sua drammatica rottura. Sappiamo solo che, essendo venuto a morte Alarico nell'Italia meridionale, presso Cosenza (di dove sperava di passare in Africa), il suo successore Ataulfo aveva deciso di sposarla, forse per tentar di ristabilire rapporti amichevoli con la corte di Ravenna o, forse, per avanzare un'improbabile candidatura alla successione imperiale.(23) "Se Alarico - scrive il Gregorovius - non aveva saputo innalzarsi al di sopra della sua condizione di nomade guerriero barbaro, Ataulfo invece, accorto di mente e ardito di mano, sembrava avere ingegno più adatto a fondare un impero goto in Italia. (…) La superbia di Onorio doveva abbassarsi al punto di dare in sposa la sua nobile sorella ad un barbaro saccheggiatore di Roma; ma Ataulfo era entrato al servizio dell'imperatore e aveva rinunziato all'idea ardita di diventare Cesare egli stesso." (24)

      Questa è la parte più avventurosa della vita di Galla Placidia, la raffinata principessa cresciuta alla corte di Costantinopoli e ora divenuta, suo malgrado, la regina-prigioniera di un popolo barbaro che aveva violato la maestà di Roma, saccheggiandola per la prima volta dai lontanissimi tempi dei Galli di Brenno, come narrato nelle Storie di Tito Livio. Dopo la morte improvvisa di Alarico, i Visigoti avevano risalito tutta la Penisola, traversato la Gallia meridionale e poi, sempre combattendo, avevano valicato i Pirenei e si erano stabiliti in Spagna. Non è del tutto chiaro dove e quando avvenne il matrimonio: secondo alcune fonti a Forlì, nel 411, secondo altre a Narbona, nel gennaio del 414. Qualcuno ha voluto intesservi un romanzo d'amore, ma la cosa è tutt'altro che documentata: tutto quel che sappiamo è che si trattò di un classico matrimonio politico. Scrive in proposito Lidia Storoni Mazzolani: "Parlare, come hanno fatto tutti gli storici, di ardente passione è arbitrario, sia perché non è possibile provarlo, sia perché è lecito dubitare della sincerità dei sentimenti di chi ha tutto l'interesse a stringere un accordo e nulla da perdere: Ataulfo, sposando la sola erede di Onorio, ci guadagnava in prestigio, in sicurezza, nobilitava se stesso e il suo popolo; la vergine Placidia, legando il suo destino all'invasore, un vedovo con quattro figli, senza patria né casa, si affidava all'ignoto. Può darsi che abbia dato il suo consenso perché attratta da Ataulfo; o per pietà di quel popolo ramingo, o per metter fine a una situazione irta di pericoli; fors'anche per ossequio all'idea politica di suo padre, l'assimiliazione di forze germaniche come difesa dell'impero."(25) Dal matrimonio nacque un bambino, a Barcellona, che parve concretizzare la prospettiva di una fusione fra l'elemento germanico e quello romano per la salvezza dell'Impero. Gli fu imposto il nome, assai significativo, di Teodosio; ma il piccolo morì solo pochi mesi dopo.

      Nel 415, un nuovo colpo di scena: mentre i Visigoti, stretti dall'esercito romano di Costanzo - un abile generale illirico di Onorio - e ormai a corto di grano, annaspano in cerca di un riconoscimento, una congiura guidata da Sigerico toglie di vita Ataulfo, a Barcellona, dove ha posto la sua residenza. Per Placidia, è quello il momento più doloroso della sua vita: trattata alla stregua dei prigionieri di guerra, deve camminare a piedi per 12 miglia davanti al cavallo di Sigerico, in una sorta di trionfo del nuovo re  visigoto. Ma è un trionfo di brevissima durata: appena una settimana dopo, Sigerico cade a sua volta assassinato; e Placidia, ancora una volta, è sbalzata dalla sorte agli onori della regalità. Il nuovo re, Wallia, al contrario di Sigerico vuole ristabilire rapporti amichevoli con la corte di Ravenna, e per prima cosa offre ad Onorio la restituzione di sua sorella. Il generale Costanzo si reca a prelevarla presso un valico dei Pirenei e la riconduce in Italia, dopo cinque anni di assenza e sette di separazione dal fratello. La prima parte della sua burrascosa esistenza è terminata.Tuttavia l'attendono altre prove, altre difficoltà. Il suo destino è segnato da una serie di eventi eccezionali, sullo sfondo corrusco di una civiltà in agonia, mentre l'orizzonte del domani è ancora buio né vi sono indizi di una nuova alba per l'Europa martoriata da guerre, invasioni, carestie e pestilenze che ne stanno decimando la popolazione.

      Tornata a Ravenna, Placidia poté riabbracciare il fratello e, per sua volontà, contrasse un secondo matrimonio politico, sposando - il 1° gennaio 417 - il patricius Costanzo. Nativo di Naisso (Niš), la stessa città di Costantino il Grande, questi aveva compiuto una carriera spettacolare nell'esercito occidentale, sbarazzando Onorio di tutti i numerosi usurpatori che avevano tentato la scalata al potere in Gallia e in Spagna. Magister militum in Gallia nel 411, patricius dal 415, poi console per tre volte, l'8 febbraio 421 fu incoronato da Onorio co-imperatore col titolo di Augusto; di fatto, in quei dieci anni era stato lui a reggere effettivamente le sorti dell'Impero d'Occidente. (26)  Non sappiamo quali fossero i rapporti intimi fra i due coniugi, ma è certo che Placidia - che girava sempre con una scorta personale di fedelissimi guerrieri visigoti - esercitò su di lui un notevole ascendente in fatto di politica religiosa. Come Onorio e, se possibile, anche più di lui, ella era una cattolica fervente, per non dire fanatica: a lei si deve lo zelo religioso del marito che, prima del matrimonio, era stato assai tipepido in tali questioni. Alcuni storici hanno avanzato l'ipotesi che l'intransigenza della politica religiosa di Placidia sia stata, almeno in parte, il frutto di una scelta politica ben precisa, quella di appoggiarsi alla Chiesa cattolica per guadagnare, in cambio, margini di autonomia nei confronti dell'Impero d'Oriente. La cosa è possibile, ma questo potrebbe valere per il periodo succesivo, quando - morto Onorio - ella si trovò a  tenere la reggenza per il figlioletto Valentiniano, allorché venne a trovarsi in condizioni di evidente debolezza nei confronti del governo di Costantinopoli, cui doveva tutto. Questa interpretazione appare meno convincente per il periodo che va dal suo ritorno in Italia, dopo la tragica fine di Ataulfo, alla morte di Costanzo, quando anzi sembra abbia reso succube il marito della sua linea molto rigida contro i nemici - reali o presunti - della Chiesa cattolica

     Tutto il regno di Onorio, comunque, si caratterizza per una dura politica d'intolleranza religiosa, che del resto riprendeva e accentuava quella di Teodosio. Per citare solo i momenti più aspri di tale indirizzo, ricorderemo che nel marzo del 395 l'imperatore (un bambino di dieci anni) aveva riconosciuto al clero tutti i privilegi concessi dai suoi predecessori, obbligando le autorità a prenderne le difese; nell'agosto dello stesso anno aveva vietato i pubblici sacrifici e l'ingresso nei templi; nel 396 aveva tolto ogni immunità e privilegio ai sacerdoti pagani. Nel 407 aveva ordinato la chiusura e la spoliazione dei templi e nel 408 aveva escluso dal palazzo imperiale tutti i "nemici" della religione cattolica; indi, nel 411, aveva fatto cacciare dall'Africa i seguaci dell'ersia donatista. (27)  Infine, dopo il ritorno di Placidia e la proclamazione di Costanzo a suo collega, vi fu un inasprimento della legislazione contro Ebrei, eretici e pagani. In particolare, una legge del 418 escludeva gli Ebrei da qualsiasi servizio imperiale, sia civile che militare; e un rescritto imperiale del 30 aprile 418 rendeva penalmente perseguibili i seguaci del pelagianesimo, esercitando pressioni sullo stesso papa Zosimo, al punto da fargli ritirare un precedente  riconoscimento di ortodossia alle dottrine di Pelagio e da indurlo a dichiararle definitivamente eretiche. (28) Quanto a Placidia, siamo al corrente di almeno un caso, quello di un mago asiatico di nome Libanio, noto anche come guaritore, in cui ella si impuntò col marito per far emettere una sentenza capitale contro un personaggio ritenuto censurabile dal punto di vista della Chiesa cattolica, nel 421. E questa, dopo la condanna a morte di sua zia Serena durante l'assedio di Roma, nel 408, è la seconda ombra che vediamo allungarsi sulla figura della principessa; la terza sarà la crudele esecuzione dell'usurpatore Giovanni, nel 425, di cui diremo tra poco.

      La morte improvvisa di Costanzo, il 2 settembre del 421, troncò bruscamente la spettacolare carriera di questo ex militare venuto su dal nulla, e che probabilmente sua moglie non aveva mai amato né apprezzato. Però, prima di morire, egli era riuscito ad assicurare una legittima successione all'Impero, ciò che probabilmente era stato l'obiettivo di Onorio, che non aveva mai avuto figli e, a quel che si diceva, non poteva averne perché impotente. Nel 417 o 418, infatti, alla coppia era nata una figlia, Giusta Grata Onoria, e nel 419 il sospirato figlio maschio, Valentiniano, erede designato all'Impero. Ma ecco che nella vita agitata di Placidia si apre una nuova fase burrascosa: rimasta vedova (per la seconda volta), inaspettatamente i suoi rapporti col fratellastro si guastano, e per lei ha inizio un  periodo assai difficile, di cui peraltro non siamo bene informati. Il fatto è che Onorio non aveva bisogno solo di un erede, ma anche di un consigliere o, per meglio dire, di qualcuno di cui fidarsi interamente e sul quale appoggiarsi. Prima c'erano stati Stilicone, Olimpio, Giovio, Costanzo: mai era riuscito a diventare indipendente e a governare da sé. Ora che l'erede ha solo due anni e si prospetta una lunghissima minorità, Onorio cade nuovamente sotto l'influenza di subdoli cortigiani e si allontana sempre più dalla sorellastra.(29)

     In un primo tempo, a dire il vero, i loro rapporti sembravano esser divenuti fin troppo stretti. Lo scandalo di corte, che correva sussurrato per tutta Ravenna, era che il fratello carezzava la sorella e la baciava sulla bocca. (30) Lasciamo a uno psicologo disquisire se in un tale genere di intimità un uomo impotente possa trovare un surrogato di una reale vita sessuale; sta di fatto che questa morbosa attrazione si mutò rapidamente in avversione, al punto che nel 423 Placidia venne spogliata del titolo di Augusta e bandita dalla città. Umiliata e in pericolo per la sua stessa vita, ella non vide altra soluzione che lasciare non solo l'Italia, ma l'Impero d'Occidente, e prese la drammatica decisione d'imbarcarsi coi suoi figli per Costantinopoli, la città della sua fanciullezza. Tentazioni incestuose a parte, il contrasto fra Onorio e Galla Placidia aveva una precisa connotazione politica. Il primo, fedele alla sua tradizionale politica anti-barbarica, stava puntando le sue carte sul magister militum Castino per riprendere una vigorosa campagna militare contro i Vandali in Spagna (31); campagna il cui esito fu compromesso dal contrasto sorto fra lo stesso Castino e un altro generale romano, il tribunus scholarum Bonifacio, amico personale di Agostino d'Ippona. La seconda, anche per la sua storia personale, era più sensibile al vecchio progetto stiliconiano (e, in fondo, teodosiano) di integrare i barbari nell'Impero, cercando di trasformarli - a determinate condizioni -  da una gravissima minaccia in un elemento di stabilità e di difesa. Le due linee politiche non erano conciliabili e Onorio, per quanto incapace di governare da solo, aveva però sviluppato una sufficiente autonomia nei confronti della sorella, da respingere con la massima energia i suoi tentativi d'influenzarlo. Vi furono addirittura degli incidenti fra la guardia visigota di Placidia e la guarnigione romana di Ravenna, culminati nell'uccisione di due filosofi pagani (ancora il fanatismo cattolico della donna?) e, di conseguenza, nell'ordine di Onorio di lasciare immediatamente l'Italia.

 

      A Costantinopoli regnava il figlio di Arcadio (morto nel 408), quindi suo nipote, Teodosio II, che aveva sposato Atenaide, figlia di un maestro di retorica ateniese che era stata battezzata per l'occasione col nome di Elia Eudossia: donna forte e volitiva che, ottenuta la dignità di Augusta, esercitava una notevolissima influenza sul debole marito - proprio come l'aveva esercitata, prima di lui, la sorella maggiore di Teodosio II, Pulcheria. Nella città sulle rive del Bosforo, Galla Placidia rimase due anni, ospite un po' ingombrante del nipote, col quale si era frattanto imparentata. Infatti il piccolo Valentiniano era stato fidanzato con Licinia Eudossia, figlia dei sovrani d'Oriente, e mentre Galla Placidia era stata insignita della dignità di Augusta, suo figlio - dopo il fidanzamento - aveva ottenuto quella di Cesare: come dire che si preparava a salire sul trono di Ravenna, in uno sforzo politico di rinnovata concordia tra le due partes dell'Impero e fra i due rami della dinastia teodosiana.

      In Occidente, però, le cose si erano nel frattempo complicate. Onorio, rimasto solo, era venuto a morte il 27 agosto del 423 - poco tempo dopo la partenza di sua sorella - per la stessa malattia che aveva portato alla  tomba suo padre: l'idropisia. La notizia giunse rapidamente a Costantinopoli, ma quivi fu tenuta segreta per il tempo necessario affinché un corpo di truppe orientali occupasse Salona, in Dalmazia, base di eventuali operazioni verso l'Italia; poi venne celebrata con una settimana di pubblico lutto. Subito dopo parve che Teodosio II fosse giunto a un accordo con l'ambizioso Castino, poiché questi venne designato console per il 424 (con Vittore quale collega in Oriente) e l'Impero, per l'ultima volta, si trovò teoricamente riunito nelle mani di un unico sovrano. Ma alla fine del 423 il trono di Ravenna fu occupato da un usurpatore, Giovanni,  che aveva svolto le funzioni di primicerium notariorum sotto Onorio, e che probabilmente non fu altro che l'uomo di paglia di Castino, il quale pensava di utilizzarlo cone Arbogaste aveva fatto con Eugenio. Proseguendo l'analogia, potremmo dire che anche la politica interna di Giovanni, e specialmente quella religiosa, ricorda molto quella di Eugenio: infatti revocò una serie di concessioni fatte alla Chiesa negli ultimi decenni, abolì i tribunali ecclesiastici, concesse libertà alle varie sette eretiche e si mostrò tollerante perfino nei confronti del paganesimo.

      Non sappiamo fin dove si sarebbe spinto con questa politica di tolleranza religiosa, poichè l'esperimento ebbe vita breve. Mentre in Africa il comes Bonifacio si schierava contro l'usurpatore, trattenendo i rifornimenti di grano per l'Urbe, Teodosio II allestì un corpo di spedizione che affidò ai generali Aspar e Ardaburio per far valere i diritti di Placidia e del piccolo Valentiniano, suo futuro genero. Giovanni cercò di assicurarsi l'aiuto dei barbari e inviò il generale Ezio, nativo della provincia della Scythia e destinato a svolgere un notevole ruolo politico-militare, ad arruolare un esercito di ben 60.000 Unni - cifra che va presa con beneficio d'inventario. (32) Ardaburio fu gettato da una tempesta sul litorale adriatico e catturato, ma Giovanni commise l'errore di trattarlo con troppa generosità. Così, mentre suo figlio Aspar entrava in Italia dalle Alpi Giulie, a Ravenna vi fu una sollevazione sobillata da Ardaburio e Giovanni venne a sua volta fatto prigioniero. Trasportato ad Aquileia, dove Galla Placidia era giunta a sua volta, scampando fortunosamrente a un'altra tempesta (33), venne pubblicamente giustiziato dopo aver subito il taglio della mano destra e gli insulti della folla (estate del 425). Appena tre giorni dopo, secondo Filostorgio, giunse Ezio alla testa degli Unni e, da una relativa posizione di forza, poté mercanteggiare il proprio perdono, ricevendo il titolo di comes e il comando delle operazioni contro i Visigoti che minacciavano Arles. Castino, invece, venne catturato, ma gli fu inflitta la pena relativamente mite dell'esilio, da scontare in Africa.

      Da Aquileia Placidia si recò dapprima a Ravenna, quindi a Roma, dove Valentiniano (proclamato Cesare prima della partenza) ricevette il titolo di Augusto e salì ufficialmente al trono, sotto la reggenza della madre, che sarebbe durata dodici anni. I primi provvedimenti di quest'ultima furono, ovviamente, la revoca di tutte le leggi emesse da Giovanni in materia religiosa, la restaurazione dei tribunali ecclesiastici e una rinnovata persecuzione nei confronti di eretici e pagani. Basti dire che si trovava ancora ad Aquileia che già inviava al praefectus Urbi, Fausto, un decreto di espulsione contro i manichei ed altri gruppi eretici. Fra il 425 e il 426 si succedevano poi una serie di decreti contro i donatisti in Africa, indi contro Ebrei e pagani cui venivano vietati l'avvocatura, il servizio militare e il possesso di schiavi cristiani; per ultimo contro i soli Ebrei per vietar  loro di diseredare i figli convertiti al cristianesimo. Ravenna, che già aveva pagato col saccheggio la colpa di essere stata la capitale di Giovanni (34), vide inoltre la zelante repressione di quanti avevano parteggiato per il caduto usurpatore.

      Quanto alla sua politica sociale, Galla Placidia volle farsi amico il Senato romano tutelando il più possibile  gl'interessi economici che esso rappresentava. Per prima cosa decretò il ritorno degli schiavi, liberati da Giovanni per arruolarli nel suo esercito, agli antichi padroni; quindi interdì ai coloni il servizio militare, allo scopo di tenerli legati ai latifondi; inoltre proibì ai liberti qualsiasi servizio, civile o militare. Con una legge del 429, infine, riconobbe il diritto dei grandi proprietari terrieri di riscuotere le tasse nei loro possedimenti. Così, proprio mentre l'animo delle popolazioni si disaffezionava nei confronti del governo e in più zone scoppiavano rivolte contadine contro l'oppressione politica e fiscale (come nel caso dei Bacaudae nella Gallia armoricana o dei Circumcelliones in Africa), questo si legava a filo doppio con quell'aristocrazia senatoria che perseguiva il proprio limitato interesse, mostrando sempre più il suo volto - per usare una espressione gramsciana - di classe dominante piuttosto che dirigente.

      L'aspetto più delicato dell'azione politica di Galla Placidia era comunque legato alla scelta dei suoi più stretti collaboratori. Fino al 430 le funzioni di magister utriusque militiae praesentalis furono svolte da Flavio Costanzo Felice, personaggio di secondo piano che, tuttavia, si mostrò pericolosamente indipendente e pare esser stato al centro di oscuri maneggi. Il suo nome venne fatto, ad esempio, in occasione dell'assassinio di due ecclesiastici, Patrocolo vescovo di Arles e un diacono di nome Tito. Per quanto riguarda i barbari che dilagavano per tutto l'Occidente, Felice ottenne un successo locale nella zona del medio Danubio, manovrando gli Ostrogoti contro gli Unni e costringendo così questi ultimi a ritirarsi dalla Pannonia. In ogni caso, i problemi più gravi per la reggente vennero dall'implacabile rivalità fra i due generali Bonifacio ed Ezio. Quest'ultimo era riuscito a liberare Arles dall'assedio e a  respingere i Visigoti in Aquitania, sbarrando loro l'accesso al Mediterraneo; quindi aveva stipulato la pace col loro re Teoderico e lo aveva spinto a muovere contro i Vandali che, in Spagna, erano tornati a farsi minacciosi sotto il loro nuovo re Genserico, nel 427. Bonifacio governava l'Africa, ma - forse deluso per non essere stato adeguatamente ricompensato per la sua fedeltà all'Augusta - stava pensando a una secessione della sua provincia, quando ricevette l'ordine di presentarsi a Ravenna. Conscio di cosa ciò significasse, rifiutò di obbedire e fu dichiarato hostist publicus, tuttavia riuscì a sbarazzarsi con relativa facilità di una spedizione allestita contro di lui da Felice, nel 427. Quest'ultimo non si diede per vinto e organizzò  prontamente una seconda spedizione, sotto il comando di Sigisvulto, che nel 428 occupò Cartagine ed Ippona. Premuti dai Visigoti alle spalle, e profittando del difficile momento che il comes Africae stava attraversando, circa 80.000 Vandali passarono lo Stretto di Gibilterra nel maggio del 429, e invasero una dopo l'altra le province della Mauretania, della Numidia, della Proconsularis e della Byzacena. (35) A questo punto Bonifacio e Sigisvulto sospesero le ostilità per fare fronte comune contro gli invasori, e Galla Placidia concesse il perdono al suo vecchio generale. Ma ormai il danno era fatto: la marcia devastatrice dei Vandali ariani verso occidente non si sarebbe più fermata, tingendosi delle cupe tinte di una persecuzione etnica e religiosa ai danni dei Romani cattolici. Genserico si rivelò un capo straordinariamente astuto e non si lasciò irretire nelle ambigue trattative avviate da Bonifacio per tentare di arginarne i progressi. (36)

     Molti membri del clero cattolico fuggivano terrorizzati davanti ai Vandali, ma il vescovo Agostino ne stigmatizzò il comportamento, affermando che "chi fugge e lascia privo il suo gregge cristiano del suo alimento spirituale", non è un sacerdote, ma "un vile mercenario."(37) Nella tarda primavera del 430 Bonifacio raccolse un modesto esercito e tentò la sorte delle armi, ma fu disfatto da Genserico sotto le mura di Hippo Regius (Bône, oggi Annaba) e subito dopo i Vandali posero l'assedio alla città. Esso durò un anno intero, fino all'estate del 431: quando infine la città, stremata, cadde nelle mani dei barbari, il vecchio vescovo Agostino era già morto. Egli aveva ammesso bensì che l'Impero Romano era stato voluto dalla Provvidenza divina e che la felicità dei buoni imperatori era consistita nel mettere la loro autorità al servizio di Dio, per estendere il suo culto; ma aveva pure ammonito che un Impero, conquistato con le armi non è un bene, e che "è male desiderare di avere qualcuno da odiare o da temere per avere qualcuno da vincere". (38) Nella riflessione teologica del massimo padre della Chiesa, dunque, era già l'implicita idea che se il Regno di Dio non è di questo mondo, l'Impero può anche perire, poiché non perirà con esso la Città Celeste.

      Placidia si destreggiava come meglio poteva fra i suoi ambiziosi generali, ma non era in grado di controllarli. Nel maggio del 430 si arrivò alla resa dei conti tra Ezio e Felice e quest'ultimo venne assassinato sulla porta della Basilica Ursiana, a Ravenna, con la moglie e un suo consigliere. Intanto gli Unni avevano attaccato i Burgundi nella valle del Neckar, dove questi si erano stabiliti, venendone però sconfitti, e questo indebolì automaticamente la posizione di Ezio, che grazie ai suoi rapporti personali con gli Unni li aveva tenuti sospesi sul governo di Ravenna come una minacciosa spada di Damocle. Placidia ritenne giunto il momento di sbarazzarsi di lui e a tale scopo richiamò dall'Africa il comes Bonifacio (che nel 432 aveva subito dai Vandali, nonostante l'arrivo di un esercito orientale guidato da Aspar, una nuova e decisiva sconfitta). Giunto a Ravenna, Bonifacio si riconciliò definitivamente con Placidia, ottenendo il titolo di patricius, ch'era stato già di Felice e si preparò allo scontro con Ezio, che interruppe una campagna militare contro i Franchi per rientrare precipitosamente in Italia. Lo scontro avvenne ad Ariminum nel 430 e la vittoria rimase a Bonifacio che però, gravemente ferito, morì tre mesi dopo. Ezio, che era riuscito a fuggire dai suoi amici Unni, minacciò d'invadere la Penisola alla loro testa, e a Placidia non restò altro che trattare. Così Ezio ottenne per la seconda volta il perdono e la nomina sia a  magister utriusque militiae praesentalis che a patricus, assommando i vertici del potere nelle sue mani.(39) Era il 434 e il tentativo dell'Augusta di destreggiarsi fra i suoi generali, manovrandoli gli uni contro gli altri per conservare una certa libertà d'azione, poteva considerarsi fallito. Ezio avrebbe conservato il potere de facto sull'Impero di Occidente fino al 454, quando Valentiniano III, esasperato dalla sua arroganza, lo uccise di sua mano (40): ma Placidia non potè rallegrarsi della sua fine, poiché era già morta da quattro anni. Inoltre, il gesto disperato di Valentinano III causò la sua stessa rovina e, in definitiva, la rovina finale dell'Impero, che privo di una stabilità dinastica e di una forte guida militare, cessò di esistere nel 476, con la deposizione di Romolo Augusto.

      La situazione di tutto l'Occidente si andava facendo sempre più precaria. I Visigoti di Tolosa erano costantemente sul piede di guerra; i Vandali, in Africa, minacciavano ormai Cartagine e iniziavano una serie di micidiali scorrerie piratesche sulle coste del Mediterraneo, che sarebbero culminate (dopo la morte di Valentiniano III, nel 455) nel secondo sacco di Roma, molto più lungo e sistematico del primo; le continue rivolte dei Bacaudae nel Tractus Armoricanus: tutto ciò rendeva impossibile una stabilizzazione. Teodosio II, a Costantinopoli, aveva altri gravi problemi a cui pensare, a cominciare dalla minaccia degli Unni sul basso Danubio e a quella dei Persiani sull'Eufrate. Uno storico anglosassone ha scritto che "era come se l'Oriente si sentisse obbligato a prestare il proprio aiuto per salvare le apparenze, ma limitasse oltremodo questo aiuto. Aiutare l'Impero d'Occidente era, almeno per certi uomini di stato orientali, un'attività di cui non si vedeva la  convenienza". (41) Un indizio di tale "raffreddamento" si può vedere, ad esempio, nel fatto che quando Teodosio II promulgò il suo famoso Codex Theodosianus, nel febbraio 438, il documento venne approvato dal Senato di Roma nel dicembre e, solo allora, esteso all'Occidente: da quel momento, una norma esplicita chiariva che qualsiasi legge promulgata a Ravenna o a  Costantinopoli avrebbe avuto validità solo entro i rispettivi confini, salvo apposita ratifica da parte dell'altro Augusto. Insomma, non si trattava più due partes di uno stesso Stato, ma di due Stati giuridicamente, oltre che materialmente, separati e distinti.

     Indubbiamente Ezio, con la sua forte personalità e con le sue innegabili capacità militari, costituì un fattore di relativa stabilità per l'Occidente, ma la sua azione politica era viziata da due pesanti limiti: la disinvoltura con cui cedeva territori romani ai popoli barbari per avere le mani libere a Ravenna, e la stretta alleanza con l'aristocrazia latifondista, i cui interessi coincidevano solo in parte con quelli dello Stato. Come già Stilicone prima di lui, egli scartò la via di una stretta alleanza con l'Impero d'Oriente - che avrebbe comportato un indirizzo antigermanico in politica estera e, sul piano interno, una ripresa della politica di Valentiniano I a favore delle città, della borghesia e del commercio - per seguire quella di una decisa autonomia dell'Occidente. In pratica, ciò significava legarsi fino in fondo all'aristocrazia latifondistica italica e gallo-romana; di conseguenza,  abbandonare i latifondi transalpini ai Bacaudae e alle invasioni germaniche avrebbe comportato una specie di suicidio politico da parte del patricius. Erettosi a campione di un ordine sociale basato sul latifondo, Ezio non poteva - senza danno per lo Stato e pericolo suo personale - permettere che le basi economiche di esso venissero distrutte irreparabilmente. Di qui le sue frequenti campagne contro Burgundi, Franchi e Visigoti, ma anche - come appunto aveva fatto Stilicone - la sua accortezza nell'evitare con essi uno scontro all'ultimo sangue poiché, scartata una politica di  subordinazione a Costantinopoli, non restavano che i barbari quale riserva di forze fresche per il traballante Impero. Da ciò l' intima contraddizione della sua politica e le conseguenti difficoltà, che alla lunga si sarebbero rivelate insolubili. Come Stilicone, dovette giocare col fuoco per conciliare la politica filo-barbarica con gli interessi dell'aristocrazia senatoria, e ciò apparve evidente quando, dopo aver sconfitto Attila nella grande battaglia dei Piani Catalauni nel 451, gli permise poi di ritirarsi indisturbato - come già aveva fatto Stilicone con Alarico dopo Pollenzo e Verona, quarant'anni prima. "Di questo patrizio - osserva uno storico inglese - possiamo almeno dire quanto segue: una volta che aveva deciso di appoggiare un ordine sociale le cui basi economiche erano venute meno da lungo tempo, dei metodi politici onesti non erano più adeguati."(42)

      Appunto con la necessità di aver le mani libere all'interno, si spiega l'ingannevole trattato di pace con Genserico siglato ad Hippo Regius nel 435 che, riconoscendo ai Vandali le conquiste fatte, lasciava ai Romani il controllo di Cartagine, di parte della Proconsularis e della Byzacena. In compenso, Ezio sconfisse i Burgundi che, col re Gohar, avevano invaso la Belgica Superiore (nel 435) e, con l'aiuto degli Unni, respinse i Visigoti da Narbona (nel 437). Una seconda campagna contro i Burgundi, questa volta condotta da un esercito interamente unno, ne spense per sempre la minacciosa potenza. Contro i Visigoti il generale Litorio (che era un pagano) subì una disfatta davanti a Tolosa e fu messo a morte dai vincitori, nel 439; Ezio dovette intervenire di persona per la seconda volta  e stipulò una pace di compromesso.

     Nel 437 Valentiniano aveva compiuto i diciotto anni e si recò a Costantinopoli per celebrare le nozze con Eudossia, il 29 ottobre. Alcuni storici, come Edward Gibbon, hanno emesso un giudizio severo tanto su Valentiniano III che sulla madre di lui. "Placidia - scrive l'autore del celebre The Decline and Fall of the Roma Empire - invidiò, ma non poté uguagliare la reputazione e la virtù della moglie e della sorella di Teodosio, l'elegante ingegno di Eudocia e la saggia e felice politica di Pulcheria. La madre di Valentiniano era gelosa di quel potere, che non poteva esercitare." (43) Ma, per essere giusti, bisogna ammettere che ella si trovò a governare l'Impero di Occidente in tempi eccezionalmente difficili, sola e senza consiglieri di cui potersi fidare; e tuttavia riuscì ad assicurare la lunghissima reggenza fino alla maggiore età del figlio, garantendo la continuità dinastica che era, essa stessa, un potente fattore di stabilità: come si vide con l'anarchia scatenatasi dopo la morte di suo figlio, nel 455, che portò l'Impero alle convulsioni finali. Eudossia, però, diede due figlie a Valentiniano, Eudocia (nel 438 o 439) e Placidia (nel 442), ma nessun erede maschio, e l'ombra dell'incertezza tornò a stendersi all'orizzonte di Ravenna, come negli ultimi anni del regno di Onorio. Ezio, invece, aveva un figlio - Gaudenzio - e nessuno poteva dimenticare come la voce pubblica avesse a suo tempo accusato Stilicone di ambire al trono per suo figlio Eucherio, facendolo sposare appunto con la giovane Galla Placidia. Certo è che Ezio, a un certo momento, cominciò a pensare seriamente d'imparentarsi con Valentiniano, mediante un matrimonio fra Gaudenzio e Placidia: pare anzi che fosse questa sua insistenza a provocare la reazione di Valentiniano che, più tardi, lo uccise di sua mano. (44)

     Intanto, dopo quattro anni di pace, Genserico in Africa riprese le ostilità contro i Romani e finalmente conquistò Cartagine, facendone la capitale del suo regno (19 ottobre del 439). Fu un colpo mortale per l'Urbe e per l'Italia: come ai tempi delle guerre puniche, il Mediterraneo non era più un Mare nostrum, le scorte granarie non erano più assicurate e la foce del Tevere si trovava esposta all'incursione delle veloci navi nemiche, che in pochi giorni di navigazione potevano colpire ad ogni momento. Nella Proconsularis i proprietari romani furono espropriati e il loro ceto venne praticamente distrutto: i Vandali non chiedevano un terzo delle terre, secondo l'usuale regime della hospitalis, ma si prendevano con la forza tutto quanto volevano; e aggiungevano alla violenza sociale quella reliosa, trattando gli abitanti di quelle ricche e civili province come dei vinti da sfruttare senza riguardo.Genserico fece anche qualche tentativo per conquistare la Sicilia e assediò Palermo, ma per il momento non riuscì a realizzare i suoi piani (fine del 440). Nella primavera del 421 giunse nell'isola una grande flotta orientale di soccorso, forte di oltre 1.000 navi, ma il pericolo era già passato, e dopo un anno d'inutile permanenza essa ripartì alla volta di Costantinopoli. A Valentiniano non rimase altro da fare che concludere la pace con Genserico, ottenendo la restituzione della Mauretania e della Numidia (ossia delle regioni più povere e devastate) e la cessazione delle micidiali scorrerie navali.

      In politica interna Valentiniano fu, in un primo tempo, meno generoso di sua madre verso i privilegi della Chiesa cattolica, a ciò indotto anche da una più realistica valutazione della disperata situazione in cui versava il bilancio statale. Il nuovo praefectus Urbi, Petronio Massimo, aveva  fatto notare che l'enorme diffusione delle esenzioni faceva ricadere tutto il peso del fisco su strati sempre più miseri della popolazione, e nel 440-41 l'imperatore revocò una serie di esenzioni tributarie, comprese quelle riguardanti la Chiesa. Ma le classi privilegiate reagirono con una levata di scudi alla perdita dei propri privilegi e Valentiniano, che non poteva né voleva entrare in urto con esse, nel marzo del 450 decise il condono di tutte le tasse arretrate fino al 31 agosto del 447. Ma - osserva uno dei migliori storici di questo periodo, il Jones - "quando si ammetteva che la situazione finanziaria era disperata, tale generosità all'ingrosso era una colpevole debolezza." (45) Anche nei confronti della Chiesa il suo atteggiamento si modificò, tornando a un certo punto - quasi spaventato dalla sua stessa audacia - nel solco della politica materna, sia in materia di esenzioni, sia nella repressione di eretici e pagani.

      "La politica religiosa di Valentiniano III - scrive l'Enciclopedia Cattolica - fu diretta a  reprimere sempre più il paganesimo, a tutelare la fede cattolica e combattere gli eretici. Nel 451 proibì sotto pena di morte e confisca dei beni che si riaprissero  i templi già chiusi o si facessero sacrifici (Cod. Iustin., I, 11, 7). Scrisse insieme con la madre e la moglie a Teodosio II perché si procedesse contro Eutiche [un monaco monofisita di Costantinopoli che verrà condannato dal concilio di Calcedonia del 351] (PL 54, 858 sgg.), e nel 452 decretava che fosse riabilitata la memoria del patriarca Flaviano (Cod. Iustin., I, 3, 23); nel 451 confermava tutti i privilegi concessi alla Chiesa cattolica e abrogava i decreti contrari (ibid., I, 2, 12). Decreti contro gli eretici e specialmente contro i nestoriani pubblicò nel 428 e nel 435 (ibid., I, 1,3; I, 5, 6); nel 445 emanò una costituzione contro i manichei, con la quale erano dichiarati nemici dello Stato, ed era ordinato di cacciarli dalle città, era loro vietato di accedere alle cariche civili e militari ed erano privati di ogni diritto civile (PL 54, 622-24)." (46) E tuttavia, non potendo ignorare il grido d'allarme dei suoi consiglieri finanziari, proibì a schiavi, curiali e membri del corpo dela mercatura di farsi preti o monaci, poiché il fisco non avrebbe retto a un ulteriore restringimento della sua già esigua base tributaria. In ciò, del resto, non faceva che riprendere aspetti della legislazione dioclezianea, volta a legare ogni suddito alla propria professione. Stabilì inoltre che le cause penali e anche civili riguardanti il clero fossero sottratte alla giurisdizione vescovile (salvo esplicita autorizzazione imperiale), riservando a quest'ultima le sole cause religiose. Più in là egli non osò andare, dal momento che non intendeva giungere a una rottura con la Chiesa.

      Intanto gli Unni avevano trovato l'unità politica sotto i